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Autore: Adeia Di Elferas    09/03/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Stare a Roma si stava dimostrando, per Bianca, più difficile del previsto. Non solo il palazzo Riario le riportava alla memoria, a tradimento, ricordi che credeva di aver dimenticato per sempre, risalendo ai suoi primissimi mesi e anni di vita, ma oltre a quello, non appena lasciava la sua momentanea abitazione, si trovava in Vaticano, in mezzo a volti perlopiù del tutto sconosciuti, ma che la guardavano come se sapessero tutto di lei.

Non poteva ignorare che alcuni di quei prelati e di quelle cortigiane erano stati presenti al suo matrimonio e alla successiva messa a letto e quel dettaglio la poneva sempre in una posizione scomoda e imbarazzante, che le impediva di trovare la sua consueta scioltezza sociale.

Troilo faceva del suo meglio e, quando alla sera si trovavano finalmente soli, tornava pienamente l'uomo di cui si era innamorata, tuttavia, in pubblico, sapeva mostrare un atteggiamento che alla Riario non piaceva. Si trattava della recita che avevano deciso di portare avanti fino alla loro partenza, e la giovane era sicura che, una volta raggiunta San Secondo, non ci sarebbe più stato bisogno di mentire, eppure la infastidiva lo stesso sentirlo rispondere a tono, quando qualcuno gli chiedeva con una risatina se la sposa che aveva 'comprato' fosse valsa l'attesa e la spesa. Il De Rossi ribatteva che era così e, con alcuni soggetti particolarmente maliziosi, aggiungeva qualche commento che tendeva al volgare, ma che spesso non rispecchiava la verità.

A Bianca non importava tanto passare come una sposa passiva e ingenua, perché sapeva che al contrario sarebbe stata più facilmente bersaglio di qualche tiro mancino da parte del papa e, ancor di più, di pettegolezzi salaci che avrebbero facilmente varcato le mura vaticane, ma avrebbe voluto poter essere se stessa e smetterla di trattenersi e provare vergogna di continuo.

“Questa sera vostro marito cenerà qui a palazzo?” chiese Creobola, quel pomeriggio, mentre l'aria tenera dei primi giorni d'aprile tingeva di rosa il cielo di Roma.

La Riario era seduta alla mercé della serva, che le stava pettinando i capelli, ed era soprappensiero, come spesso le capitava in quei frangenti. Stava pensando a Pier Maria e si chiedeva quanto fosse cresciuto da quando l'aveva lasciato alle cure di sua madre. Ricordava bene quanto i suoi fratelli minori fossero cambiati in fretta, nei primi anni di vita, e la rattristava pensare che avrebbe perso per sempre un sacco di dettagli di suo figlio, del suo primo figlio...

“Mia signora..?” la voce di Creobola, questa volta, raggiunse le orecchie assorte di Bianca, che, sollevando le sopracciglia, le chiese di ripetere la domanda.

“Non lo so...” rispose la ragazza, dopo aver ascoltato il quesito: “Spero di sì.”

Troilo, spesso e volentieri, veniva trattenuto in Vaticano da qualche commilitone che militava per i francesi o per i Borja e, qualche volta, perfino da un prelato o da qualche segretario vaticano. Non era in una posizione talmente elevata da poter ricevere inviti direttamente dal papa, ma poco ci mancava, ormai, visto come tutti sembravano contendersi la sua compagnia al solo scopo – ormai era chiaro sia a lui sia alla moglie – di strappargli qualche commento spinto proprio su Bianca. La figlia della Tigre di Forlì, donna nota a tutta Italia per i suoi vizi, più che per le sue virtù, suscitava un interesse morboso molto difficile da saziare.

“Quando partiremo tutti per San Secondo?” chiese Creobola, continuando a pettinare la sua signora.

“Non lo so...” sospirò per la seconda volta la Riario: “Stiamo aspettando che si calmino le acque e che ci venga dato formalmente il permesso... Ci sono molte cose da fare, a San Secondo e perdere tempo qui...”

“Ci scommetto che il papa vuole assicurarsi che voi siate incinta prima che ripartiate.” disse, a sorpresa, la serva: “Per poter dire che la figlia della Leonessa di Romagna non solo è stata presa come una Sabina proprio qui a Roma, ma anche messa incinta... Se ci pensate, sarebbe uno di quegli aneddoti che tanto piacciono al pontefice...”

“In tal caso – commentò Bianca, trovando in effetti credibile quella lettura dei fatti – non appena sarà trascorso tempo sufficiente, renderò nota la mia gravidanza...”

Creobola annuì, mentre la giovane si sfiorava il ventre: “Ma chiederemo a messer Baccino di trovare una levatrice compiacente. Non credo sia facile far credere a una di quelle che una gravidanza è all'inizio, quando invece è quasi a metà...”

La Riario le diede ragione e sperò che Baccino potesse farle davvero quel servizio, così particolare.

La serva stava cominciando a parlare proprio del cremonese, dicendo che lo trovava un giovane uomo molto piacente, oltre che sveglio ed educato, quando la porta della stanza si aprì all'improvviso, facendo sussultare le due donne.

“Voglio parlarti di una cosa.” il tono di Troilo, che era entrato in camera come una bufera, indusse all'istante Creobola a lasciare il pettine sul tavolino e congedarsi.

Mentre Bianca chiedeva, sottovoce, al marito cosa fosse successo per essere così agitato, i due sentirono la serva chiudersi la porta alle spalle e commentare, probabilmente a vantaggio di qualche domestico di passaggio: “Povera la mia padrona... Quel bruto, quando rincasa vuole subito arrivare al dunque, nemmeno si fosse comprato una schiava da letto...”

Per qualche secondo, sia il De Rossi sia la Riario rimasero in silenzio, felici che Creobola appoggiasse in modo tanto esplicito la loro pantomima, ma poi ripresero a parlare contemporaneamente.

“Devi dirmi cos'è successo, non farmi preoccupare...” fece Bianca.

“Ci sono due cose importanti di cui devo parlati.” disse nello stesso momento lui.

Lasciando Troilo libero di riprendere il discorso senza più essere interrotto, la giovane rimase in silenzio, prendendogli una delle grandi mani nelle sue, intuendo che all'uomo servisse una piccola iniezione di coraggio.

“Ho avuto notizie dal Trivulzio – esordì l'emiliano, corrucciandosi – che è stato minacciato dagli svizzeri, sul confine di Milano... Gli hanno richiesto le artiglierie che teneva nel castello di Mesocco, ma lui non solo non gliele ha volute cedere, ma le ha sabotate tutte, in modo che non possano mai cadere in mano loro...”

La sofferenza con cui il De Rossi parlava lasciava intendere alla moglie che l'epilogo di quel resoconto non sarebbe stato piacevole. Sapeva bene quanto Troilo fosse legato a Gian Giacomo e sapeva altrettanto bene che, malgrado lei si sentisse per metà una Sforza e quindi una milanese, per il loro personale tornaconto era necessario che i francesi mantenessero il Ducato come roccaforte al nord.

“Adesso ha perso Locarno, o, almeno, la città è già data per persa, e lui mi ha scritto per farmi sapere che si sta spostando con un presidio a Gallarate.” soffiò il De Rossi: “Trecento cavalleggeri e ventisei pezzi d'artiglieria. Da lì vorrebbe attaccare Bellinzona...”

“Il Trivulzio è un uomo d'esperienza.” provò a dire la Riario: “Se pensa di poter sostenere quell'attacco, significa che...”

“Il Trivulzio è un uomo anziano.” la corresse lui: “Per me è stato come un fratello, a tratti come un padre... Se dovesse morire per un motivo così stupido, io...”

Bianca, sorpresa nel vedere il marito quasi alle lacrime, gli accarezzò una guancia e poi, tenendogli strettamente le mani nelle proprie, gli disse: “Stai tranquillo. Vedrai che andrà tutto bene. Non è uno stupido, sarà prudente. Lo sa anche lui che non vale la pena rischiare troppo in un'azione del genere...”

L'uomo deglutì un paio di volte, fino a ricacciare del tutto le lacrime da dove erano venute. Non aveva alcuna intenzione di mostrarsi tanto debole alla donna che amava, ma non era riuscito a trattenere la commozione, pensando a quell'uomo che tanto era stato importante per lui. Saperlo impegnato in una lotta impari come quella che stava affrontando, lasciato quasi del tutto solo dal re di Francia, lo poneva in uno stato d'angoscia che faticava a superare.

“Forse dovrei andare da lui...” sussurrò.

La Riario si irrigidì. Tutto voleva fuorché il suo fresco sposo andasse a rischiare il collo in una guerra che con loro aveva così poco a che fare. Tuttavia aveva passato abbastanza anni a contatto con sua madre Caterina per capire che chi ha sempre vissuto di armi e di guerra spesso dà più peso alle amicizie militari che a tutto il resto.

Perciò, con la bocca amara, ma con tono fermo, ribatté: “Se è quello che credi giusto, fallo.”

“Ma io non voglio allontanarmi da te.” rivelò lui, lasciando finalmente trasparire il vero motivo del suo tormento interiore.

Si trovava strattonato da un lato e dell'altro da due diversi ed estremi sentimenti: il senso dell'onore e della lealtà, che gli avrebbe imposto di correre in armi accanto all'amico di una vita, e l'amore sconfinato che provava per la Riario. C'era anche un velo di egoismo nel sentire con più forza quell'ultimo richiamo, ma Troilo non poteva far nulla per vincersi.

“Gian Giacomo è un uomo forte e capace.” ribadì allora la ragazza: “E se mai dovesse aver bisogno di te, te lo chiederebbe senza problemi.”

Abbastanza convinto, l'emiliano si calmò un po' e, assieme alla moglie, discusse per un po' delle battaglie che si stavano tenendo sia al nord, sia al sud. Fu come non mai felice di aver sposato una donna in grado di comprendere quel genere di discorsi e si trovò ancor più saldo nelle sue posizioni quando lei, con il rigore di chi conosceva la strategia e la tattica, gli dava ragione.

“Questa è una cosa – fece alla fine Bianca, mentre entrambi, seduti sul letto, guardavano il camino spento – ma l'altra cosa di cui dovevi parlarmi..?”

Il De Rossi si schiarì la voce e rispose, con difficoltà: “Non è una notizia del tutto sicura, per ora, ma è molto probabile che domani, forse in serata, il figlio del papa rientri a Roma e ci resti per una notte o due.”

Il fastidio immediato che la Riario provò nel pensare che il Valentino presto sarebbe stato nella sua stessa città, respirando la sua stessa aria e vedendo lo stesso cielo che vedeva lei, le fece contorcere lo stomaco tanto da scatenarle quasi la nausea feroce che al mattino spesso provava ancora per via della gravidanza.

Restando composta, comunque, notò: “Non ne sono felice, ma per fortuna non ha molto a che vedere con noi...”

“Il papa ha detto che quando suo figlio sarà qui, ci vorrà incontrare.” rivelò l'uomo: “Per... Per congratularsi con me e per... Per vedere se la figlia della Tigre di Forlì somiglia davvero a sua madre come dicono tutti.”

Bianca parve farsi di ghiaccio, a quella rivelazione. Era palese che per lei fosse quella, la notizia più importante, e che le chiacchiere sul Trivulzio, in confronto, fossero solo pettegolezzi da niente.

Troilo un po' si sentì in colpa per non aver pensato subito al diverso peso che le due novità avrebbero avuto per la moglie, ma ormai poteva solo dimostrarle la sua vicinanza stringendola a sé.

L'abbraccio, però, non venne ricambiato e l'uomo ebbe la sensazione di avere accanto una statua, più che una donna viva e vegeta. Non sapeva cosa dire, perciò attese solo che fosse lei a rompere il silenzio.

Gli occhi blu della Riario erano fermi a un punto indefinito del pavimento e la sua mente viaggiava veloce, cercando di valutare tutte le implicazioni di quell'incombenza. Lei personalmente non era più a Ravaldino, quando Cesare Borja l'aveva definitivamente conquistata, eppure fin da quando il suo spettro si era stagliato all'orizzonte di Forlì, per lei il Valentino era stato una presenza concreta, per quanto indefinibile, e impossibile da dimenticare. Si chiese se averlo davanti a sé e parlargli sarebbe servito per ridargli la dimensione terrena che aveva, togliendo il manto di paura e mistero che aveva ai suoi occhi.

“Tu non mi lascerai sola con lui nemmeno un istante.” disse alla fine, pensando che, per come lo conosceva lei, il Duca di Valentinois sarebbe stato capace di compiere verso di lei i crimini peggiori, al solo scopo di punire la Tigre: “Giuramelo.”

“Te lo giuro.” fece, senza la minima esitazione, il marito.

“Creobola si chiedeva se cenerai con me, stasera.” riprese la giovane, cambiando tono, come se l'argomento di poco prima fosse del tutto risolto e chiuso.

Un po' stranito da quella virata improvvisa, il De Rossi sollevò le sopracciglia e annuì: “Sì, sì, per oggi non devo più tornare in Vaticano...”

 

Caterina sentiva sempre di più il peso dell'immobilismo a cui era costretta, nella villa di Castello. I lunghi discorsi che faceva con Fortunati, riguardo la sua linea difensiva nel processo contro Lorenzo Medici le sembravano solo un vuoto diversivo per sfuggire, almeno per qualche ora, all'inutilità della sua esistenza.

Le bastava poco per sentire nel petto acuirsi il disagio per il suo restare con le mani in mano e notizie come quella arrivata da poco e riguardante ai movimenti di Gaspare da Sanseverino – che stava scorrendo con le sue bande negli Abruzzi, terrorizzando il popolino al fine di far aderire tutti quanti alla causa francese – la facevano ribollire come un pentolone.

Era stato uno dei suoi fedelissimi di Forlì a farle recapitare una lettera in cui si parlava dei maneggi del Sanseverino e in cui, a più riprese, la si incoraggiava a prendere in mano la spada e riconquistare le sue terre. Da un lato quel desiderio di tenerla informata e, allo stesso tempo, di incitarla a rimettersi in campo, la scaldavano, ma dall'altro la facevano solo stare peggio.

Sapere che molti uomini, di cui alcuni a lei ben noti, stavano marciando, combattendo e pianificando battaglie la faceva sentire vecchia e inutile. Avrebbe fatto di tutto, pur di poter indossare la sua armatura, montare a cavallo e partire alla carica, sospinta dai venti di guerra e dalle urla dei suoi soldati...

Però, essendo una donna resa saggia dall'esperienza, sapeva di non potere.

Aveva ragionato moltissimo, fino alla nausea, dei pro e dei contro di una simile scelta e aveva capito che, quale che fosse stato l'esito di una simile guerra – fermo restando di trovare un esercito disposto a seguirla – avrebbe perso in partenza il processo con suo cognato Lorenzo e, con esso, la potestà su Giovannino, ed era un peccato che non poteva permettersi di compiere.

Francesco, che era stato ben felice di vederla titubante dinnanzi all'idea di guidare in tempi brevi un esercito alla riconquista della Romagna, ignorava quale fosse il motivo più profondo del suo tentennare, ma alla Sforza stava bene così. Anche se stimava e provava affetto per il piovano, era convinta che non fosse necessario spiegargli nel dettagli tutti i suoi ragionamenti. Fortunati aveva la tendenza a cercare di influenzarla, anche se lo faceva, nella sua ottica, solo per il suo bene. Caterina non voleva per nessun motivo che lo facesse anche su quel genere di questioni, quindi meno armi gli dava per farlo, meglio era.

La Leonessa, quel pomeriggio, guardando i colori morenti del cielo d'aprile, iniziò a perdersi in qualche considerazione sul piovano, su come fosse entrato silenziosamente nelle sua vita, anni prima, rischiando di uscirne più volte, per poi tornare nella sua quotidianità, diventando uno dei perni più fermi del suo presente.

Si stava infossando in una poco edificante considerazione riguardo al proprio egoismo nel trattare con gli altri, in particolare con Francesco, quando sentì dei passi alle sue spalle.

Senza voltarsi, seppe in anticipo che nella saletta era entrato frate Lauro. Quell'uomo aveva l'abitudine di portare calzari aperti, dalla suola spessa e rigida, che faceva un suono inconfondibile sul pavimento di cotto.

“Avete bisogno di qualcosa?” chiese la Sforza, continuando a fissare l'orizzonte che si tingeva lentamente di rosso.

Bossi, che non credeva di trovare lì la Leonessa, passò il libro che portava con sé da una mano all'altra e poi scosse il capo, aggiungendo a voce, dato che la sua signora non si era ancora voltata verso di lui: “Cercavo solo un posto tranquillo dove leggere...”

“Abbiamo una biblioteca.” fece presente la donna, degnandosi, infine, di lanciare uno sguardo al religioso: “Potevate andare là, non trovate?”

Questi, con il suo sorriso sempre in bilico tra il bonario e l'ironico, ribatté: “Mia signora... La biblioteca è un luogo tranquillo quando è deserta, o quando il buon Sforzino vi si rintana per studiare... Ma i vostri figli Galeazzo e Bernardino sembrano intenzionati a mettere in pratica tutte le loro conoscenze da schermidori, copiando le figure da un libretto che hanno ritrovato da poco e questo fatto rende la biblioteca più simile a un campo di battaglia che non a un...”

“Bastava un semplice no.” soffiò, stanca, Caterina, muovendosi veloce per andare alla porta e lasciare il frate da solo col suo volumetto.

“Vi vedo preoccupata e triste, in questi giorni...” constatò Lauro, riuscendo, una volta tanto, ad assumere un'espressione seria.

“Ho un processo a carico e...” iniziò a dire lei, quasi a giustificarsi, ma l'uomo alzò una mano per fermarla subito.

“Questo lo so, ma c'è qualcosa di diverso, ultimamente...” insistette lui.

Innervosita dal tono quasi paternalistico del religioso, la Tigre sporse il mento in fuori e borbottò, fredda: “Non credo di dover parlare di queste cose con voi...”

“Certo, il fatto che Fortunati sia partito stamattina per Firenze e che non sarà di ritorno per almeno un paio di giorni non deve aiutare a farvi stare meglio...” soppesò Bossi.

Caterina, per un angoscioso istante, si domandò se anche il frate avesse intuito più del dovuto riguardo la relazione tra lei e il fiorentino.

“Frate, vi serve qualcosa?” fece la Leonessa, ormai francamente infastidita dall'insistenza dell'altro.

“Ero solo in pensiero per voi.” provò a dire l'anziano: “Se vi serve fare due chiacchiere, sappiate che in me potete trovare un interlocutore discreto e attento.”

Quell'invito per la Sforza fu come l'ultima martellata che andava a rompere un argine già pronto a esplodere. Senza che l'uomo potesse più sottrarsi, cominciò a parlargli della sua situazione, della guerra, di quello che stava succedendo in Italia e, soprattutto, a fare un riassunto delle forze che poteva ritenere amiche.

“Mi stanno deludendo un po' i Salviati... Ora che Jacopo è ambasciatore, la moglie sembra essersi dimenticata di me, quando prima mi cercava anche quando non volevo... Tuttavia li considero ancora dalla mia parte, o, quanto meno, non ostili. Al nord, invece, Gian Piero Landriani potrebbe esserci molto utile, così come spero che il De Rossi, ora che ha sposato la mia unica figlia, dopo averla messa incinta per ben due volte, si possa considerare sempre un alleato, malgrado i suoi trascorsi coi francesi...” concluse dopo quasi un'ora di ininterrotto monologo la milanese: “E poi Giuliano Della Rovere è pur sempre sangue del sangue dei miei figli... Che almeno l'inferno che è stato il mio primo matrimonio, porti a qualcosa di buono adesso...”

“Giuliano, in effetti, potrebbe essere un buon candidato al soglio pontificio.” convenne Bossi, infrangendo per la prima volta da un'eternità il suo silenzio: “Sempre che papa Alessandro ci conceda mai l'augusta grazia di tirare le cuoia.” soggiunse, con il suo sorrisetto imperscrutabile.

“Siete sempre così bravo a incoraggiare il prossimo...” bofonchiò la donna, scontrosa, provocando una breve risata in frate Lauro.

“Sono solo realista... Il papa non è un vecchio decrepito, purtroppo... La nostra unica speranza è che i suoi vizi gli siano fatali e lo trovino morto nel letto, con una coppa di vino ancora in mano e un paio di cortigiane al suo capezzale... O che qualcuno acceleri ciò che la natura farebbe tra chissà quanto tempo.” spiegò il religioso.

“Mi state consigliando di ingaggiare un sicario?” sbuffò Caterina: “Sapete quanto mi costerebbe, un assassino tanto abile da arrivare fino al papa?”

“Immagino che messer Baccino, che è già a Roma, non sia l'uomo giusto...” fece Bossi.

La Sforza ci pensò sopra qualche istante. Il cremonese, forse, ne avrebbe avute le capacità. Lei, però, non era disposta a rischiare che lo scoprissero e lo uccidessero per un motivo del genere.

“Volete andare voi a Roma, a fare il lavoro sporco?” propose, invece, con ironia.

Il frate apprezzò lo spirito e commentò, toccandosi le ginocchia: “Se solo le mie giunture non fossero così anchilosate, solo per compiacervi, lo farei, mia signora...”

“Forse vi ho sempre giudicato con troppa durezza...” sorrise la Leonessa, sentendosi un pochino più leggera: “Non siete antipatico come vi ho sempre ritenuto.”

“Ho molte buone qualità.” convenne il frate e, dopo un altro breve scambio di battute, la Tigre lo lasciò libero di dedicarsi davvero alla lettura, mentre lei, più per tirare l'ora di cena che non perché ne avesse voglia, andò in biblioteca, per capire esattamente cosa stessero combinando Galeazzo e Bernardino.

 

Il Valentino non era tornato a Roma con grande pompa, anzi, sembrava quasi che non volesse far sapere troppo della sua presenza in città. Egli stesso aveva detto, quasi distrattamente, che sarebbe ripartito già il mattino seguente, per ritornare a Ceri dove, aveva lasciato intendere, c'era un grandissimo bisogno della sua presenza per concludere in modo positivo l'assedio.

“Gran bel modo per cominciare la settimana, non credete?” stava chiedendo il Borja, rivolgendosi a uno dei suoi servi da camera, mentre aspettava i suoi ospiti: “Avevo un amico che sosteneva che portasse male, indossare l'armatura di lunedì mattina...”

Il domestico annuiva di quando in quando, senza particolare trasporto, mentre versava paziente il vino per il suo padrone. Era stata allestita una tavola molto sobria e il Duca aveva dato disposizioni per una cena molto veloce e leggera. Da quando era arrivato a Roma, aveva lamentato un po' di brividi e di stanchezza e temeva di avere la gola un po' infiammata, quindi non intendeva trattenere a lungo il De Rossi e la figlia della Sforza. Anche se avrebbe voluto giocare a lungo con loro, punzecchiandoli come solo lui sapeva fare, non aveva molta voglia di stancarsi, anche in ragione di quanto l'aspettava il giorno seguente.

Finalmente, proprio quando Cesare stava iniziando a bere un sorso, le porte della saletta si spalancarono e si palesarono ai suoi occhi Troilo e Bianca. Quasi non fece caso all'uomo, troppo preso dall'immagine prorompente della giovane donna.

Aveva delle differenze, rispetto alla madre, ovviamente. Innanzitutto i suoi occhi erano blu scuro, mentre quelli della Tigre erano di un verde ramato molto particolare. La Riario aveva forme piene e sinuose come quelle della milanese, ma aveva in sé una grazia che la Leonessa non aveva mai avuto del tutto, a giudizio del Valentino.

La ragazza teneva i capelli raccolti, ma quelli che si intravedevano conservavano l'oro ereditato dalla madre. Aveva la pelle molto chiara e le labbra erano piene e catalizzavano l'attenzione quando la si guardava in viso.

“Contessa De Rossi...” salutò Cesare, alzandosi e sollevando il calice verso Bianca.

Questa abbassò lo sguardo, irrigidita suo malgrado, nel trovarsi dinnanzi l'uomo che aveva distrutto sua madre. Il Borja aveva un viso molto particolare e i suoi abiti, seppur portati con disinvoltura, avrebbero fatto capire a chiunque quanto fosse ricco e quanto poco badasse a spendere. La sua voce era profonda e gradevole, malgrado tutto, e il suo modo di muoversi denunciava una certa sicurezza nel proprio fascino. Malgrado tutti questi dettagli, che avrebbero portato la maggior parte della gente a etichettare il Duca di Valentinois come un uomo appetibile, per non dire attraente, nella Riario causavano solo una forze repulsione.

“Marchesa, caso mai.” lo corresse Troilo, gelido.

Finalmente il Borja guardò anche l'emiliano e, con un sorrisetto sghembo, gli fece notare: “A quello che so, re Luigi non ha ancora ufficializzato davvero la vostra carica a Marchese, quindi per me restate solo due Conti di campagna...”

Il De Rossi avvampò, ma tacque, memore degli accordi presi con la moglie il giorno prima. Si erano detti e ridetti di non cadere davanti alle provocazioni di Cesare, di lasciarlo parlare, di non contraddirlo, e di rendere quell'incontro il più breve e indolore possibile.

Tuttavia, quando il figlio del papa li invitò a sedersi e riprese a parlare, quelle promesse parvero subito molto difficili da mantenere, perché il Duca, dopo un sorso di vino, tornò a concentrarsi sulla Riario, e sibilò: “Assomigliate davvero molto a vostra madre... Ovviamente siete più giovane... Ho conosciuto la Tigre di Forlì quando aveva già i capelli bianchi e il corpo sfatto... La descrivevano come la donna più bella d'Italia, ma in alcuni bordelli ho trovato di meglio.”

Il De Rossi avrebbe voluto dire qualcosa, ma vedendo come sua moglie riusciva a tacere e non reagire in alcun modo, si sentì in dovere di fare altrettanto.

Un po' infastidito da quell'apatia, il Borja diede ordine di servire da mangiare e, per un po', si concentrò su Troilo, parlandogli della guerra. Volutamente calcò la mano sulle vittorie riportare dalla Francia e dal Vaticano, sperando, forse, di smuovere la Riario a quel modo, ma la giovane continuava a stare in silenzio, mangiando lentamente quello che le veniva offerto e sorbendo solo qualche goccia di vino.

Cesare, invece, un po' per combattere il sonno e un po' per abitudine, si faceva versare un calice dopo l'altro e nel giro di un'ora scarsa lo si poté definire ubriaco.

“Mi è spiaciuto non esserci, alle vostre nozze...” sogghignò, rivolgendosi a Troilo: “Dicono, però, che non sia stato uno spettacolo entusiasmante... Ma ditemi, lontano da occhi indiscreti, vostra moglie a letto com'è?”

L'emiliano deglutì e poi, sollevando le sopracciglia, provò a dire: “Non credo che siano affari vostri.”

Il Valentino, però, aveva imboccato una strada a senso unico e continuò a parlare come se l'altro non avesse profferito parola: “Di sua madre dicevano tante cose, ma sarebbe stato più divertente avere sotto le lenzuola un sasso... Ci ho provato in tutti i modi, ve lo giuro, ma più che piangere non era capace di fare...”

Bianca, malgrado tutte le imposizioni che si era fatta, nel sentir rivangare a quel modo uno dei momenti più bassi della vita della Leonessa, sentì un nodo chiuderle la gola e fu costretta a smettere di mangiare, per non strozzarsi.

“Mi auguro, quindi, che la figlia sia un po' meglio della madre, altrimenti vi toccherà chiedere una dote doppia, come risarcimento...” rise il Borja, battendosi una mano sul ginocchio, come se avesse appena detto la cosa più divertente al mondo.

“State parlando di mia moglie e di mia suocera.” sussurrò il De Rossi, facendo del suo meglio per non esplodere: “Mancando di rispetto a loro, mancate di rispetto anche a me.”

Il figlio del papa sollevò i palmi in modo teatrale e bofonchiò: “Mi spiace molto... Ma sto dicendo solo cose vere... Non dovevate imparentarvi con gentaglia simile, se non volevate affrontare certi discorsi...” e siccome l'altro schiuse le labbra per ribattere, il Borja l'anticipò, pur travisando le intenzioni del De Rossi: “Lo so, lo so... L'avete voluta solo per legittimare appieno il possesso di San Secondo, e in questo non posso darvi torto...”

“Infatti.” convenne l'emiliano, senza forze.

“E comunque è una bella cavalla, ci scommetto che in fondo non vi spiace molto montarla... E vi darà dei puledrini robusti come lei... Guardate che fianchi da fattrice!” esclamò il Duca, ridendo in modo sguaiato, bevendo poi un po' di vino che finì a sbrodolargli le lattughine candide della camicia.

A quella sua ultima esclamazione, Troilo aveva avuto una contrazione spiacevole, una di quelle che precedeva un concretissimo scatto di rabbia, ma Bianca l'aveva intercettato e, con un gesto velocissimo della mano, l'aveva frenato. Preso com'era da se stesso e dalle sue risate, il Valentino non si era accorto, per fortuna, di quel rapido scambio e non aveva quindi colto l'esatta portata del legame che c'era, tra i due che aveva davanti a sé.

“A Ceri come va?” chiese Troilo, a mo' di educata vendetta: “Pensate di metterci anche lì mesi e mesi a portare a termine l'assedio, o stavolta non ci sono tigri a tenervi testa?”

Smettendo all'istante di ridere, il volto tramutato in una maschera livida, il Borja ringhiò: “Ceri cadrà a giorni. E voi adesso potete andarvene. È stata la cena più noiosa della mia vita...”

Senza farselo ripetere, Bianca e Troilo si alzarono all'istante e raggiunsero la porta, camminando sempre più velocemente. Lasciarono i palazzi del papa come se avessero il fuoco alle spalle e solo quando si furono chiusi nella loro camera da letto a palazzo Riario si permisero di tornare a respirare.

Nessuno dei due accennò a nulla di quello che era stato detto a cena. Entrambi volevano solo scrollarsi di dosso l'appiccicosa sensazione che il Borja aveva lasciato loro addosso.

Si cambiarono in silenzio e poi si misero sotto le coperte, entrambi così presi dai propri pensieri da non essere nemmeno sfiorati dall'idea di fare altro se non augurarsi una santa notte e cercare di calmarsi e addormentarsi.

Solo dopo parecchio tempo, sentendo il De Rossi ancora sveglio accanto a sé, la Riario gli prese una mano e, lasciando che tutta la rabbia e il dolore provati quella sera defluissero, cercò le sue braccia e si mise a piangere silenziosamente accoccolata contro di lui, finché, taumaturgico, arrivò il sonno.

 

   
 
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