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Autore: J85    17/03/2023    0 recensioni
Quinto ed ultimo capitolo del pentagono di racconti con protagonista Sara Silvestri.
Nello specifico, si tratta di una mia personale rivisitazione del manga "Cyborg 009", in cui la storia è stata decisamente modificata.
Inoltre, questa storia a capitoli servirà ad esplorare il mio personale universo narrativo, sviluppato durante tutti questi anni di passione per tutti questi anni di scrittura e immaginazione.
Per uno strano scherzo del destino, nove persone, di varie nazionalità e professione, si ritrovano con la propria vita totalmente stravolta dall'essere stati trasformati in mutanti, ognuno con un suo potere specifico.
Ad aiutarli, arriverà proprio la nostra Sara che li addestrerà per affrontare al meglio l'organizzazione criminale nota come Spettro Bianco, in tutta una serie di avventure, compresi what if e crossover.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Cross-over, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 22

5 storie”




Il bel mare oceanico risplendeva calmo e tranquillo. A rompere però la piatta superficie liquida vi era niente meno che una gara natatoria, sebbene improvvisata. Sei personaggi si dirigevano più velocemente possibile verso la riva.

Con netto distacco arrivò primo Juna, anche grazie al suo potere mutante che, in questo ambito, gli era decisamente utile. Dopo di lui, un delfino si tramutò rapidamente in Borghi. Di seguito, giunsero sul bagnasciuga Lincon, Giunan, Wayne e Arone.

“Però ti stavo per raggiungere!” osservò Bernardo, tornato in forma umana, al vincitore.

“Comunque il tuo dovrebbe essere considerato doping, Juna” protestò ironicamente Johnny.

“Ma sentilo… ma se mi hai pure aspettate per fare il gentiluomo” lo rimproverò dolce Frédérique.

“Per quanto mi riguarda l’ho fatto solo per mantenermi in linea, le gare sportive non riscuotono particolarmente il mio interesse” Jack informò i presenti.

A pochi metri da loro Chang, mentre impugnava una vecchia canna da pesca con l’amo in acqua, si voltò infuriato “Volete fare silenzio che mi spaventate tutti i pesci!”.

“Invece lo sport è sempre una bella cosa!” replicò la ballerina.

“Meglio se a motore!” aggiunse il pilota.

“Io preferisco rimanere fedele alla lucha libre” replicò il baffuto.

“Seguo solo le olimpiadi…” proseguì il dandy.

“Le olimpiadi sono delle gran cazzate!” sbottò stufato Andrea, al riparo sotto l’ombrellone con Igor “Anche i giochi olimpici si sono dovuti fermare per le guerre, in più ora sono pieni di sponsor e non più composte da soli dilettanti com’era nei primi anni!”.

Tutti lo fissavano basiti.

“Per non parlare poi di quando sono state boicottate per mere questioni politiche!” concluse sempre più incavolato.

L’atmosfera si era fatta palesemente pesante.

D’un tratto, la lenza iniziò a tirare. La canna logora si tese talmente tanto, finché lo spago non si spezzò di netto.

“Ecco fatto, niente pesca miracolosa!” annunciò il cuoco, mentre osservava rattristato il danno appena subito dalla natura.

Ancora pensieroso, l’africano iniziò a lanciare sassi verso il mare.

“Sarà come dice Andrea però, secondo me, in certi casi lo sport può arrivare addirittura a salvarti la vita…”.


Come un gigante addormentato, un transatlantico aveva un proprio lato adagiato sugli scogli aguzzi attorno ad un’isola selvaggia.

Sdraiata sulla sabbia, quasi a voler rassomigliare all’enorme natante, una giovane ragazza dalla folta chioma bionda, con il corpo pieno di tagli e i vestiti strappati, si stava ridestando con grande fatica.

Rimessasi lentamente in piedi, barcollò senza metà nella spiaggia, finché non si trovò davanti, a circa un chilometro davanti a sé, una cupa magione.

Le sue gambe esili si rivelarono incredibilmente resistenti e, poco dopo, riuscì a bussare alla pesante porta del castello.

Per alcuni minuti, tutto rimase immobile. Poi, con un sinistro cigolio, l’uscio iniziò ad aprirsi. La minuta figura della donna fu coperta da un’ombra gigantesca. Un energumeno, dalla folta barba scura come i suoi occhi, con i quali la fissava impassibile, le si parò d’innanzi.

Nonostante l'inquietudine iniziale, lei parlò. O meglio, tentò di parlare. Con sua gran sorpresa, la sua gola parve non voler in alcun modo collaborare con la comunicazione verbale.

“Chi è, Ivan?”.

all’udire quella voce proveniente dalle sue spalle, il nerboruto si defilò, permettendo così all’ospite di poter entrare.

Un uomo vestito con un frac elegante, come il pizzetto nero e i capelli ingelatinati all’indietro che lo caratterizzavano, la stava osservando, stando in piedi e immobile su uno dei gradini a metà di una scala in pietra.

“Benvenuta, signorina” lui riprese la parola, così come la sua discesa.

Una volta giunto al loro stesso piano, proseguì.

“Io sono il conte Zaroff. Posso sapere il suo nome, di grazia?”.

La ragazza, ammaliata da quel fare così raffinato, si ridestò, mettendosi a smanettare per fargli capire il suo improvviso deficit comunicativo.

l’uomo la osservava basito.

Lei allora ebbe un’illuminazione. Dalla tasca posteriore dei suoi calzoncini strappati e sporchi riuscì a tirar fuori una tessera scolastica.

A fianco di una sua foto sorridente, vi era scritto il nome dell’Istituto, Shiroiwa, la sua data di nascita, il 24 novembre, e il suo nome: Kurako Takigawa.

“Dunque, una giapponese” dedusse il conte.

L’altra annuì con enfasi.

“Ipotizzo che lei sia l’unica sopravvissuta a quel terribile naufragio di qualche ora fa”.

Appena saputa la verità su quanto accaduto, l’orrore le si dipinse negli occhi. Il suo corpo si fece di colpo più pesante.

“Non si preoccupi, ora lei è in salvo, signorina” le disse lui, afferrandola per un braccio in maniera preventiva “A quanto pare, lo shock l’ha resa muta, spero momentaneamente…”.

“Ivan!” si voltò di scatto verso il suo servitore “Portiamola nella sala ricreativa”.

Il colosso non se lo fece ripetere due volte e, afferratala saldamente per le spalle, la scortò verso una nuova stanza.

Questa era piena di sedie e divani imbottiti e finemente costruiti. Un ampio camino decorato faceva bella mostra in un angolo del salone. Così come una larga tavolo rotonda in legno antico, un mappamondo dal diametro di un metro e un pianoforte a coda. Alle pareti, vi erano vari quadri con raffigurati soggetti piuttosto inquietanti.

Ma ad inquietare ancora di più Kurako era Ivan.

“Stia tranquilla, signorina Takigawa” la tranquillizzò il conte “Ivan è solo un tranquillo e vecchio cosacco”.

La studentessa girò il suo sguardo verso l'aristocratico.

“Piuttosto, mi secca non poterle offrire niente, ma abbiamo terminato la cena ormai da un bel po’…”.

La bionda si sentiva sempre più disorientata.

“Tralasciando ciò, lei immagino abbia degli hobby, dei passatempi, in Giappone?” riprese a parlare Zaroff.

Takigawa annuì lentamente.

“Eccellente. Vede, anch’io ho i miei. Una su tutte è decisamente la caccia! Nello specifico, prediligo utilizzare l’arco da guerra tartaro”.

nel rivelare ciò, indicò un esemplare di tale arma infisso ad una parete della stanza.

“Tra le mie prede preferite, vi sono assolutamente le tigri. Inutile dire che, queste ultime, non apprezzano particolarmente questa mia predilezione”.

Accompagnò tali parole con il passare l’indice della sua mano destra sulla sua tempia destra. Su di essa, Kurako notò per la prima volta una profonda cicatrice lunga una decina di centimetri.

“Oh, mi scusi la scortesia!” attirò nuovamente la sua attenzione il suo ospite “Le posso offrire qualcosa da bere? Magari, un bicchierino di vodka?”.

Lei scosse il capo negativamente.

“Ah, giusto! Lei signorina è ancora troppo giovane per bere. Ivan!” di nuovo rivolto al suo servo “Porta alla nostra ospite un bicchiere d’acqua, grazie!”.

Mentre lo stesso conte era impegnato a versarsi del liquore in un calice, la giapponese ne approfittò per alzarsi e guardarsi un attimo attorno. Affacciatasi appena da una finestra, notò al di sotto una ventina di cani da caccia. Gli animali, come radiocomandati, alzarono i loro sguardi all’unisono verso di lei.

Mentre Takigawa sorseggiava lentamente il bicchiere che le era stato offerto, il conte Zaroff si accomiatò “Mi perdonai signorina Takigawa, ma l’ora si è fatta tarda. Ovviamente, lei sarà mi ospite, farò allestire per lei un’adeguata camera da letto da Ivan”.


Nonostante quella situazione surreale, la ragazza riuscì a scivolare in un sonno senza sogni. Finché lo squittio di topi la fece ridestare in un lampo. Impaurita di aver a che fare con quei luridi roditori, afferrò un candelabro, che per fortuna aveva lasciato accesso sul comodino accanto al suo letto. Scesa dal suo giaciglio, sempre più preda del terrore, aprì la porta della camera e si decise a riscendere nuovamente in salotto.

Nella furia alimentata anche dalla totale oscurità, si ritrovò a spingere una pesante porta in ferro e ad entrare in un’altra stanza del castello.

Con il fiatone che le usciva dalla bocca in nuvolette, decise di illuminare la parete a lei più vicina. Le fiamme traballanti delle candele rivelarono un inquietante volto umano. Solo il suo mutismo ancora presente non fece udire, in tutta la magione, il suo urlo terrorizzato. Con le lacrime agli occhi, notò che quella testa, riconducibile purtroppo soltanto ad un cadavere, era attaccata alla parete da un cerchio ligneo, come si fa con i più tradizionali trofei di caccia. Sul suo capo in decomposizione, era stato appoggiato il capello tipico dei capitani navali. Così come quelli delle crociere.

“Ma la preda che più amo cacciare, sarà sempre ed esclusivamente l’uomo!”.

La voce improvvisa del conte Zaroff la fece voltare e sobbalzare. Lui la stava fissando con un ghigno satanico dipinto sul volto.

La sua mente la stava abbandonando al suo destino, ma il suo coraggio non rinunciò alla fuga. Con uno scatto disperato, evitò il padrone di casa e si proiettò verso l’enorme portone d’ingresso. Davanti ad esso vi era Ivan che, incredibilmente, lo aprì senza difficoltà e la lasciò passare.

Il padrone di casa guardò compiaciuto il suo servo, mentre lo raggiungeva.

“I miei complimenti, Ivan. Diamole un minimo di vantaggio. Altrimenti la noia sarà eccessiva.”.


Mentre proseguiva in fuga dalla notte, Takigawa era ancora talmente lucida da sapere dove andare.

Giunta nel punto più alto dell’isola, poté così constatare che essa era molto più piccola di quello che sembrava. In più, la vicinanza con la terra ferma non era per niente proibitiva.


Era passata più di un’ora quando Kurako, nascosta per riprendere fiato dentro una piccola caverna, vide passare il suo personale cacciatore, armato del suo fedele arco.

Attesa ancora qualche minuto, per essere certa che si fosse allontanato il più possibile. Poi scattò.

“Dove scappi, mio bel leopardo?” le urlò dietro il conte.

Una freccia le sibilò vicino alla guancia sinistra. Ma lei fu più rapida finché non raggiunse una palude.

Una nebbia spettrale copriva quel lato dell’isola, ma Zaroff le era ancora alle calcagna.

“Signorina Takigawa, lei pensa che io non sappia come affrontare ogni insidia della mia isola?”.

Afferrato dalla sua cintura un antico corno da caccia, si mise a suonarlo.

Al castello, udendo quel segnale, Ivan aprì un cancello secondario. Da quell’apertura, partirono alla carica i cani da caccia, con la bava alla bocca e gli occhi iniettati di sangue.

La ragazza ormai non sentiva più i piedi. Le sue gambe toniche percorrevano in automatico quella fuga disperata. Qualche lacrima le uscì dalle palpebre e le rigò in orizzontale il viso. Anche quelle furono lasciate indietro.

Un boato le si fece sempre più vicino. Delle cascate. Le scelte erano due: un tuffo nell’oceano o sbranata dai cani. Kurako Takigawa scelse la prima.

Quando infine giunse il conte Zaroff, non poté che fissare la spuma fragorosa dell’acqua sugli scogli, mentre si percorreva con il dito la cicatrice che aveva sul volto.

Come a dichiarare che l’isola stessa ne aveva abbastanza di quel macabro passatempo, il terreno sotto ai suoi piedi si sgretolò facendo crollare l’assassino, insieme al resto dello strapiombo crollato, su quelle rocce acuminate.


A volte però i miracoli accadono. La giovane studentessa nipponica riuscì a raggiungere la riva dove ancora regnava la civiltà. Una volta nuovamente nella sua adorata scuola, diventerà un talento dell’atletica leggera nei 10.000 metri. La parola però non le ritornò mai più.




Repubblica Democratica del Congo, Parco Nazionale di Kisangani


Appena arrivato in jeep, Juna fu accolto da un gruppo rumoroso di bambini festanti. Pareva il ritorno di un messia tra i propri fedeli.

“Ciao ragazzi! Come state?”.

I giovanotti risposero tutti insieme, creando una gioiosa e, al tempo stesso, incomprensibile cacofonia.

Con un’enorme pazienza, il mutante si mise ad ascoltarli uno per uno. Mentre proseguiva la sua opera di ascolto, notò uno di loro che se stava più sulle sue, distanziato dal gruppo.

Appena sistemati tutti gli altri, gli si avvicinò.

“Ciao, io sono Juna. Tu come ti chiami?”.

“Io mi chiamo Bandu. Ti conosco, sei quello che salva gli animali”.

“Esatto!”.

“E non solo quelli…” proseguì nei suoi pensieri.

Il ragazzino continuava ad avere un’espressione mogia in viso.

“Cos’hai per essere così triste, Bandu?”.

Bandu abbassò lo sguardo. Dopo qualche minuto di reticenza, si decise a confessarsi.

“Domani ho la prova di coraggio…” disse con un filo di voce.

Fu allora che Juna si ricordò di quell’antica tradizione della sua tribù, sebbene altre culture l'avrebbero immediatamente etichettata come barbara.

Per conclamare il passaggio definitivo da ragazzo ad uomo, il partecipante deve tuffarsi in un laghetto, avendo come obiettivo il recupero di una gemma lanciata poco prima al suo interno dallo sciamano del villaggio. Le sue acque scure però nascondono la vera difficoltà della prova: un branco numeroso di meduse d’acqua dolce.

l’adulto abbozzò un sorriso “Hai paura?”.

Bandu annuì, sempre tenendo la testa bassa, fissandosi i piedi scalzi.

“Stai tranquillo Bandu, ti darò una mano io!”.

Il ragazzino rialzò sorpreso il capo, con occhi e bocca spalancati.

“C-Come?”.

“Fidati di me”.


La sera si svolsero le danze rituali di buon auspicio. Lo stesso Juna ne era l’ospite d’onore. Gli adulti indossavano della larghe e pesanti maschere in legno, mentre danzano freneticamente attorno ad un falò fiammeggiante.

Una volta terminata la festa, il povero Bandu non riuscì a chiudere occhio per tutta la notte.

Nel frattempo, il Soggetto N. 8 approfittò che tutto il popolo era a riposare per tuffarsi dentro a quello stesso lago che il giorno dopo sarebbe stato protagonista. Per l’occasione aveva indosso la sua divisa rossa con l’enorme H gialla sul davanti.


Il giorno del rituale tutta la popolazione era radunata attorno al lago sacro. Il giubilo era talmente presente nelle loro teste che nessuno parve notare un’assenza importante.

Chi di certo era presente era un bambino spaventato, con le gambe che a fatica riuscivano a non tremare.

Come da cerimonia, lo sciamano fece zittire i tamburi celebrativi e lanciò una piccola perla bianca al centro della distesa d’acqua.

“Giovane Bandu, va e diventa uomo!” gli ordinò il sacerdote.

Il giovane tentennava. Quando però sentiva il peso dell’attesa di tutti i presenti addosso, chiuse gli occhi e si tuffò nelle acque gelide.

l’oscurità lo avvolse in un attimo. Nonostante questo, la lucentezza della perla sacra doveva garantirgli di essere scovata. Ma Bandu non era certo preoccupato di tale evenienza, o della mancanza di ossigeno nei polmoni che sarebbe sopraggiunta. Lui era pronto a sentirsi pizzicare fino alla morte da tutte le meduse che vi vivevano. Questa soluzione non avvenne mai.

Rendendosi conto di essere ancora pienamente cosciente, il ragazzino aprì piano gli occhi. Come una vera e propria divinità marina, Juna gli stava porgendo tranquillo la perla necessaria per la conclusione della cerimonia. Attorno a loro due, gli animali tentacolari se ne stavano ben distanti, come a fare da corteo a quel surreale incontro.




Trento


“… Sono 400 euro, non fare la troia con me!” le abbaiò contro il tizio dalla faccia poco raccomandabile, che spuntava da sopra un giubbotto pesante.

Dietro di lui, altre due persone dal medesimo stile.

“Ti ho già detto che non ce li ho al momento!” replicò secca la donna.

“E allora farai la troia e mi succhierai il…”.

Il criminale non fece in tempo a finire la sua frase volgare che scomparve, per ritrovarsi a chilometri di distanza dal luogo precedente.

I tre presenti rimasero spiazzati da quello sviluppo così assurdo. Finché non parlò una quarta persona.

“Interessante questa pistola variabile…”.

Osservò soddisfatto Alberti, mentre la sua mano destra cambiava forma.

“Ma chi cazzo sei?” gli urlò contro uno degli uomini rimasti.

Lui rispose direttamente con un nuovo sparo. Come le pistole usate da bambini, anche questa sparava acqua. Ma, invece che un esile schizzo, una gigantesca onda sommerse i due malintenzionati.

Lei fissò la coppia portata via dalla marea. Poi tornò a guardare il mutaforma.

“A-Andrea…” sussurrò sorpresa.

“Francesca”.


Giunto in un appartamento che non era il suo, Andrea tornò, dopo un lungo tempo, ad abbracciare stretta la sua fidanzata.

“Amore mio! Dove sei sparito per tutto questo tempo?”

“Ho avuto un po’ da fare…”.

““Un po’ da fare”?! . È quasi un anno che non ho più tue notizie! Ovviamente, a quel fascista di tuo padre non ho potuto chiedere nulla perché figurati!”

“Mi dispiace Francesca, ma ho preferito non informarti per il tuo bene”.

“Ah certo! Magari ora viene fuori che i tuoi amici militari ti hanno mandato in qualche missione top-secret!”.

“Fidati, è anche più assurdo di così…”.

“E cosa è successo alla tua mano?” indicò l’arto menzionato.

“Fa parte di tutta questa situazione assurda”.

“Andrea…” lei lo fissò preoccupata “che ti è successo?”.

“E a te allora?” restituì lo sguardo lui “Che ci fai in questo misero appartamento? Dove sono i tuoi?”.

La rabbia comparve sul viso della donna “Tu credi che sia semplice andare avanti con un fidanzato scomparso nel nulla? Con la gente che non perde un secondo per riempirti di domande? Magari pensando che ero io la causa della tua scomparsa!”.

“Ma io ho parlato con i miei! Possibile che non ti abbiano detto nu…”.

“Fanculo i tuoi, Andrea! Io volevo saperlo da te!” sbottò infine lei, con un urlo fragoroso.

Il silenzio si frappose tra i due.

“Perdonami, Francesca” si scusò a voce bassa il Soggetto N. 4.

“V-Vuoi qualcosa da bere?” chiese spiazzante lei.

“O-Ok”.

La sua ragazza si avviò verso il frigorifero, poco distante. Improvvisamente, s’inginocchiò di colpo a terra. Il corpo travolto da un tremito di pianto.

Appena vide la scena, Andrea si buttò subito su di lei, stringendo la sua schiena al suo petto e appoggiando il mento sulla sua spalla.

“Perdonami per tutto quanto, amore“ le bisbigliò all’orecchio ”Dov’è il letto? Così ti puoi sdraiare un po’”

“D-Di là” indicò con mano tremante.


Entrati nella camera da notte, l’uomo fece sdraiare delicatamente la donna. Lei iniziò a rilassarsi, mettendosi una mano davanti agli occhi per schermare la luce della lampadina.

“Non pensavo potesse essere così difficile per te” esordì Alberti, seduto ai piedi del letto.

“Diciamo che ho dovuto crescere in fretta in questi mesi” esclamò Francesca “quando anche i miei stessi genitori hanno cominciato a dubitare di me, me ne sono venuta via e ho trovato questo appartamentino in affitto…”.

“E per l’affitto hai chiesto a quelle persone?”.

“Non potevo fare altrimenti!”.

“E non hai fatto altro?”.

Nuovamente il silenzio tra i due fidanzati.

Francesca sollevò la mano dagli occhi per osservarlo bene. Pochi secondi e si alzò in piedi. Con fare suadente, si mise a togliere gli indumenti che aveva indosso.

Andrea la fissava muto, cercando di nascondere il più possibile la propria eccitazione.

Nel giro di pochi minuti, era totalmente nuda di fronte a lui. Con gli occhi nocciola che continuavano a fissarlo e i capelli biondo chiari che coprivano a malapena il suo florido seno.

“Per quello, aspettavo il mio uomo…” gli sorrise maliziosa.

Il Soggetto N. 4 le restituì il sorriso erotico. In pochi secondi, si ritrovò nelle stesse condizioni della sua amata.

Con il lettone a loro totale disposizione, fu facilmente intuibile come avrebbero passate le ore successive.


All’esterno dell’abitazione, i tre sgherri di prima meditavano la propria vendetta.

“Ma sei sicuro che ti trovavi così distante?” domandò uno dei presenti.

“Cazzo sì!” sbraitò il capo del trio “Non so come sia successo, ma ora quel figlio di puttana la pagherà!”.

“Ma invece non facciamo meglio ad andarcene?” propose un terzo.

“Che hai paura, coglione? Pensi che ci siano i fantasmi?”.

Il capo di colui che aveva appena parlato girò di colpo tutto a sinistra. Poi a destra. Poi verso l’alto. Infine crollò esanime a terra.

Gli altri due assistettero a tutta quella performance con occhi e bocca spalancati.

Poi, anche per loro, arrivarono colpi potenti che non videro ma subirono in pieno.


Nel frattempo, i due amanti ora si tenevano abbracciati pelle contro pelle, sempre sdraiati nel loro giaciglio intimo.

“Non abbandonarmi più” gli ordinò tenera Francesca, mentre fissava il soffitto.

“Te lo prometto” la assicurò Andrea, voltandosi verso di lei.

Improvvisamente, da fuori si udì un trambusto prolungato.

Allarmato, il mutante si infilò rapido i boxer e andò a spiare da dietro le tende della finestra. Notando i tre individui al suolo, si azzardò ad aprire il vetro.

“Ehi voi! Che state facendo lì?” gridò verso i tre.

“Scusa per la confusione, ho cercato di fare il più piano possibile”.

Scattando di lato dallo spavento, il mutaforma vide comparire davanti ai propri occhi, seduto sopra al breve ripiano della finestra, una specie di quadrupede metallico.

“Tu chi sei? O cosa sei?” gli chiese stupefatto.

“Sono praticamente un capibara robot invisibile, ma non preoccuparti! Mi manda Witch Girl! Ultimamente si è fissata con l’evocare dei minion animali malvagi”.

Fu così che, grazie a quell’assurda creatura, il Soggetto N. 4 poté spiegare alla sua compagna come aveva passato gli ultimi mesi.




“Jack, hai i viveri?” chiese il Soggetto N. 1.

“Affermativo” rispose alla domanda telepatica il Soggetto N. 2, mentre planava in direzione della villa degli Humana.

“Johnny, hai le bibite?”

“Certo che sì! Sperando che non si sgasino troppo durante il mio rientro” replicò il Soggetto N. 9, mentre faceva a gara con un treno ad alta velocità accanto a lui.


Nel giardino attorno al loro quartier generale, il resto del gruppo attendeva i due ultimi arrivi. Tutti indossavano abiti estremamente eleganti.

“Li vedo entrambi!” informò raggiante il Soggetto N. 3, mentre gli altri due erano ancora a miglia di distanza.

“Perfetto!” si complimentò Sara Silvestri “Vediamo se almeno questo capodanno lo organizziamo bene”.

“Allora io vado ad apparecchiare…” si propose il Soggetto N. 4.

“Ma no, Andrea!” lo fermò la francese “lascia fare a me!”.

“Io dunque mi occuperò della cucina!” annunciò fiero il Soggetto N. 6.

“Tranquilla Frédérique, non c’è problema” insistette l’italiano “almeno così mi rendo utile anch’io!”.

L’inglese atterrò con eleganza sul prato, con sé aveva un ampio borsone della spesa “Di che cosa si lamenta ora il mangia-spaghetti? Per una volta che non fai nulla…”.

“Parli proprio te che non hai mai fatto nulla in vita tua!”.

“Sempre meglio che avere, come unica ispirazione, quella di andare a uccidere gente innocente nell’esercito!”.

“Almeno io ho uno scopo nella vita!”.

“Ma per favore!”.

“Calma, ragazzi!” cercò di placarli Frédérique.

“Siamo qui per festeggiare, non certo per infamarci a vicenda!” si aggiunse il Soggetto N. 8.

“Davvero?” sbottò ancora di più il mutaforma bellico “Allora io me ne vado, perché non ho proprio niente da festeggiare!”.

Detto ciò, si allontanò a grandi falcate verso il portone dell’abitazione.

“Andrea, fermati! Torna qui!” tentò di richiamarlo la sua connazionale.


Infuriato come non mai, il militare stava proseguendo nel lungo viale che portava dalla villa fino alla strada principale.

“Ne ho le palle piene di questo gruppo!” bofonchiava incavolato.

“Ed è per questo che te ne scappi via?”.

Alberti aveva già riconosciuto quella voce. Appena voltatosi, vide Lincon, che indossava ancora l’uniforme rosso e gialla utilizzata per il volo, fissarlo minaccioso.

“Non sono affari tuoi, Jack”.

“Perché invece non ti batti da uomo a uomo?”.

Il trentino rimase sorpreso da quella richiesta “Cosa?”.

“Hai capito bene, stronzo. Tu ed io. Uno contro uno!” sentenziò lo sfidante.

Lo sfidato ridacchiò “Guarda, caro il mio dandy, lascia…”.

L’altro gli si avventò contro con un drop-kick dritto allo sterno. Caduto all’indietro supino, il britannico gli fu subito addosso e, rovesciandolo in posizione prona, effettuò una cañonera. Non contento, lo risollevò leggermente e mise in atto la Casita. Per poi concludere il tutto con la presa a terra chiamata Rana.

“M-Ma che?” Andrea era shockato da tale agilità e rapidità d’esecuzione.

Il dandy, come niente fosse, si tirò su con una capriola.

“E ora vieni dentro che ti offro una birra” gli porse la mano.

Lo sconfitto accettò l’aiuto e, ancora in stato catatonico, seguì il vincitore nella villa.


“T-Tranquillo… noi inglesi lo reggiamo bene l’alcol… ich…”.

Era già il terzo boccale che si scolava. Jack iniziava a dondolare pericolosamente sullo sgabello di cucina.

“Sei sicuro?” gli domandò dubbioso Andrea.

l’altro non gli rispose nemmeno, visto che era già intento ad attaccare la quarta pinta di birra.

“Ehi, voi!” dall’altra stanza entrò Lincon. Un altro Lincon.

“Ma che cazzo?” imprecò spiazzato Alberti.

“Venite di là a festeggiare con tutti noi altri, screanzati!” li infamò il britannico.

L’attenzione dell’italiano fu però subito catturata dal collasso del suo compagno di bevute che, senza neanche un lamento, crollò all'indietro.

Sporgendosi dalla seduta, Andrea scrutò, incredibilmente addormentato sul tappeto della stanza, Bernardo che russava stile trattore.


Grazie alle doti del messicano, l’armonia tornò a governare sul gruppo di eroi. Allo scoccare di mezzanotte, si radunarono tutti fuori in giardino. Per quella notte speciale, era in programma uno spettacolo pirotecnico offerto dallo specialista giapponese Koichiro Tamaya.

“Speriamo che il prossimo anno ci regali un po’ di pace” fu il primo desiderio dell’anno pensato da Johnny Wayne.




Tokyo

“Specialità cinesi! Specialità cinesi, signori! Vi cucino tutto ciò che ordinate!”.

Chang Yu aveva appena posizionato il suo carretto in legno, completo anche di piastra e fornelli da poter utilizzare, che già si era messo a richiamare l’attenzione dei passanti.

Una persona, più anziana di lui, si avvicinò alla postazione.

“Non ti conviene rimanere qui nelle vicinanze…”.

“Perché scusa? Più adatto del cortile di una scuola cosa c’è?”.

“Non è per il luogo, fidati”.

“Per cos’è, allora? Forse le 8 sono troppo presto?” controllò l’orologio che aveva al polso.

“Nemmeno. La questione è più complessa”.

“Tu dici? Ma soprattutto, tu chi sei?”.

“Mi chiamo Seiya Inada, e ti assicuro che ho decisamente più anni di esperienza di te”.

“Questo non lo metto in dubbio” il cuoco afferrò un recipiente ligneo, scoperchiandolo nel contempo “Perché non provi uno dei miei ravioli al vapore?”.

Il giapponese non fece in tempo ad allungare la mano che, a ricoprire in maniera precisa la prelibatezza, una palla da basket ci si conficcò sopra per una delle estremità.

Il potenziale cliente sbuffò “Ecco di cosa parlavo…”.

“Scusatemi, colpa mia” un ragazzo dai lunghi capelli neri si presentò tra i due e riprese a forza la palla, stappandola a fatica.

Nel far ciò, il contenuto della ciotola finì tutto per terra.

“Oh cavolo, scusa! Io…” ma l’attenzione del giovane fu catturata dall’orologio di Chang “devo andare! Mi iniziano le lezioni!”.

Lo studente fece dietrofront e, ancora con il pallone in mano, si avviò ad ampi passi verso l’ingresso scolastico.

“Ehi, tu!” lo richiamò imbufalito il mutante.

“Si chiama Ryo Soda” lo informò Seiya.

“Grazie!” lo ringraziò rapido, poi si voltò nuovamente verso il suo obiettivo “Fermati!”.


Nonostante le leve decisamente più corte, il cinese tentò di seguirlo fin dentro l’istituto Shiroiwa.

Scrutatosi un po’ attorno, riconobbe la stessa maglia rossa, con le iniziali R e S bianche cucite sul davanti, del suo ricercato. Quello che però la stava indossando era alquanto più basso.

“Come pensi di rimediare al tuo danno, giovanotto?” riuscì anche a guardarlo negli occhi.

l’altro, che lo fissava impassibile con i suoi occhi ambrati, gli mostrò i due guantoni da boxe che stava indossando.

“C-Che vuoi fare?” il Soggetto N. 6 si stava decisamente preoccupando.

l’avversario non replicò e partì con il tempestarlo di pugni.

Chang riusciva a malapena a non beccarseli in pieno finché, vista a repentaglio la propria vita, fu costretto ad utilizzare il suo fiato infuocato.

I due guanti ora stavano andando a fuoco, mentre il loro possessore non sembrava per niente sorpreso. Con un gesto secco di entrambe le mani, se li sfilò in un colpo solo, lasciandoli a bruciare sul pavimento.

“S-Scusa, ma non mi hai lasciato alternative…” tentava di discolparsi il piromane.

Come per magia, due pugnali comparvero tra le mani del nipponico.

“Ma come ci sei riuscito?” fu spiazzato l’adulto.

Questa volta, gli attacchi fulminei furono condotti all’arma bianca.

“Dai retta a me, sono Masao Kitano. Ti conviene scappare, coglione” fu il suggerimento di un ragazzo con la faccia da teppista.

Vedendosi perduto, il Soggetto N. 6 fu costretto ad attuare una fuga disperata.


Nonostante quell’inizio non certo promettente, i clienti si presentarono via via più numerosi.

Erano ormai le 11 passate quando Yu stava servendo l’ennesima specialità.

“Ecco a lei, signore!”.

Tutto il ripiano sul davanti, che serviva per consumare le ordinazioni, era pieno di persone.

“Chi è il prossimo?” urlò raggiante il cuoco.

Fu allora che una nuova pallonata, questa volta con un pallone da calcio, sparecchiò tutta la tavolata.

I clienti, indignati per quanto appena accaduto, si alzarono e si defilarono. Ovviamente senza pagare alcunché.

“No, aspettate! Dove andate?”.

“Oh, scusa di nuovo!” si ripresentò Ryo, questa volta con un vistoso codino “Ma tu ancora qua sei? Non hai di meglio da fare?”.

“Io non ho di meglio da fare?! Tu piuttosto? Vandalo che non sei altro!” Chang stringeva le mani dalla rabbia.

“Beh, a dir la verità, ora ce l’avrei qualcosa di interessante da fare… vero, Madoka?” si voltò con sguardo furbo lui.

“Certo amore, ogni volta che vuoi!” gli si fece vicina una bionda, strusciandosi a lui.

“Beh, noi andiamo a fare un po’ di ginnastica!” esclamò Soda, mettendo un braccio attorno alle spalle della ragazza.

“Aspetta un attimo…”.

Per tutta risposta, Madoka Sawaki gli mostrò la sua prosperosa scollatura, accompagnando il tutto da un occhiolino e una linguaccia.

Il viso del mutante si arrossì, facendolo svenire di colpo.


Una volta ridestatosi, il Soggetto N. 6 tentò anche di riprendere la sua attività di ristorazione.

“Riso alla cantonese per due, prego!”.

Il vociare dei passanti fu d’improvviso sovrastato dalla campanella della scuola. Questa in particolare segnava la fine delle lezioni per quella giornata.

“PISTAAAAAAA!”.

“Diamine! E ora che succede?” si allarmò subito il cuoco.

Difatti, proprio dall’ingresso dell’Istituto Shiroiwa, giungevano a tutto gas due go-kart, uno rosso e uno blu.

Quest’ultimo riuscì a frenare in derapata. L’altro, invece, non riuscì ad evitare l’urto devastante con il carretto di specialità cinesi.

Si udì soltanto un “TESTATA ATOMICA!”.

Per fortuna, Chang era riuscito appena in tempo a saltare fuori dalla zona cucina. Il suo carretto andò letteralmente in mille pezzi

Il pilota non incidentato si levò il casco. Sotto di esso, si riconobbe così Minetaro Shiroyama.

“Oddio, Ryo! Tutto bene?”.

Dalle macerie, uscì illeso il tizio con una specie di permanente.

“Tranquillo! Te lo avevo detto che non mi occorreva il casco!” alzò il pollice per conferma.

“Il mio carretto… il mio carretto… il mio carretto…” bisbigliava il mutante con lo sguardo fisso verso il suo acquisto.

“Assomiglia ad un amico del mio collega Johnny Wayne…” lo scrutava il kartista blu con fare indagatorio.

I due piloti lo fissarono per qualche minuto. Poi Ryo si voltò verso l’amico.

“Vieni, andiamo a giocare a Chikara!”.

“Ok” acconsentì l’altro.


Infine la trasferta nella capitale giapponese non aveva più senso per lui. Erano ore che vagava senza una meta e in stato confusionale. Ormai si erano fatte le 19.

“Com’è possibile che sia capitato tutto proprio a me? Ma che ci sono venuto a fare qui a Tokyo?”.

Passando nelle vicinanze di un parco cittadino, udì un rumore a lui decisamente familiare.

Due ragazze, una delle quali con indosso la ormai famigerata maglietta rossa, erano impegnate in un intensivo scambio di battute a badminton.

“Blavo, Lyo! Sei decisamente migliolato ultimamente!” disse l’altra, con un marcato accento cinese.

“È grazie al tuo allenamento, Li!”.

Per una buona mezz’ora si mise a fissare le due giovani, come ipnotizzato. Finché si ridestò.

Già! Chissà come starà la mia piccola Nikki Peng?”.

  
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