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Autore: H0sh1    09/03/2023    0 recensioni
"Ti ho causato io tutto questo, ma spero arrivi il giorno in cui sarai abbastanza forte da riuscire a disfartene".
Sebbene siano passati anni da quando quelle parole gli sono state sussurrate all'orecchio, Idia le conserva ancora, soppresse in un angolo oscuro dell'animo, senza mai tuttavia averne compreso il significato, né tanto meno ha mai incanalato i suoi sforzi per farlo.
Tra i corridoi di Ignihyde, la sua genialità e propensione per la tecnomanzia entrano in contatto con quelle di Sinesi, generando una profonda e reciproca curiosità accademica che, nonostante i caratteri all'apparenza opposti, li porta ad avvicinarsi. Durante una sessione di lavoro, Idia nota qualcosa di singolare: appunti, studi, informazioni sui Phantom che la ragazza non dovrebbe avere. Scegliendo di non indagare e bollandola come mera curiosità, liquida la questione, accorgendosi troppo tardi delle reali intenzioni che la muovono. La spirale di eventi che la "sciocca curiosità" di Sinesi innesca portano a galla quelle vecchie parole e per la prima volta Idia lascia che un interrogativo da loro affiori: di cosa dovrebbe davvero disfarsi?
[Headcanon autrice: Night Raven Collage aperto anche a studentesse.]
[Contiene spoiler dal 6° libro]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Idia Shroud, Nuovo personaggio, Ortho Shroud
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Abisso senza luce

- Prologo -

 

 

La notte aveva inghiottito l'ultimo spiraglio di luce e altro non faceva che enfatizzare un'angoscia di cui la gelida casa era pregna sino alle fondamenta. Così fredda lo era diventata, algidi erano anche i suoi abitanti, fantasmi bianchi e smunti che privi di qualsivoglia vitalità si trascinavano irrequieti, mendicando sollievo per le proprie pene. Trovavano conforto solo in ricordi consumati di risate infantili e scalpiccio di piedi in corsa appartenuti a bambini che, anche in quella gabbia oscura, erano riusciti a crearsi il loro piccolo mondo, fatto di eroi valorosi e indomabili avventurieri. Con la loro scomparsa, la dimora aveva smesso di essere una giungla, un deserto o un mare in burrasca, era tornata ad essere solo un pozzo in cui ogni desiderio andava a dissolversi nel vuoto, sparito agli occhi del mondo senza che nessuno potesse sapere fosse mai esistito. Investito da questa atroce consapevolezza, un uomo solitario sprofondò lungo lo schienale della sua sedia imbottita. La sua postura scomposta e il lungo tempo trascorso lì seduto gli aveva sgualcito il camicie grigio-blu; si reggeva la testa con una mano guantata di nero, le dita affondavano in una chioma fiammeggiante e cerulea, raccolta in una corta treccia che ricadeva morbida da una spalla. Con la sua aria distrutta, fissava stanco degli ologrammi al centro di un lungo tavolo ovale, senza tuttavia studiarli per davvero giacché la mente aveva risvegliato in lui la sensazione di sentirsi schiacciare e tutto era virato verso un'unica direzione.

«Ortho...»

Accadeva, alle volte, di avere come la sensazione di vederlo spuntare da dietro un angolo o da sotto il tavolo, e che il birbante lo guardasse con il suo largo sorriso sdentato. Aaah, cosa avrebbe dato per poterlo rivedere ancora una volta...

La porta alle sue spalle si era aperta e si era d'improvviso sentito riportare alla realtà da una voce sommessa. Era così familiare e rassicurante che non aveva bisogno di voltarsi per focalizzare la figura di una donna piuttosto anziana, che liquidò con un gesto pigro. «Te ne prego, Febe, pensaci tu, qualunque cosa sia.»

Ma pur di fronte all'irremovibilità dell'uomo, la vecchina si era ritrovata suo malgrado ad insistere. Mai prima della perdita del figlio più piccolo lo aveva visto così stanco, inerme e in balia del proprio destino: della forza con la quale custodiva i suoi tesori, così chiamava le sue piccole creature, facendo verso al loro regno magico, non era rimasto più nulla. E lei, come il resto dei ricercatori e di tutto il suo entourage, non poteva far altro che restare a guardare: aveva cresciuto quell'uomo ancor prima di accudire i suoi figli e mai prima di allora si era sentita tanto impotente. In virtù della sua sincera preoccupazione lo aveva esortato con quel suo fare calmo e dolce che infondeva una certa pace: «Lo so bene, Chidemo, ma credo che in questa circostanza dovresti fare uno sforzo» poi aveva stretto la morsa delle dita, qualcosa nella sua voce gracchiante lo aveva spinto finalmente a voltarsi. «per il bene di Idia.»

Finalmente, Chidemo si era rialzato dal suo torpore, tornando dritto sulla sedia. Sebbene fosse alquanto intimorito dalla risposta che l'anziana balia potesse dargli, gli aveva comunque avanzato la sua domanda, col groppo in gola. «Febe... che gli è successo?»

La donna aveva provveduto da subito a tranquillizzarlo, forse intuendo che la sua mente avesse partorito uno scenario ben più grave. «Lui sta bene, ma credo abbia bisogno di te.»

Stordito, era scattato in piedi forse con troppa foga poiché la sua vista si era oscurata per alcuni secondi. Ignorando il capogiro, aveva superato l'anziana, che aveva preferito restare dove era: aveva solo intravisto ciò che era invece rimasto del piccolo Idia, quando l'avevano chiamata, e a stento era riuscita a sostenerne la vista. Invece Chidemo aveva imboccato l'uscita della sala di controllo e aveva proceduto a marciare lungo il corridoio a grosse falcate mentre lottava per tenere a bada il tumulto di emozioni che lo stava devastando. Per due lunghi anni aveva cercato di abbattere il muro che Idia aveva innalzato tra sé e il mondo esterno, ma più forte aveva tentato più suo figlio si era chiuso a riccio. Era chiaro che in un certo qual modo si sentisse sollevato all'idea che fosse rinvenuto dal suo bozzolo di solitudine, ma quel conforto camminava a braccetto col terrore di scoprire cosa quel dolore avesse causato all'animo del suo ragazzo, così sensibile.

Voltato l'ultimo angolo che lo separava dalla sua stanza, si era avvicinato di gran carriera alla coppia di ricercatori che stazionavano sull'uscio aperto. Dall'interno provenivano frasi a loro dire sconnesse, faticavano a trovare il filo logico nel caos di un entusiasmo che in genere pareva innocuo ma che, in quel momento, sembrava solo sbagliato.

È tornato!

Ce l'ho fatta!

Finalmente è qui, è tornato!

Era la sua voce, dopo tempo la sentiva nuovamente chiara. La coppia, percependo la presenza del superiore alle loro spalle, si era ritratta per permettergli di passare e quando anche Idia si era accorto di lui lo aveva chiamato entusiasta. Era di fronte alla scrivania, che aveva spostato al centro della stanza, a braccia aperte nell'atto di celare allo sguardo quel che c'era dietro di sé. «Papà, guarda, ci sono riuscito!»

Quando il ragazzo si era fatto da parte, la prima cosa che Chidemo aveva sentito era stato il sangue ghiacciarsi nelle vene, d'improvviso era calato un freddo a dir poco disumano. Quella cosa se ne stava seduta sul bordo del tavolo tenendosi con le mani lungo il bordo, dondolava le gambe imitando in toto il comportamento di un bambino di circa cinque sei anni. I suoi occhioni gialli... erano come li ricordava, dolci e vivaci e proprio per questo era spaventato da ciò che la sofferenza di Idia aveva partorito. Era davvero a quello che aveva lavorato per quei due anni, ad una mera imitazione gelida e senz'anima?

«Cosa facciamo, signore?»

«Lasciatelo stare, ci penso io.»

La coppia di ricercatori si era lanciata uno sguardo preoccupato, ma senza ribattere alcunché si era congedata ed era andata via quasi correndo. Chidemo, dal canto suo, aveva preso un profondo respiro ed era entrato nella stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Tutto il consueto disordine era ammonticchiato lungo una parete, sotto il televisore e la grande libreria: le miniature e i giochi da tavolo erano abbandonati alcuni a terra e altri dentro grossi scatoloni, nei quali erano state abbandonate anche parte delle console che i ragazzi avevano sempre avuto premura di trattare con i guanti. Tutto messo da parte per far spazio a pezzi di ricambio, una capsula di contenimento, saldatori, cavi, alimentatori, che orbitavano intorno alla scrivania dalla quale l'androide, dall'esoscheletro bianco e i capelli fiammeggianti, giocherellava con Idia.

Anche la voce di quel bambino fantoccio era spaventosamente identica a come la ricordava e Idia... differentemente da “Ortho” era cresciuto, certo era più alto ma quando lo guardava gli restituiva solo uno sguardo vuoto, quasi spiritato, che non riusciva a riflettere l'inquietante entusiasmo di cui invece le sue parole erano piene. Il cuore dell'uomo faticava a vedere il modo in cui il dolore lo aveva sfigurato: anche quel bambino che sognava di diventare un avventuriere, di conquistare il mondo al fianco del suo fedele compagno era ormai morto, tutto ciò che aveva lasciato era un involucro di disillusione. Non era riuscito a salvaguardare nemmeno quello... era sua la colpa. Sciocco da parte sua pensare che quanto meno i suoi figli, i suoi tesori, potessero sfuggire al vortice di oblio e vuoto a cui da generazioni la loro famiglia era condannata. Lui, con il suo egoismo, li aveva portati a quel mondo e trascinati sul fondo di quell'abisso dove la luce non sarebbe mai arrivata.

«Idia... » aveva cercato di chiamarlo, era faticoso tenere la voce ferma, ma il ragazzo non faceva altro che tessere le lodi della sua creazione, gaio di aver riportato a se stesso e a loro ciò che avevano perso.

«L'ho ricreato in tutto e per tutto, ha tutti i suoi ricordi, anche se campionare la voce non è stato semplice. L'IA è completamente autonoma, self learning!» Il trasporto con il quale parlava era perfettamente tangibile, fermarlo prima di oltrepassare il limite era impossibile. «Sarà come se non fosse mai andato via!»

C'era stato un momento di silenzio nel quale il ragazzo aveva guardato suo padre dapprima confuso per poi percepire una certa irritazione: non era quella, la reazione che si aspettava, perché nessuno riconosceva la grandiosità della sua impresa?

«Come se non fosse...» Monotono, Chidemo aveva ripetuto quelle parole tra sé, prima di ricomporsi. «Non puoi credere sul serio che sia la stessa cosa.»

Idia aveva scrollato le spalle, irritato, come se volesse scrollarsi di dosso le parole del suo vecchio. «Anche tu la pensi come loro? Il taboo... nessuno se ne rende davvero conto, nessuno vede che sono riuscito-»

«A riportarlo dalla morte?»

Idia, nel sentire la severità nella voce con la quale Chidemo lo aveva anticipato, aveva mosso qualche passo indietro, finendo con addossarsi al tavolo. Travolto da una certa foga, l'uomo aveva proceduto a ridurre la distanza tra loro, sfogando la ripugnanza che la sola idea di quella bambola gli procurava. «Non importa quanto accurato sia, la sua vista» e indicando l'umanoide al suo fianco aveva continuato «la vostra vista... mi strazia. Pensi sia davvero questo che volevamo?»

Si era tuttavia bloccato quando Idia, incapace di alcun controllo, era scoppiato in una risata sguaiata e aveva lasciato che lo sfogo proseguisse finché il riso non si era tramutato in un pianto sommesso. «Non capisco... io l'ho riportato da noi... perché...»

Arrivati ad un tale punto, Chidemo aveva fatto l'unica cosa che da anni desiderava fare ma che Idia non gli aveva mai permesso. Si era mosso cauto verso di lui, lo aveva poi afferrato per un polso e lo aveva stretto a sé. Il ragazzo, inizialmente spiazzato, aveva lottato per liberarsi dalla sua presa: non aveva bisogno di qualcuno che non fosse in grado di comprenderlo. Si era arreso solo quando suo padre, col cuore in mano e arreso alle lacrime, gli aveva sussurrato: «Ti ho causato io tutto questo, ma spero arrivi il giorno in cui sarai abbastanza forte da riuscire a disfartene. Perdonami, Idia... perdonami...»

   
 
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