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Autore: Glenda    06/03/2023    2 recensioni
Firenze, primi duemila.
Artin ha trent'anni e già sa di vivere in un mondo ostile: padre in galera, madre in ospedale, lavoro intermittente e tre fratelli da mantenere, barcamenandosi ogni giorno tra assistenti sociali, bollette e microcriminalità dei quartieri popolari. Finché, il giorno in cui pensa di non farcela proprio più, un misterioso uomo che gli somiglia come un gemello gli propone un patto terrificante...
Questa è una storia d'ambientazione realistica ma dal tono magico-fiabesco, che riprende il filone tradizionale del principe e il povero e degli scambi di identità: ci sono protagonisti eroici, ottimismo, redenzioni inaspettate, gentilezza come se piovesse, e i miracoli accadono. Anche se lo sfondo è cupo. Anche se il mondo è pieno di falsità, macchinazioni, apparenze e ferocia nascosta.
Dunque astenersi i non amanti dei buoni sentimenti.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Le luci psichedeliche del locale gli erano entrate nella testa, annebbiandogli i pensieri e facendogli dimenticare che era notte fonda, e lui era lì, lontano da casa, in un luogo quasi sconosciuto, solo per sciogliere la mente in un bicchiere, o nei movimenti caldi di ragazze che ballano… solo per mandare a fanculo tutto, per una sera, solo per distruggersi un po’, arrendersi almeno per poche ore, prima di doversi rialzare e ricominciare da capo.

Sarebbe riuscito a ricominciare?

Quella notte gli sembrava così estranea e improbabile… La sua testa annegava nel pulsare delle luci, il corpo annegava in un bicchiere di vodka e le gambe non lo tenevano in piedi. Avrebbe voluto sdraiarsi su uno di quei divanetti e dormire.

Ma era quasi ora di chiusura, il locale si stava svuotando. Si mosse a tentoni verso l'attaccapanni, incurante di chi gli passava attorno: era quasi sulla porta, quando qualcuno lo afferrò per un braccio.

- Stupefacente!!! -

Artin alzò la testa, e i suoi occhi appannati incrociarono quelli di un tizio alto e ben vestito - fin troppo ben vestito per trovarsi lì, in un posto dove ancora ci si poteva ubriacare senza svuotare il portafogli - che, senza lasciargli il tempo di parlare, gli sollevò il mento con una mano e prese ad analizzare la sua faccia come si osserva un dipinto d’autore.

- Ehi, ma cosa… ? -

Artin si tirò indietro, e barcollò andando a finire con le spalle contro la parete.

- Stupefacente. Veramente miracoloso… da non crederci! -

- Senta, signore: qui di stupefacente non c’è un cazzo, ok? Mi lasci in pace… -

Scrollò la testa, e si diresse nuovamente verso l'uscita: l'aria fredda della notte forse gli avrebbe fatto bene, o, se non altro, una sferzata di gelo allo stomaco gli avrebbe fatto vomitare tutto l’alcol che aveva addosso.

- Aspetti, mi dia un momento… - l’uomo lo trattenne di nuovo - tra l’altro, lei non sembra stare molto bene. -

No. Non stava bene per niente. Ma che gli importava? Quel damerino in giacca e cravatta poteva anche essere uno di quegli stronzi che si sarebbero scopati sua sorella, se non faceva qualcosa entro il mattino successivo. Dannazione, era tutto così terribile, anche a guardarlo con quegli occhi nebbiosi, quella sera…

- Capo, lei non immagina nemmeno… ! -

Beh? E ora cosa stava dicendo? Ah… ma si… parlava al telefono. Bah. Non riusciva a capire perché la sua mano lo trattenesse ancora… eppure, non aveva nemmeno più la forza di liberarsene.

- Le va se le offro un affare, giovanotto? -

Ora parlava di nuovo a lui, aveva riposto il cellulare chissà dove e lo guardava con quello strano stupore di poco fa.

- Affari… sono mesi che cerco affari. -

La testa gli girava dannatamente.

- Ragazzo? Ehi, mi sente? -

L’asfalto della strada sembrò dirigersi improvvisamente verso di lui. Qualcosa fermò il suo movimento. Il suo volto restò sospeso a pochi centimetri da quel nero che puzzava di smog, di macchine, di piscio di cane e di devastazione.

Non voleva sentire.

Non voleva vedere.

Non voleva più vedere.

Lo disse ai suoi occhi, e gli occhi si chiusero davvero.

 

- È pazzesco. -

Furono le prime parole che sentì - l’eco di un sogno? - ma non avevano lo stesso suono con cui le ricordava. La voce era più giovane, una voce rilassata e cristallina.

- Dove sono? -

Aprì gli occhi: una luce illuminava la stanza; si trovava disteso su un letto.

- Ah, vedo che sta meglio. Ha dormito un bel po'. -

- Dove sono? - ripeté lui

- In una camera d'albergo. A disposizione per stanotte. -

Si tirò su a sedere, la testa non girava più.

Un albergo? Caspita, quella stanza sembrava una suite extra lusso! Probabilmente nella vita non aveva mai visto un posto del genere.

- Io non capisco cosa… - i suoi occhi incrociarono quelli del tizio seduto vicino al letto, e si spalancarono all’improvviso - DIO… ! -

Il giovane sorrise, gentilmente impeccabile.

- Eh sì, fa un certo effetto! Quando l'ho vista, sono rimasto sconvolto anch’io. Io e lei sembriamo costruiti con lo stesso stampo: il creatore deve essersi parecchio divertito! -

Artin era rimasto paralizzato: non riusciva a distogliere gli occhi dell’uomo seduto di fronte a lui. Era elegante, molto bello, i morbidi capelli castani gli ricadevano in una mezza frangia scalata su un lato, aveva un viso lindo e labbra pallide, ma nonostante la evidente differenza nell’amore per la propria presenza estetica, guardare lui era come riflettersi in uno specchio: gli stessi occhi intensi, lo stesso taglio della bocca, lo stesso ovale del volto, persino le medesime fossette!

- Forse una piccola differenza nella forma del naso - fece ad un tratto il “sosia” - e naturalmente, la voce. Ma si può rimediare… -

Artin non si era ancora abbastanza ripreso dallo stupore da riuscire ad articolare frasi. Balbettò solo uno striminzito e un po' spaventato:

- Lei… chi è? -

Lui si presentò educatamente.

- Mi chiamo Elia Avanzini. Ma prima di procedere oltre, credo che lei abbia bisogno di un caffè. -

Sollevò la cornetta e chiese il servizio in camera. In breve, un caffè caldo e aromatico scivolò giù per la sua gola; era una sensazione piacevolissima: realizzò che erano passati almeno un paio di mesi dall'ultima volta che si era concesso un espresso al bar.

- Forse il mio nome non le dice niente, – riprese l'uomo, facendo intendere che quell'ignoranza non era per lui cosa così ovvia – ma sono l'amministratore delegato della *** -

- La ***… Intende la banca? -

- Esatto, signor Dorsi -

Lo stupore si stava tramutando in inquietudine. Qualcosa di strano doveva essere accaduto. Qualcosa che non sapeva, o non capiva. Si trovava in una stanza di albergo, con il dirigente di una delle più grosse banche del paese, che gli somigliava come una goccia d’acqua e che conosceva il suo nome! Le premesse non promettevano nulla di buono.

Ma, in fondo, cosa poteva accadergli di peggio?

Forse niente.

Forse.

Si rilassò.

- Come fa a sapere come mi chiamo, signor Avanzini? -

- Oh, abbia pazienza. Mi sono permesso di violare la sua privacy mentre smaltiva la sbornia. Naturale, quando si ha un gemello, no? Ho contatti che mi permettono di sapere velocemente più o meno tutto ciò che mi serve. È necessario, nel mio mestiere. E comunque, non ha importanza. Ciò che ne ha, invece, è che la situazione economica in cui lei si trova è parecchio spiacevole. O sbaglio? -

Il “gemello” parlava delle sue faccende private come se non ci fosse niente di male a indagare liberamente sulla vita di un uomo senza chiedergli il permesso: Artin ne era infastidito, ma purtroppo non era né nelle condizioni né nello stato giusto d’animo per mettersi a discutere sugli abusi di potere.

- Non sbaglia. – ammise.

- Dunque, suo padre dovrebbe averne per i prossimi quattro anni, e lei ha tre fratelli, di cui due minori, vero? E sono stati affidati a lei fino ad oggi. Mi risulta che quando il mezzano (Andrea, giusto?) era alle scuole medie, gli insegnanti abbiano allertato ripetutamente i servizi del territorio, ma che tutto sommato lei sia sempre piaciuto molto agli assistenti sociali. -

Sentir parlare senza alcun trasporto della tragedia della sua vita gli stringeva lo stomaco, e il modo in cui Elia Avanzini infarciva le affermazioni con domande di cui in realtà non era importante la risposta gli faceva rabbia. Se non avesse addolcito il senso del discorso con l‘ultima frase, avrebbe trovato veramente difficile resistere al desiderio di colpirlo con un pugno ben assestato, ma l‘effetto dell‘alcol se ne era andato, e quelle parole, purtroppo, erano maledettamente vere.

- Si, è così. - confermò di nuovo.

- Non è una situazione che può durare a lungo. -

Come poteva aver scoperto tante cose di lui in così pochi minuti? Artin non aveva mai considerato fin dove arrivasse il potere di gente simile.

- Troverò una soluzione. -

Elia Avanzini si fece d’improvviso serio.

- Io potrei offrirgliene una. - Gli occhi di Artin guardarono la loro immagine riflessa: lo stesso taglio, lo stesso colore...solo, una vita diversa nascosta nel loro movimento, nel loro luccichio – Ma dipende da quanto è disposto a pagare. -

- Quanto si può pagare senza un euro in tasca? Immagino che lei si sia preso la premura di controllare anche questo. -

- Naturalmente. Infatti non è di soldi che sto parlando. So bene che non ne ha -

Gettò un’occhiata vacua al di là di lui, poi tornò a osservarlo con la stessa espressione compiaciuta.

- Lei è proprio il mio gemello… -

- Che cosa vuole? -

Non ne poteva più.

- La sua vita, signor Dorsi. -

La voce di Elia Avanzini mantenne una serenità assoluta nel pronunciare quella frase.

- … C-cosa? -

- La sua vita. Ho bisogno che Elia Avanzini muoia entro la fine di novembre. Sa, ho combinato un bel casino. Quando lo si saprà, andrò in galera. Preferisco che prima che questo accada, Elia si sia ucciso per la disperazione. Le offro di farlo al posto mio, e se accetterà, la sua famiglia non avrà più bisogno di soldi, vita natural durante. -

Artin pensò per un momento che quel ricco snob lo avesse messo in quella situazione solo per ridere un po’ di lui: modo piuttosto perverso per scacciare la noia! Ma Elia Avanzini aprì il suo portatile, digitò velocemente dei codici e entrò in quello che sembrava chiaramente un sistema bancario.

- Gli dirà che ha vinto la lotteria. Capita, a volte. Poi gli racconterà che se ne vuole andare a fare un bel viaggio in qualche paese esotico, e nessuno si stupirà troppo quando non si avranno più notizie di lei. Che mi dice, cinque milioni possono bastare? -

Prima ancora che avesse realizzato pienamente la situazione in cui si trovava, tutto il suo corpo aveva preso a tremare. Gli stava offrendo di uccidersi per soldi? In quel modo, come se nulla fosse?

Aspettava la sua reazione, imperturbabile, e riusciva persino a sorridere: un sorriso di una freddezza disarmante, su un viso che era identico al suo, eppure così tanto, sinistramente più bello.

- Certo, capisco il suo turbamento. Facciamo otto milioni: staranno più tranquilli. -

Era così. Era davvero così. Quell’uomo stava dando un prezzo alla sua vita in tutta naturalezza. Gli assicurava che gli avrebbe permesso di accertarsi di persona della veridicità dell’offerta ben prima di “levarsi di mezzo”… Gli garantiva la riservatezza… il benessere dei suoi familiari… il silenzio su tutta la faccenda…

E lui, lì, si trovava a dover fare il conto più terribile che avesse mai fatto: dare un prezzo alla propria vita.

- D’accordo. Dieci milioni, signor Dorsi. E giusto perché siamo gemelli mancati. Dopodiché – sorrise di nuovo - dovrò rimettermi a cercare qualcuno disposto a sottoporsi ad un intervento plastico per somigliarmi… -

E avrebbe trovato qualcuno disposto ad accettare?

Un uomo disposto a morire per denaro?

Certo.

Perché in ogni angolo di mondo, ad ogni ora, c’era almeno un uomo che pensava di non avere più scelta.

Aveva ripetuto tante volte che per i suoi fratelli avrebbe sacrificato la vita. Ma era una maledetta frase fatta. Ora, invece, era proprio quello gli veniva chiesto.

Sacrificare la sua vita.

E la sua famiglia sarebbe stata libera.

Avrebbe voluto un momento – un momento calmo, fuori dal tempo – per pensarci lucidamente.

Ma non si poteva pensare, per decidere in una situazione simile.

Si doveva solo scegliere di non pensare più.

Si doveva fare quello che aveva desiderato di fare tante volte, affogato in un bicchiere.

Smettere di pesare.

- Quindici. – dichiarò.

Elia Avanzini annuì senza emozione.

- D’accordo. - disse - Lei sa veramente cosa vuol dire contrattare. -

 

Aveva incontrato il diavolo al crocevia.

  
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