Lance ricordava l’ultima
volta che era stato in cima al Monte Pira. Ce lo aveva portato Drake due anni
prima, per un picnic nella notte del festival di primavera. Sotto una cappa di
nebbia, con il tintinnio di una prateria di Chimeco danzanti nelle orecchie, il
suo mentore aveva recitato un poema che un cantastorie ardeco, un certo Iakobos,
aveva inciso su una tavoletta in onore del
fronte dei fiori di ciliegio che sostava alle pendici dell’altura
prima di salire verso Forestopoli. Chissà
dove lo aveva imparato, Drake, l’ardeco. Avrebbe voluto chiederglielo. Avrebbe
voluto chiedergli molte cose.
Stropicciò
il berretto da marinaio che teneva tra le mani per drenarlo dalle lacrime e lo
appoggiò sulla superficie levigata della lapide di fronte a lui, non nascondendo
a se stesso la speranza che una sferzata di vento se lo portasse via per
interrompere l’impietoso sguardo critico del copricapo. Non gli serviva un
berretto a ricordargli che Drake lo aveva a tutti gli effetti ucciso lui.
Lance aveva messo un po’
a scendere a patti con questo fatto. Nel guaime della sconfitta di Dà Hàak
Loi’i, tra le folle festanti di mezza Kanto meridionale, non c’era stato proprio
tempo per compilare il questionario di autovalutazione delle responsabilità, e i
quattro giorni immediatamente successivi erano stati talmente ordinari che era
venuto spontaneo chiedersi se il triduo di guerra aperta tra la Lega Unica e il
demone ardeco alto due palazzi non fosse stato un’allucinazione collettiva.
Perciò, tra una cosa e l’altra, la realizzazione che accettare di collaborare
con Dà Hàak in cambio del Patto con l’Abisso stipulato ai tempi del Torneo aveva
indirettamente causato il sacrificio di Drake aveva colto Lance circa mezz’ora
prima, nel mezzo del suo elogio funebre all’amico scomparso, che in quanto a
occasioni ideali per crisi di coscienza non era esattamente in cima alla lista.
Alla fine della cerimonia si era dileguato per
inerpicarsi in solitaria fino alla tomba, depositare il cappello e volare via il
prima possibile. Eppure non riusciva a voltare le spalle a quella reliquia del
passato marittimo di Drake e le deboli folate di alta quota che spiravano sulla
cima del monte rifiutavano di concedere a Lance il minimo aiuto. Per quanto
avesse deciso di andare lì
per stare da solo, scopriva solo ora che era l’ultima cosa che voleva.
La campana del santuario interno iniziò
a rintoccare. E insieme ai suoi rintocchi la brezza primaverile accompagnò un
altro suono, più asciutto e crepitante: suole di gomma che strisciavano sulla
ghiaia. Lance si voltò a guardare Norman Holverson, da Petalipoli con furore,
che scalava l’ultimo gradino e sostava a ripagare il debito d’ossigeno contratto
per vincere la sua sfida personale contro la gravità.
«La prossima volta» disse fingendo con scarso successo di non avere il fiato
corto «prendo l’ascensore».
Il poveretto era talmente sudato che un Masquerain
aveva preso a ronzargli attorno sperando di abbeverarsi alla sua fronte. A
scapito dei sensi di colpa, Lance non riuscì
a trattenere un sorriso. «Da quanto non ci vediamo? ».
«Cinque minuti, credo. Ricordi? Ero in prima fila al funerale. Quelli sì che
erano bei tempi».
Avrebbe voluto avere il suo spirito di fronte alle
avversità.
Dovevano avere la stessa età o giù di lì, entrambi affacciati a una crisi del
quarto di secolo, eppure sembrava essere Lance quello a cui era morto il padre
la settimana scorsa. «Venuto a rendere omaggio? ».
«Al mattone imbiancato?». Norman dondolò il naso in direzione del monumento in
memoria di Drake. «Bella tomba, mi ricorda una saponetta».
«Hanno avuto pochi giorni per allestirla».
«A mio padre non sarebbe fregato nulla in ogni caso. No, non sono venuto qui per
quello». Norman si drizzò sulle gambe come su due trampoli, tenendole rigide per
evitare strappi. Masquerain si involò giù per il pendio ovest del Monte Pira
alla ricerca di una sorgente idrica meno sarcastica. «Cercavo te. Volevo
complimentarmi per il discorso di oggi».
Vento tra gli steli d’erba
e Wingull che garrivano. Lance studiò con attitudine investigatrice la
gestualità del suo interlocutore per scorgere evidenze di ironia, forse un
preludio a «bell’elogio,
mi ha ricordato i cori monacali della Torre Sprout»,
ma non trovò nulla. «Sul serio?».
«Non l’ho mai conosciuto veramente. Sentirlo descritto come hai fatto tu,
sentire della vostra ultima notte… È stata un’esperienza. Mi hai fatto venir
voglia di conoscerlo meglio. Sempre detto che i funerali bisognerebbe farli
quando si è ancora vivi».
«Padre poco presente?».
Norman sbuffò.
«Faceva i compleanni. Nemmeno tutti, solo i multipli di cinque. A girare troppo
con i suoi Shelgon era diventato come loro».
«Conosco il tipo».
«È per questo che ho voluto avere una figlia presto, per esserci nella sua vita.
Voglio che May abbia quello che mio padre non mi ha dato».
Lance ebbe un piccolo sobbalzo interiore.
«Quanti anni?».
«Sessantaquattro. Lo so, li porto bene, faccio Palestra tutte le mattine».
«Norman».
«Tredici mesi la scorsa settimana». Infilò le mani in tasca. «Si nota? Con tutto
quel correre dietro a pannolini anche io comincio ad assomigliare ai miei
Slaking. Dev’essere il destino degli Holverson».
Poteva essere che Norman fosse ben più
vecchio di quanto apparisse? Lance tentò di ricordarne l’aspetto ai tempi del
loro primo incontro al Torneo della Grande Unificazione e, non riuscendoci,
provò a concentrarsi sul suo stato attuale per inferirne l’età. Le occhiaie e la
nascente pancia da birra erano usura neogenitoriale o contrassegni degli anni
che avanzavano? Aveva faticato a scalare il Monte perché fuori allenamento o
perché la sua forma fisica non era più quella di una volta?
Che mucchio di idiozie. Norman aveva la sua stessa età,
uno o due anni in più al limite, e la sola ragione per cui Lance cercava
disperatamente una prova del contrario era perché era terrorizzato dalla sua
stessa inadeguatezza. Messo in soggezione dal fatto che a venticinque anni il
suo interlocutore aveva messo su famiglia mentre eccolo lì, il grande Campione
di Kanto e Johto, l’Allenatore più forte del mondo, completamente solo. Chi
aveva nella sua vita? Suo zio e sua cugina Clair, e fine della lista. Gli unici
con cui fosse riuscito a legare negli ultimi vent’anni, Drake e Blue, li aveva
venduti entrambi a un demone ardeco per vincere uno schifo di torneo. Certo che
conosceva il tipo che somigliava a uno Shelgon, lo guardava in faccia ogni
mattina davanti allo specchio.
L’autocommiserazione
di Lance fu interrotta da una replica dello scricchiolio che aveva annunciato
l’arrivo di Norman; questa versione, però, era meno sabbiosa e più solida. Non
erano scarpe di tela quelle che affondavano nel pietrisco del sentiero, erano
scarpe di pelle dal tacco rigido e alto, forse anche eccessivamente alto. Si
voltarono entrambi per assistere all’ascesa regale di un uomo sulla quarantina
in impermeabile nero a doppiopetto, pochette rossa in fuga dal taschino e
borsalino che adombrava il suo sguardo e sopperiva alla statura sotto la media.
«È Capodanno quassù» cinguettò Norman «Il becchino, immagino? Vi abbiamo davvero
fatto sudare la paga, oggi. Scommetto che non vi capita tutti i giorni di
portare la bara su per novecento metri».
«Il Campione di Kanto non ha intenzione di fare le presentazioni?».
Lance cercò
di nascondere l’irritazione al meglio delle sue possibilità. «Norman, questo è
Giovanni. Sesto classificato al Grande Torneo di Kanto-Johto, Capopalestra di
Smeraldopoli.
Oyabun dei
Rocket, quindi non ci sei andato troppo distante».
L’uomo
alzò gli occhi. «Dobbiamo fare così ogni volta?».
Norman si passò
una mano sul mento. «Giovanni. E il cognome è riservato?».
«Giovanni è il cognome».
«Deve aver avuto un’infanzia difficile».
Giovanni produsse una risata più
simile a un accesso di tosse grassa. «Mi dicono spesso che ho l’aria di uno che
ha sentito tutte le battute che ci sono da sentire a riguardo. Lei invece
dev’essere Holverson figlio». Strinse la mano di Norman nella sua, foderata in
un involucro di cuoio, come una serpe che avvolge la preda. «Le mie
condoglianze. Perdoni il guanto. Xerosi cronica».
Lance non ne fu sorpreso. Se anche così
a sud andava in giro vestito così, doveva aver secreto in sudore l’ultima goccia
d’acqua nel suo corpo due o tre anni prima. «Per questo è venuto qui? Terapia
termale a Cuordilava?».
«Sono venuto a omaggiare un eroe morto per la mia regione». Giovanni si avvicinò
al monolito di marmo e lo accarezzò con un movimento che aveva un che di
innaturale, come un attore alla sua prima prova generale con gli oggetti di
scena presenti. Anche se la sua pelle non aveva fisicamente toccato il
monumento, tanto bastò a fare irrigidire Lance. «Avreste dovuto avvertirmi,
avrei potuto fare qualcosa».
«Sono sicuro che i suoi Rocket sarebbero stati di grande aiuto. Magari mentre
combattevamo avrebbero potuto infilarsi nelle case e ripulire le casseforti».
«Non ricordo lamentele formali da parte della Lega da lei guidata, o sbaglio?».
Di fronte al silenzio di Lance, gli orli delle labbra di Giovanni si distorsero
appena in un sogghigno trattenuto. «Le concedo che l’episodio di Celestopoli è
stato increscioso, ma è stato, appunto, un episodio. Ho accompagnato
personalmente il responsabile alla Centrale di Aranciopoli. Non infanghi il
nostro buon nome».
Norman ridacchiò.
Si appollaiò su uno spuntone roccioso che protrudeva da una macchia d’erba di
fianco alla tomba, sfilò un pacchetto di sigarette dalla tasca posteriore dei
jeans slavati e ne accese una con un unico gesto fluido. «Ne ho conosciuta di
gente come lei». Risucchiò il fumo dall’aculeo incandescente di tabacco e lo
sputò fuori dopo avergli concesso una gita nell’apparato respiratorio. «Troppi
interessi in ballo perché il suo impero possa crollare». Rivolse gli occhi a
Giovanni, ma in un certo senso sembrava che il suo sguardo lo attraversasse
ignorandolo, diretto all’orizzonte marino dietro di lui. «Fossi in lei starei
attento. Per mia esperienza, un giorno di questi troverà qualcuno a cui non
importa niente».
In quel momento il vento smise di soffiare.
La transizione fu immediata e per nulla
impercettibile. Gli steli d’erba
che ballonzolavano avanti e indietro si irrigidirono, le nuvole in viaggio nei
pressi del Monte Camino si paralizzarono, le increspature di spuma sul mare in
lontananza cessarono di apparire e scomparire.
«Tale padre, tale figlio».
Giovanni non aveva smesso di osservare Norman con uno
sguardo che, più
che irritato, pareva stanco. Solo allora Lance si accorse che il nugolo di fumo
che saliva a elica dalla bocca socchiusa del fumatore era incastonato nell’aria,
impossibilitato a disperdersi. Lo stesso Capopalestra era immobile con i gomiti
sulle ginocchia e la schiena curva in avanti, nessun gonfiamento ritmico della
cassa toracica a segnalare un respiro.
Non si era fermato il vento, si era fermata ogni cosa.
O, per essere più
precisi, ogni cosa tranne lui e Giovanni.
«Non sono venuto per omaggiare Holverson. Ma immagino non ci fosse bisogno di
dirtelo».
Lance alzò
la mano alla cintura e sfiorò la Poké Ball del suo primo Dragonite. Cercò di non
pensare al fatto che, se aveva capito bene le regole, difficilmente sarebbe
riuscito a farlo uscire dalla sfera. «Chi sei?».
«Questo
è il Lance che conosciamo».
Riconobbe immediatamente la voce. Era cavernosa oltre
i limiti di due polmoni umani, con occasionali slittamenti acuti dal suono di
forchette che graffiano una roccia, e più
di tutto era umida, come se fosse emessa da una creatura con una lingua troppo
grande per stare all’interno della bocca. E in fondo come avrebbe potuto non
riconoscerla? L’aveva udita l’ultima volta appena una settimana prima, quando
insieme a Blue era entrato nell’Abisso. «Dà Hàak Loi’i».
Da Giovanni, ammesso che un Giovanni ci fosse andato
quel giorno sul Monte Pira, non giunse risposta. L’involucro
vuoto che aveva di fronte si limitò a perforarlo con due zaffiri incastonati
negli occhi, una sfumatura d’azzurro che Lance e i suoi colleghi conoscevano
bene dagli incubi che facevano ogni notte.
«Perché sei qui?».
Mentre lo sguardo del giovane vagava senza meta nel
tentativo di evitare di fissare direttamente le pupille infernali di Dà
Hàak, le sue orecchie si aggrapparono all’unico suono udibile come alla barra di
sicurezza di un treno che sfreccia incurante delle leggi d’inerzia. Era un
raschiare ciclico di un rastrello su muro, un deglutire difficoltoso, un
risucchio incompiuto che lasciava sempre dietro di sé una goccia di troppo. Con
suo orrore, Lance si rese conto che era prodotto dall’unica sorgente di moto in
un universo paralizzato: il sangue che pompava sotto la sua pelle.
«Per
darti preannuncio».
«Di cosa?».
«Tra
quattordici anni il più
grande conflitto della storia di questo mondo infurierà sull’Ardecia. Le vostre
nubi si incendieranno, i vostri monti si solleveranno, i vostri mausolei
tremeranno e si inabisseranno. Le tre Entità Supreme solcheranno nuovamente i
cieli di questo mondo. Approntati alla guerra, Lance, o né tu né la tua specie
sopravvivrete».
Mentre Dà
Hàak parlava era successo qualcosa di strano. Lance aveva notato già dal loro
primo incontro che, nonostante il demone parlasse in un registro più forbito del
suo, nessun ostacolo linguistico gli aveva mai impedito di comprenderlo. Questa
però era stata la prima volta in cui aveva percepito fisicamente le immagini
evocate dal suo interlocutore scolpirsi nella sua testa, quasi Dà Hàak gli
avesse aperto lo scalpo, estratto il cervello e manipolato la materia grigia
affinché i dendriti convogliassero suoni e colori nella combinazione corretta a
rendere il suo messaggio. Lance non aveva visto ciò che Dà Hàak gli aveva detto,
ma era successo qualcosa di molto simile: l’aveva
ricordato.
«Perché me lo stai dicendo?».
«Per
consentirti di prepararti a dovere. Il tuo aiuto ci sarà
prezioso quando verrà il tempo».
«Ero convinto che io e te avessimo finito».
«Hai già
dimenticato il nostro Patto?».
La maschera di Giovanni rimase impassibile, ma Lance percepì distintamente,
nella voce del suo interlocutore, una smorfia di finta offesa. «Permettici
di correggere la tua inottemperanza».
Pennacchi di vapore ceruleo eruttarono tra gli steli d’erba
con un rumore ovattato che ricordava un esercito di ombrelli che si aprono.
Sotto i raggi freddi di un sole immobile presero forma sagome di uno sfondo
accennato come quello di una rappresentazione teatrale a basso costo: due assi
di legno a simboleggiare un corridoio, una bacheca, gli stipiti di una porta che
aveva attraversato più di una volta sull’orlo di una crisi nervosa.
In quello scenario iniziarono a muoversi due figure
umanoidi che, nonostante i tratti fisionomici sfumati, Lance riconobbe
immediatamente. La prima era Dà
Hàak come gli si era presentato la prima volta che si erano visti, non come
Giovanni ma sotto forma di un uomo più anziano, tendente alla sessantina, che a
un livello inconscio gli aveva ricordato molto suo padre, fatto che ora si
rendeva conto doveva essere stato tutto fuorché accidentale. E la seconda,
ovviamente, era lui stesso cinque anni più giovane. Il Grande Torneo
dell’Unificazione. Semifinali contro Lorelei. Sala d’attesa.
Stipuleremo un
Patto con l’Abisso.
Ogni parola e azione che Lance vedeva impastava il suo
sangue con una sensazione di déjà
vu, quasi fosse stata estratta direttamente dalla sua memoria. Sapeva cosa la
sua controparte stava pensando in quel momento, ricordava le acrobazie
dialettiche per autoconvincersi che, mentre Lorelei aveva intenzione di
imbrogliare, quello che Dà Hàak gli proponeva era più vicino a una sessione
intensiva di allenamento. Che, dopotutto, Kanto avrebbe beneficiato da un
Campione in grado di difenderla, e se quel Campione avesse raggiunto quel
livello in modo innaturale, be’, chi sarebbe venuto a lamentarsi?
Quante assurdità
per negare a se stesso l’unica verità: che, a dieci anni dall’inizio del suo
viaggio come Allenatore, la possibilità di vincere il Torneo era l’unica cosa
che gli rimaneva.
Un patto?
Il potere del
più
grande Allenatore mai esistito. In cambio della tua lealtà.
Il Lance del passato volse le spalle al suo
interlocutore ritrovandosi inconsapevolmente faccia a faccia con il Lance
odierno. E per quanto fosse impossibile, per quanto il Campione comprendesse
pienamente che quella era solo la proiezione di un ricordo, qualcosa che ad anni
e centinaia di chilometri di distanza era stato e non era più,
ebbe comunque la sensazione che il sé più giovane lo stesse guardando con
disapprovazione. È colpa tua,
sembrava dire.
È sempre stata colpa tua.
Lealtà
per cosa?
«Ho capito».
Per sempre.
«Ho detto che ho capito!». Un telespettatore invisibile mise in pausa la
registrazione. Lance sbatté le palpebre nel tentativo di impedire ad alcune
gocce ostinate di scavalcare le caruncole lacrimali. «Sei stato chiaro».
«Rivolgiti
a noi come meritiamo».
Dà
Hàak si era preso il suo tempo nel pronunciare quella frase. Lance non trovò
nemmeno la forza di sostenere il suo sguardo. «Siete stati chiari».
Così
com’erano giunti, gli spettri del suo passato evaporarono e si dispersero
nell’atmosfera inerte, abbandonandolo sul Monte Pira in compagnia di un
burattino senza fili e di Norman, che Lance per la verità aveva dimenticato
essere ancora ricurvo sul suo sgabello roccioso, immerso nella più lunga boccata
di sigaretta nella storia umana. Sperò che tutto finisse in fretta, che Dà Hàak
rimettesse in moto l’universo e Giovanni e Norman se ne andassero e che lui
potesse rimanere lì, di fronte alla tomba di colui che aveva ucciso, a dibattere
con se stesso se buttarsi o meno giù per la scarpata avrebbe risolto qualcosa.
Poi qualcosa in lui scattò.
Lance non seppe dire che cosa nella vista di quel Norman spento, come una
bambola meccanica scarica di quelle che ciclicamente si affacciavano sui tavoli
dei mercati dell’usato di Violapoli, lo fece riprendere. Forse fu la noncuranza
con cui pochi minuti prima aveva affrontato il più grande criminale di Kanto,
forse il fatto che aveva parlato così nonostante avesse una famiglia a cui
badare o forse fu solo il pensiero del suo perenne sarcasmo che gli dava un’aura
da ribelle.
«Annullo il Patto».
Per la prima volta da quando il mondo si era fermato,
anche sulla maschera vacua di Giovanni fece capolino un accenno di emozione: un
sopracciglio inarcato.
«Prego?».
«Dovresti stare più attento a ciò che fai ricordare. Il Patto non è con te, è
con l’Abisso. L’hai detto anche a Blue quando l’hai stretto con lui. L’Abisso fa
da garante per l’accordo e io e te siamo paritari, quindi è nei miei diritti
interromperlo».
«Possiamo
chiedere il perché?».
Lance rivolse uno sguardo rapido a Norman,
chiedendogli in prestito la forza di ricoprire, almeno una volta nella sua vita,
il ruolo di colui a cui non importa niente.
«Sono morti già abbastanza per causa mia. Basta così».
«E sei
convinto che ne valga la pena?».
«Lascia che dica qualcosa a te e a tutta la compagnia, Dà Hàak: essere
l’Allenatore più forte del mondo è una grande rottura. Riprenditi pure tutto
quello che mi hai dato. Aspetterò che qualcuno arrivi a sconfiggermi e poi
riprenderò a viaggiare. Magari mi ricorderò perché una volta mi piaceva così
tanto».
«Siamo
mortificati, Lance. Evidentemente non siamo stati abbastanza chiari. Cosa pensi
che succederà
se il Patto viene infranto?».
Lance alzò
gli occhi al cielo. «Vediamo se indovino. Mi ucciderai? Ti prenderai la mia
anima? Diventerai di nuovo alto venti metri e distruggerai Kanto?».
«Non
abbiamo esigenza di minacciarti».
Il sopracciglio, finora rimasto incollato fuori posizione sul volto di Giovanni,
tornò al suo posto. «La
norma
è univoca. La revoca di un Patto con l’Abisso comporta la revoca di ogni Patto
con l’Abisso».
«Tanto meglio, in un colpo solo libererò sia me che Blue».
«Pensi
che i Patti stipulati dall’inizio
dell’universo siano stati solo due?».
A posteriori, Lance avrebbe detto che ciò
che gli sarebbe stato mostrato di lì a pochi secondi era talmente orribile che
aveva vinto le leggi di causalità dell’universo mandando riverberi indietro nel
tempo. Invece non fu quella la ragione per cui il Campione rabbrividì. Anche se
non se ne rese mai del tutto conto, qualcosa dentro Lance registrò che le
i
nella frase appena pronunciata da Dà
Hàak erano innaturalmente aperte e acute e una bocca umana, per imprimervi quel
tono, avrebbe dovuto aprirsi da orecchio a orecchio.
Ma non ebbe tempo di elaborare quel pensiero, perché
fu investito da un’immagine mentale talmente violenta che rinculò fisicamente
all’indietro e cadde a terra. Nessuna rievocazione teatrale questa volta: Dà
Hàak gli riversò negli occhi, nelle orecchie e nelle narici l’intero ricordo,
facendogli rivivere una scena così terrificante che, quando cessò di urlare, la
sua riserva d’aria era agli sgoccioli e la sua voce si era fatta graffiante e
strozzata, più simile a un dito che striscia sulla superficie di un bicchiere
umido che a una voce umana.
«Che…». Abbassò lo sguardo sulla sua mano tremante. La strinse in un pugno,
prese un respiro profondo e deglutì, ma nessuno dei tre rituali lo calmò neppure
un poco. «Che cos’era?».
«Il
primo Patto stipulato con l’Abisso
tremila anni orsono».
Giovanni passeggiò meccanicamente, a gambe rigide, fino a ricollocarsi nella
posizione in cui si trovava quando aveva fermato il tempo, a due metri da
Norman. «Siamo
a tua disposizione, Lance. Sei ancora intenzionato a rompere il nostro accordo?».
«È una bugia. Quello che ho visto…».
«Lance».
Dà
Hàak gli rivolse un ultimo sguardo furtivo e il ragazzo si accorse che il
bagliore nei suoi occhi cerulei si infiochiva. Aveva già deciso che la
conversazione era finita prima ancora di sentire la sua risposta.
«Ti
abbiamo mai mentito?».
Percepì
ogni passo del ritorno in vita di Hoenn con precisione invidiabile. La brezza di
montagna tornò a pizzicargli le guance, gli steli d’erba ripresero la loro danza
molleggiante, il fumo di sigaretta tornò ad ascendere nell’Oltretomba dei
Comburenti. Eppure, nonostante i suoni della natura avessero riacquisito il loro
posto di preminenza, Lance non riusciva a perdere la concentrazione a
sufficienza per smettere di sentire il risucchio delle sue vene o il gorgoglio
del suo respiro negli alveoli polmonari.
«Per mia esperienza» disse Giovanni «devo ancora incontrare qualcuno del
genere».
«È come l’amore a prima vista» rispose Norman con un guizzo degli occhi. «Non
sai mai quando colpisce».
Tra tutte le cose viste quel giorno, più
di aver incontrato di nuovo il suo incubo, persino più della visione
agghiacciante che Dà Hàak gli aveva proiettato nella testa, vedere il figlio di
Drake muoversi di nuovo, senza che avesse idea di cos’era successo in quello che
per lui era stato un istante, fu la cosa che inquietò di più Lance. La
sensazione che provava nelle viscere era che, in qualche modo, Norman fosse
morto e poi risorto, così come tutta Hoenn. Così come…
Quante altre volte era successo? A chi altro Dà
Hàak aveva parlato in quel limbo? Come faceva a sapere che in quel momento,
nell’attimo tra un pensiero e l’altro, il demone non stesse congelando il tempo
per conversare con qualcun altro? Il concetto stesso di tempo aveva ancora un
senso se qualcuno poteva inserirvi pezzi come fotogrammi nascosti in una
pellicola ritagliata e incollata?
Giovanni sollevò
la tesa del borsalino. «A scapito delle circostanze è stato un piacere
conoscerla». La sua voce naturale ora sembrava un doppiaggio. Si voltò verso
Lance, ancora semisdraiato sull’erba. «Buona giornata a entrambi». Fece uno
scatto di assenso con il capo, o magari voleva essere un inchino, e si avviò
verso la scala da cui era venuto.
Libero dallo spettro della sua presenza, Lance cercò
di rimettere a fuoco il mondo reale e tutto ciò che gli era capitato, e il
motore della sua mente si incagliò infine sul messaggio che Dà Hàak era salito
lassù per consegnargli, prima della deviazione sulla fedeltà dovuta.
Una guerra.
Tra quattordici anni.
Alzò
gli occhi verso Norman, trovando che quest’ultimo, accovacciato sulla sua
roccia, lo stava osservando con aria divertita. Qualcosa nel suo mezzo sogghigno
gli infondeva una certa misura di serenità.
«Comodo?».