Siamo
tornati alla trama più ostica, quella del 22 DF –
avevo scritto questo capitolo
un po’ di tempo fa, ma diciamo che la visione della serie tv
mi ha spinto a riprendere
questa storia.
Tw.
Esperimenti sulle persone, consumo di droga, consumo di droga non
consensuale,
morte, prigionia e conversazione su omicidi
LU-WAN
(22
anni dopo la Dissoluzione della Faglia)
“Kebban’a,
io ti amo,
ti amo. Voglio che tu lo sappia, nulla di ciò che ho fatto e
mai farò, non mi
darà mai più orgoglio di quanto me ne dai tu”
aveva sussurrato sua madre,
baciando le sue palpebre.
L’aveva vista, tenersi la gola, come se una forza invisibile
le avesse stretto
il collo. Poi il mondo era esploso, bruciato.
E tutto, tutto si era fatto buio.
E freddo.
E senza contorni.
Così
questa è la morte?
Lo
aveva accompagnato,
come pensiero, nell’obblio. Sentiva, lontano, il ricordo
delle braccia di sua
madre, del suo singulto. L’obblio era freddo, distante, aveva
forzato gli
occhi, aperti, ma la luce si era fatta sempre più lontana.
Il mondo era
ovattato, blu, freddo.
Intorno a lui, colavano a picco pezzi della Ji-Han squarciata dalla
pancia come
una bestia. Ma cadeva in silenzio, bruciata, nelle acque.
Perché era in acqua. L’irrazionale paura vinse sul
resto e Lu apri la bocca per
urlare, anziché nuotare. L’aria era schizzata via
dal suo corpo e l’acqua
l’aveva investito. Insidiandosi in ogni foro.
Cercò di recuperare l’aria, ma lo sapeva. Lo
sapeva.
Sarebbe morto.
Lu-Wan
stava leggendo un manuale di filosofia. Trovava la filosofia stupida e
qualunquista. Sapeva fosse il linguaggio politico per eccellenza, anche
più
dell’economia, suo fedele compagno. Ma per comprendere la
filosofia che muoveva
il pensiero, gli uomini, le rivoluzioni; prima bisognava passare per
quella
classica, quella degli uomini e dei semi, dei carri nel cielo e nei dei
distanti. Lu-Wan soffriva ogni parola vergata sulla carta come una
pugnalata
nel petto. Non era uomo da chiacchiere, ma da numeri e dati. Un tocco
gentile
lo aveva ripreso. Si era voltato, incontrando gli occhi attenti di sua
madre.
“La via dei Cento Pensieri?” aveva domandato sua
madre, senza curiosità, “Si,
me lo ha dato il maestro Ib Yul-Tau” aveva risposto celere
lui, “Sì, sì, credo
abbia costretto tutti gli abitanti di questo castello a leggerlo. Non
voglio
disturbarti, a modo suo, quel libro mi ha dato molti spunti”
aveva considerato
la donna, posandosi con il fianco sul tavolo. Lu le aveva sorriso,
“A breve
ritornerò in mare, lontano dagli occhi della Reggente
Ehri” aveva
dichiarato sua madre, che aveva sempre parteggiato per il partito di
Mahki.
Lu aveva annuito, sua madre non restava mai troppo a lungo, le sue
ambizioni e
la sua diligenza aveva sempre bisogno di essere nutrita.
“Certo, madre” le aveva
detto, “Vorrei tu venissi con me” aveva detto la
donna, facendo picchiettare le
unghie sul tavolo di legno smaltato.
Le mani di sua madre erano calde, per quanto il mondo fosse ghiaccio
intorno a
lei, prima di sentire qualcosa di nuovo.
L’aria. Aveva sentito qualcosa, una
lingua, non era Shu Han, prima che
sentisse la sua bocca forzarsi, i suoi polmoni contrarsi ed aveva
vomitato
l’acqua, senza il suo controllo.
“Vivrà” aveva
stabilito una voce, la lingua era il ravkiano, così
volgare, “Purtroppo” aveva risposto una voce
più dura.
Aveva forzato gli occhi, l’intenso nero-blu
dell’acqua lo aveva avvolto, ma non
lo stava toccando. Lui era dentro una bolla, provò a
divincolarsi, trovando due
forti braccia a trattenerlo. Qualcuno, una voce famigliare, aveva
urlato in ravkiano
– Lu non aveva capito – e prima che potesse fare
altro era stramazzato,
nell’incoscienza.
“Vorrei
che tu leggessi questo” aveva detto suo padre. Gli occhi
dell’uomo erano
lucidi, screziati di rosso, con lacrime incastrate nelle ciglia. Lu non
aveva
mai visto suo padre piangere, lo aveva visto triste, distrutto, quasi
disposto
ad annegarsi nella grappa e nel vino, ma mai piangere.
Non avrebbe
pianto neanche in quell’occasione, ma sembrava volesse farlo.
Lu aveva raccolto il piccolo libro che gli era stato porto. ‘Ni
yu ye sesh’
aveva letto. Era piccolo e sottile, con una copertina in pelle.
“Grazie, padre”
aveva detto calmo. “Spero sempre che questa esperienza possa
guidarti a
prendere la strada della diplomazia” aveva ammesso tuo padre.
Sua madre aveva brontolato, “Sesh’a,
al mondo esistono fin troppi
chiacchieroni” lo aveva rimproverato lei, allungandosi per
baciarlo sulle
labbra. Sua madre era più alta di suo padre. Era snella,
splendida ed ancora
giovane in viso, rispetto suo padre, la cui età sembrava
pesare su di lui
mortalmente. “Ah, Sesh’a”
aveva risposto lui, “Il mondo avrà bisogno di
più chiacchieroni, presto, spero” aveva ammesso.
Sua madre aveva fatto oscillare il capo, “Padre, un mondo
senza studiosi è un
mondo morto” aveva detto lui, “Esatto bambino mio,
di tutti gli studiosi, anche
delle arti”.
Il
cuore aveva ricominciato
a battere, forte, e tutto in lui si era riacceso. Aveva schiuso gli
occhi,
sentendo per prima cosa il sole freddo sulla pelle, prima ancora di
percepire
la mano calda sul suo collo, non una presa, ma un tocco leggero. Aveva
visto le
particelle d’acqua che lo appesantivano sollevarsi da lui,
una ad una, mentre
formavano una coperta di liquido, che si era rinchiuso in una palla.
Aveva sentito la spiaggia ghiaiosa sotto la sua schiena ed il rumore
del mare.
“Riesci a separare l’acqua dal sale?” la
voce aveva parlato in uno shu quasi
perfetto, delle zone del nord, musicale. “Sì,
signora” aveva risposto una voce,
anche quella in shu, ma tutt’altro che pulita, una voce
maschile, greve che
conosceva.
Si era sollevato, incontrando il viso stanco di Hati, era uno degli
etherealki
su cui sua madre aveva condotto degli esperimenti, era sotto parem;
numero
dodici. “Bene, metti l’acqua qui dentro ed il sale
qui; invece” aveva sentito
ancora la voce, riconosceva fosse quella di donna, aveva fatto roteare
lo
sguardo ed aveva visto la materialki lì. Era completamente
asciutta, ma le
gambe bianche erano esposte, aveva strappato l’orlo della
gonna della vestaglia
per fabbricare un sacchetto per il sale, quello dell’acqua lo
aveva fatto con
dei legni bianchi, come ossi.
Lu aveva provato a sollevarsi ma nel momento in cui aveva provato, la
materialki lo aveva spinto di nuovo supino. “Non
provarci” aveva stabilito, “Oh
Anchel ti fermerà di nuovo il cuore” lo aveva
avvertito.
“Il babinik si è
svegliato?” aveva domandato una voce maschile, quella
volta in ravikiano. Era Anchel il corporalki, era strano sentire la sua
voce
pronunciare qualcosa di diverso da litanie religiose.
“Da” aveva detto la materialki,
“Su!” aveva impartito Anchel a Lu, in lingua
shu, andando contro i precedenti ordini della sua compagna. Era stata
una
fatica abbissale per Lu sollevarsi anche solo con la schiena, restando
seduto
sulla nuda terra. Anchel aveva passato qualcosa alla Materialki, Lu non
aveva
visto cosa fosse, la ragazza era presto sparita alle sue spalle. Aveva
provato
a spiarla girando il capo, ma il suo corpo doleva tutto, aveva risolto
l’arcano
quando aveva sentito qualcosa di freddo ai suoi polsi; erano manette. “Non ho trovato di
meglio” aveva ammesso Anchel,
con voce quasi spenta. “Va bene, è un otkazat’sya;
se tieni il suo cuore
calmo sarà rilassato e poco incline alla fuga”
aveva risposto lei.
Lu aveva teso i polsi più possibile, lontani tra loro,
realizzando di non avere
manovra. Le sue manette erano fatte d’ossa. “Buon
lavoro” aveva valutato Hati,
in shu con sguardo spento, guardando i suoi polsi, avendo finito di
dividere
acqua e sale.
“Non diverso da un amplificatore” aveva spiegato
sbrigativa la ragazzina,
tirandosi in piedi, le ginocchia nude erano marchiati dai segni della
ghiaia,
su cui si era accovacciata. Parlava la lingua del trono celeste.
“Grazie! Se non avessi squarciato la nave non saremmo
scappati” aveva aggiunto
la materialki con un tono gentile, mettendosi prima una mano sul cuore
e poi
prendendo quella di Hati.
Il ragazzo che era più vecchio di lei, più grosso
e più alto si era sciolto in
un sorriso gentile ed aveva ricambiato la stretta, mettendo la mano che
aveva
libera sul suo cuore.
“Grazie per avermi liberato ... e buon tempismo. Se avessi
aspettato solo un’ora,
non lo avrei fatto” aveva risposto sincero Hati, facendo
scorrere il pollice
sul dorso della mano della materialki in un gesto d’affetto.
“Parem, loro, dato te” non era stata una domandata
quella di Anchel, aveva
parlato in uno shu brutto e zoppicante. “Sì, da un
paio di mesi. Mi avevano
appena dato la dose giornaliera. Ero … soddisfatto”
aveva spiegato Hati.
Era strano, il suo viso era del colore della terra secca, aveva
riccioli neri,
che sfumavano quasi un castano rossiccio; gli occhi erano allungati, ma
non
come quelli degli shu e le sue iridi erano nerissime.
Lo avevano catturato a largo delle coste delle Colonie del Sud, mentre
pescava –
muovendo le acque stesse.
“Sei stato molto coraggioso. So che anche nel pieno
dell’ebbrezza la parem è
…” la materialki sembrava insicura delle sue
parole.
“Sapevo non ci sarebbe stata una prossima dose” le
aveva detto Hati, “Speravo
solo di essere morto per quanto anche il mio corpo l’avrebbe
realizzato” lo
aveva comunicato con una leggerezza d’animo che aveva
atterrito Lu e dal
singulto della corporalki anche lei.
“Come
vi siete liberati?”
aveva chiesto Lu, mentre Anchel lo aiutava – lo speronava
– a tirarsi su.
La grisha femmina lo aveva guardato, aveva un viso asciutto,
l’incarnato chiaro
ed occhi blu letali, il viso incorniciato da scuri capelli castani,
arricciati
dal sale e dall’area salmastra della costa. “Non
volevo prendere la parem e non
volevo che la prendesse Anchel” lo aveva detto piatta lei,
prima di sollevare
le dita, erano ancora nere e viola, ma dritte, “Le ossa sono
ossa, vive o
morte. Con il resto è stato più
difficile” aveva replicato.
Lu si era lasciato sfuggire un vero di pura sorpresa.
Sapeva di grisha capaci di sfidare la materia, senza parem o magia, e
dominare
gli altri elementi del proprio dominio. Etheralki che potevano evocare
fuoco ed
acqua, corporalki – be, loro erano quasi la medesima cosa
– che potevano
guarire ed uccidere, materialki che potevano lavorare materia solida e
liquida,
ma la materialki aveva lavorato come una corporalki.
“Si
è svegliato?” questa
volta la voce era arrivata, urlante, in ravkiano.
Lu aveva fatto scattare la testa come gli altri tre; Elen li stava
raggiungendo, a grandi falcate, il viso sembrava pienissimo, rispetto i
giorni
prima, non aveva più le costrizioni, doveva aver cominciato
ad utilizzare
nuovamente il suo potere.
La bolla d’aria!
Dietro di lei c’era l’impertinente inferno mutilato
e poi una ragazza pallida
come un fantasma, il soggetto quarantadue, una kerchiana, heartrender
sotto
parem; differentemente da Hati, lontana dalla sua prossima dose. Lei si
guardava intorno con nervosismo ancestrale, continuando a grattarsi una
spalla,
per scaramanzia.
L’inferno aveva rovesciato un paio di pesanti vestiti per
terra, ne aveva le
braccia piene, non era il solo anche Elen ne aveva.
“Sei sicura che non possiamo affogarlo?” aveva
chiesto Anchel in ravkiano, che
teneva una mano sulla sua spalla, “Net” aveva
risposto Elen, con sicurezza,
rivolgendoli uno sguardo carico di rancore.
Era strano essere guardato così da lei, aveva pensato Lu.
“Concordo, è un buon
prigioniero” aveva detto la materialki, sorridendo verso
l’altra – occhi blu
scintillanti di affetto. Venivano dallo stesso lotto, erano presso
chè
coetanee, Lu pensava stupidamente: dovevano essere state amiche prima,
militanti alla scuola del Piccolo Palazzo, forse erano in una
città costiera
per gioco.
Il kaelish aveva cominciato a distribuire quello che aveva racimolato:
vestiti
pesanti. Era ancora bella stagione, ma il clima era pungente e freddo,
dovevano
essere da qualche parte a nord.
“Siamo a Fjerda” aveva confermato Elen i suoi
pensieri, ma si era rivolta alla
materialki.
“Speriamo di non essere troppo a settentrione”
aveva considerato la sua amica,
morendosi l’unghia del pollice. “Non ne ho idea,
non conosco il paese e non ho
parlato con gli abitanti” aveva risposto Elen piena di
timori, guardandosi
intorno.
Fjerda Nord, vicino le terre degli hedjut, rimaneva in parte profana,
legata ai
propri modi e i propri dei. Se intorno a Djerholm, come una macchia
d’olio,
oltre Djel si veneravano i santi, e i grisha non erano più
druje ed
abominazioni. Nord non si vedeva tutta questa gioia.
Anchel lo aveva guardato, “Dove noi? Dove nave va?”
aveva chiesto ferace, con
gli occhi scuri scintillanti di rabbia. “Non so! Non ho mai
guardato le mappe!
So che siamo a Fjerda!” aveva mentito, sapeva in che
direzione stavano andando,
perché per quanto potente la Ji-Han doveva approdare.
“No credo” aveva
stabilito Anchel, stringendo le mani in un pugno, Lu aveva sentito il
suo petto
contrarsi, i suoi polmoni distendersi, come se non fosse stato
più capace di
respirare. Era crollato a terra, boccheggiando aria, ma non entrava,
poi il
corporalki lo aveva lasciato andare. “Dove?” aveva
chiesto di nuovo lui.
Lu aveva tenuto la bocca chiusa ed ancora una volta aveva sentito il
suo corpo
tradirlo.
“Dove?” aveva chiesto di nuovo Anchel.
“Utsel” aveva sputato fuori Lu, con
l’ultimo briciolo di aria, prima di poter
respirare ancora, annaspando nell’aria. “Avevamo un
accordo con il loro porto”
aveva pianto.
Elen aveva guardato la Materialki, lei si era morsa l’interno
della guancia,
pensierosa, “Nel terzo crostone, nel golfo infestato a
settentrione della
regione dell’Avenjfall, su a nord, ma non nelle terre dei
Hetqualcosa” aveva
spiegato in Ravkiano la materialki.
Il kaelish aveva ringhiato qualcosa, la loro lingua era piena di r
dure
e striscianti, non
conosceva bene le
loro parole, ma sospettava fosse un lamento nel non comprendere la loro
lingua.
O forse si stava chiedendo perché non Lu respirasse ancora.
“Dottore” lo aveva chiamato Elen, nel suo shu
imbastardito, “Che altra lingua
parli? Il ravkiano? Il kaelish? Il kerch?” aveva domandato
esigente.
“Il kerch” aveva risposto lui, mentendo.
La materialki aveva assestato un colpo sul fianco di Lu, con il
polpaccio della
sua gamba, facendolo gemere. “Mente, questo beznako[1],
almeno in parte. Sicuramente capisce il ravkiano” aveva
avvertita perentoria la
ragazza.
Lu si era voltato verso di lei, sprezzante.
“Capisci il kerch?” Elen lo aveva chiesto al
kaelish, quello aveva sputato per
terra, “Quanto basta” aveva risposto poi, non aveva
guardato la ragazza bionda
muta, ma aveva guardato Hati, “Sono delle Colonie del
Sud” aveva risposto lui,
“La nostra lingua ufficiale è una variante di
Kerch” aveva detto, recitando
bene le parole. “Ma presto non capirò
più una parola” aveva ammesso sconfitto
Hati.
Elen aveva guardato i suoi amici, “Lo sai, no”
aveva replicato Anchel,
grattandosi una guancia color rame scuro; “Odio quella
lingua” aveva ammesso
con un leggero fastidio la materialki.
Elen
aveva sorriso nervosa,
poi si era voltata verso il kaelish, “Dovremmo cercare di
arrivare djerholm,
non importa cosa abbiano fatto il Re e la buona Regina Mila per Fjerda,
certe
tradizioni non muoiono mai” aveva parlato in maniera
diplomatica.
“Perché dovremmo seguire te?” aveva
chiesto il kaelish.
“Perché senza di noi sareste ancora su quella
barca, perché la mia amica è una
brava cartografa, perché noi faremo
così” aveva risposto pragmatica Elen.
Aveva voltato lo sguardo verso Hati, “Non sono sicuro di
poter arrivare fino a
lì, che non morirò o impazzirò
prima” aveva spiegato quello calmo, osservando
la sua mano, dritta, nessun tremore, non ancora. “A Ravka,
David Kostyk aveva
sintetizzato un antidoto, non importa quanto raffinata si questa
parem,
anche le soluzioni di Ravka sono sempre più
sottili” aveva detto Elen con
certezza bruciante.
“Moriremo prima” aveva pianto la kerchiana,
“Io già non riesco a pensare ad
altro. Avrei avuto la mia dose domani, non potevate aspettare
domani?” aveva
pianto la corporalki.
“No” aveva risposto l’amica di Elen,
“Abbiamo aspettato anche troppo” aveva
detto velenosa, piena di rabbia.
Forse avevano aspettato, quanto tempo ci avesse impiegato a capire come
riparare le sue ossa, le sue dita, per tornare ad avere tutte le sue
sensazioni,
con l’anestetico al gambo, che la rallentava ed intontiva.
“Vorrei che veniste con noi” aveva ripreso Elen con
voce cheta, “Sulla nave
c’erano più di settanta grisha prigionieri e noi
siamo gli unici. Spero che
altrove siano approdati altri” aveva detto colma di tristezza.
“Va bene, aveva detto il Kaelish, ma posso
ucciderlo?” aveva domandato,
riferendosi a Lu, la cui schiena era diventata dritta, “No,
è un buon
prigioniero, una buona merce di scambio” aveva risposto Elen,
lanciandoli uno
sguardo al vetriolo, “Un buon … soggetto?”
aveva chiesto retorica,
guardandolo.
Lu aveva sentito la nausea salire nella sua gola, con la bile, e i
brividi
lungo la schiena. Ed anche un altro sentimento, a cui non voleva dare
nome.
“E se dovessimo essere inseguiti da un orso potremmo
lanciarglielo in pasto”
aveva scherzato la materialki.
Per un secondo erano rimasti tutti in silenzio, poi una risata si era
aperta
sulle loro labbra, perfino nella kerchana che stava in piedi a fatica.
Era una battuta, ovviamente, ma Lu sapeva, sapeva davvero,
che in una
situazione del genere lo avrebbero fatto, senza esitazione.
“Avremmo
bisogno di
fermarci, comunque, in qualche villaggio, prendere altri vestiti, del
cibo,
abbiamo l’acqua da bere, non tanta ed il sale per conservare
il cibo, sia
sotto-sale che con la salamoia” stava spiegando la materialki
didascalica. “Così
mi fai rimpiangere gli schiavisti” era stata la risposta di
Elen, con una
risata stanca, quasi nervosa. “Io quello l’avevo
già fatto!” aveva scherzato
Anchel.
Lu si era fatto rigido, come una stecca di legno, quando aveva sentito
quel
termine, schiavisti. Loro non lo erano, non lo
erano affatto, lavoravano
per un proposito futuro. Aveva sentito l’impulso di dirlo ad
alta voce, ma poi
la consapevolezza che il kaelish non desiderasse altro che avere una
scusa per
colpirlo ed ucciderlo, lo aveva fatto tacere.
La materialki aveva ripreso: “Inoltre, ci serviranno delle
scarpe migliori di
quelle che abbiamo, o almeno qualcosa con cui possa fabbricarle. Se
abbiamo
deciso di tagliare per obliquo non passeremo per molti villaggi e
dubito
fortemente troveremo vere strade.”
La sua voce era sicura, certa, non quella di una persona che era stat
rapita,
venduta e tenuta in prigionia per settimane e sopravvissuta ad un
nubifragio.
Gli altri, Lu riusciva a vederlo, erano ancora spossati, anche Elen che
si
impuntava di rimanere dritta e fiera, era curva e distrutta.
La
materialki guidava la
fila, a passo rallentato sì, dando il ritmo alla coda; si
era messa il braccio della
kerchiana intorno alle spalle, con una mano le sorreggeva il polso e
con il
braccio destro, libero, invece, abbracciava la vita sottile della
grisha corporalki.
La sosteneva, anzi la trascinava.
“Va bene” aveva affermato piccato il kaelish,
“Probabilmente gheobhaidh muid
go léir bás[2]
di freddo o mangiati dai lupo di
cazzo[3]”
aveva aggiunto rabbioso.
La sua lingua non era sciolta, era piena di imperfezioni,
eccentricità ed
accenti sbagliati, ogni parola più che pronunciata, sembrava
tirata via con
delle ganasce dalla sua bocca. Suoni sporchi ed orribili, anche in una
lingua inzaccherata
come quella di Ghezen.
Neanche Lu-Wan sembrava un poeta quando parlava la lingua del denaro,
ma
immaginava che l’educazione di un signorotto Shu-Han e quella
di un kaelish
venduto sulla Via-delle-Ossa non dovesse essere paragonabile. Gli altri
avevano
ignorato le lamentele dell’Inferno.
Avevano
marciato per
altro tempo, fortunati che non fossero finiti a Fjerda nel periodo
più freddo,
ma se le sue nozioni di geografia erano mai valse a qualcosa,
l’entroterra era
rialzato, era più freddo e probabilmente avrebbero trovato
della neve e la
materialki aveva ragione, avrebbero avuto bisogno di scarpe
più resistenti.
L’unico ad averle in cuoio era lui, ma sospettava non sarebbe
rimasto così a
lungo; Lu era magro, basso rispetto i suoi compagni, con piedi
insospettabilmente piccoli, probabilmente le sue scarpe non sarebbero
mai state
a nessuno degli uomini, ma immaginava che a una delle ragazze potessero
andare.
“Dovremmo
anche
approfittare delle capacità di Caitlyn per plasmarci, per
essere più fjerdiani.
Siamo un gruppo decisamente eterogeneo e variopinto; in compenso
possiamo
imputare i capelli corti al culto di Djel” aveva valutato la
materialki burrascosa.
Lu aveva schiuso le labbra, confuso da quel nome, prima di realizzare
che
stesse parlando della corporalki kerchiana, Non aveva mai saputo il suo
nome,
era stato uno dei soggetti restii a parlare ed alla fine non aveva
indagato oltre.
Però, loro si erano presentati, si erano parlati, forse
mentre lui era svenuto
sulla sabbia.
La materialki aveva ragione però, davano
nell’occhio; Elen aveva un incarnato
olivastro che poteva passare per una discendenza hedjut, ma le
mancavano i
denotati, Hati … era una combinazione di chi sa quali
stirpi, Anchel aveva la
pelle scura che tradiva una sangue zemeni, il kaelish sfoggiava troppe
mutilazioni per passare inosservato, la kerchiana era di un pallore
malaticcio
e lui era uno Shu, in manette d’osso. L’unica che
forse non avrebbe dato
nell’occhio era la materialki, che era chiara di carnagione,
ma era
inequivocabilmente ravkiana.
“Si, desideravo proprio rasarmi i capelli per sembrare
un’adepta di Djel” aveva
replicato Elen con una voce spenta, riducendo le labbra piene in una
linea
dritta, come un taglio.
“Mi … mi dispiace; io non sono una…
tailor” aveva commentato a faticata
Caitlyn, come se ogni parola pronunciata fosse un’agonia
bruciante, “So
ritoccare qualcosa, colori, pienezze … fermavo …
cuori” aveva aggiunto. La
kerchiana aveva quasi avuto una caduta, mentre tentava di parlare e
camminare
insieme, ma l’altra l’aveva sostenuta.
“Anchel ti può insegnare. Come sarto fa schifo, ma
ha imparato qualcosina da Genya
Saffin” aveva esplicitato la materialki, rassicurante.
Caitlyn aveva provato a
dire qualcosa, “Inoltre, è brutto quello che sto
per dire, ma dobbiamo
approfittare della parem nel tuo sangue. In questo stato noi grisha
siamo … al
di là di ogni comprensione” aveva considerato la
ravkiana, c’era quasi
ammirazione nella sua voce.
“Morirò” aveva risposto la kerchiana,
stanca.
“Posso raccontarti la storia di Nina Zenik?”
aveva domandato con più
gentilezza la ravkiana, “Chi?” aveva chiesto pavida
Caitlyn.
Lu aveva smesso di ascoltare.
Le due ragazze guidavano la fila, costringendo tutti ad
un’andatura più lenta,
come i lupi, dietro c’era Malcom, seguito da Hati ancora in
forze, ma che
presto avrebbe sperimentato gli effetti della lontananza.
C’era lui, che camminava con le mani dietro la schiena, Elen
a pochi passi,
pensierosa con le labbra ancora strette in un taglio, in ultimo
chiudeva la
fila Anchel.
“Pensi … pensi che siano morti tutti sulla
nave?” era stata la prima volta in
almeno un paio d’ore che aveva parlato. Aveva pensato a sua
madre, non riusciva
a ricordarsi, aveva memorie frammentate, pensava al loro incontro sulle
scale,
le sue parole, le sue carezze. Sua madre non era mai stata inclina alla
gentilezza, all’amore, ma continuava a ricordare quella
dolcezza.
Sua madre era morta? Sua madre sapeva che sarebbe morta? Era stata
gentile per
questo? Gli aveva concesso un ultimo atto d’amore.
Lo chiamava sempre Kebban’a,
però, mio caro, di solito lo usavano i kebban,
i gemelli, un’anima in due corpi … ‘Ma
esiste una relazione più stretta di
una madre con un figlio?’, forse era quello.
Elen lo aveva guardato con i suoi grandi occhi, “Spero di
no” aveva ammesso la
grisha, la sua voce era pregna di senso di colpa, tormento,
“C’erano centinaia
di persone sulla nave” aveva aggiunto la ragazza.
Lu era rimasto scosso, prima, quando aveva parlato con
l’Inferno e con Caitlyn
aveva parlato di grisha, si era riferita solo a loro, aveva pensato
solo a
loro. Ai suoi simili.
Ma quella volta si era riferita a tutti, ai dottori, i marinai, gli
inservienti. I suoi nemici.
Elen aveva ripreso a guardare la strada, dando a Lu la visione del suo
profilo;
tormentata, chiusa, imprigionata, Elen pareva ancora fiero.
“Stavi pensando a tua madre?” aveva chiesto Elen,
senza guardalo. Lu era
diventato rigido. “Lo ha ipotizzato” aveva
aggiunto, ammiccando alla sua amica
che guidava la fila.
Ebbe la netta impressione che se la materialki avesse detto ad Elen che
il
cielo era verde, l’altra ci avrebbe creduto. “Ha un
ottimo intuito ed è
un’osservatrice capacissima, spesso più di
me” aveva considerato la grisha etherealki,
ma sicuramente si sapeva destreggiare meno.
Lu si era morso il labro, “Non era mia madre, ma pensavo a
lei” aveva mentito –
almeno in parte.
La grisha aveva annuito, continuando a guardare la strada davanti a
lei, “Bene”
aveva considerato, poi si era voltato di nuovo, i suoi occhi non
avevano più
dolcezza, erano pozzi neri senza fondo, l’espressione tatuata
sul viso era
priva di dolcezza, di accondiscendenza, “Lei no”
aveva detto Elen, con
un tono quasi rassicurante, “Lei non è
sopravvissuta. Ce ne siamo accertate.”
Linea
temporale:
-
Nascita
di Igor, Vlad -5
-
Nascita
di Shioban -3
-
Ekaterina
e Anastasjia Rorik-1
-
S&b
0
-
SoC
2
-
Nascita
di Yuliana Van Eck 3
-
Fine
KoS/RoW 4
-
Nascita
di Lu-Wan, Magnus e Trattato
Fjerda-Ravka 5
-
Nascilta
di Hati 6
-
Nascita
di Drina, Anchel 7
-
Nascita
di Elen, Caitlyn, Malcom,
Ilsebelle 8
-
Nascita
di Jordie; Concordato dei Tre
Stati 10
-
Nascita
di Dominik 11
-
Nascita
di Merissa Nassau Kir-Taban 12
-
Raccolta
dei bambini di Kerazin, 16
-
Nascita
di Vassilissa e Mesha Effimovich 20
-
Nascita
di Matthias Grimjor 21
-
Distruzione
della Ji-Han 22
-
Nascita
della principessa Alina 23
-
Principe
Dominik incontra la
Principessa della Jurda 28
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Nascita
del principe Juris Nazyalensky 35
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Nascita
del Piccolo Nikolai Nazyalensky 39
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Festa
dei 40 anni della
Riunificazione; Il Principe Matthias “cerca” moglie
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