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Autore: Zobeyde    23/03/2023    1 recensioni
Prequel de “Gli ultimi maghi”
Sono anni turbolenti per l’Europa: la Belle Époque sta per tramontare, sotto l'incombere di una guerra come non se n’erano mai viste, e nella millenaria città di Arcanta, dove la magia esiste e i suoi abitanti hanno da sempre vissuto al riparo dalla corruzione del mondo, c’è chi non può restare indifferente ai cambiamenti fuori dalle sue mura incantate:
Abigail Blackthorn, in fuga da una gabbia dorata per aiutare chi soffre nelle trincee, dove inaspettatamente troverà amore e dannazione.
Solomon Blake, cinico, ladro, machiavellico, determinato a rendere la magia grande come un tempo, fino al giorno in cui scoprirà che ogni cosa ha un prezzo.
Zora Sejdić, maga decaduta che ha fatto dello spiritismo la propria arma per la scalata al potere. Un’arma però che si rivelerà presto a doppio taglio…
Dal testo:
[…] Vede, ambasciatore, io non credo né negli dei, né negli uomini. Credo che ognuno di noi, presto o tardi, venga chiamato a giocare un ruolo in una partita ben più grande. Deve solo capire qual è il suo. […]
Genere: Angst, Fantasy, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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IMPACCHETTA I TUOI PROBLEMI

 
 
 
“Pack up your troubles in your old kitbag
And smile, smile, smile
While you’ve a lucifer to light your fag
Smile, boys, that’s the style…” [1]


 
 
La Panne, Fiandre occidentali.
Aprile 1915
 

Abigail mosse qualche timido passo verso il bagnasciuga, osservando le onde rincorrersi sospinte dal vento fino a infrangersi sulla riva. Non riusciva ancora ad abituarsi alla vista di tant’acqua tutta insieme, malgrado avesse trascorso le ultime ore a bordo di un traghetto; la traversata in sé era stata scomoda e per nulla entusiasmante, eccetto forse per l’apparizione di piccolo cacciatorpediniere che una ragazza di Manchester aveva scambiato per un sottomarino tedesco, gettando l’intero ponte nel panico.
Abigail si sgranchì la schiena e respirò profondamente, sentendo il sapore del sale posarsi sulla punta della lingua e il sole primaverile scaldarle il viso.   Dopo un attimo di esitazione, decise di togliere le scarpe: tirò su l’orlo del pesante vestito grigio e la sua pelle si ricoprì di brividi silenziosi quando affondò i piedi nella sabbia bagnata.
Ad Arcanta aveva visto molte cose straordinarie, sin da quando era bambina, ma nessuna illusione a opera degli incantatori della Corte dei Miraggi o innovazione degli ingegnosi alchimisti del Cerchio d’Oro era anche solo   paragonabile a quello che stava vivendo, ne era certa. Sorrise tra sé, mentre guardava i gabbiani sfrecciare in volo sulla sua testa riempiendo il cielo di stridii, e si sentì felice e grata come non lo era mai stata…
«Miss Thorn!» Un’imperiosa voce femminile la richiamò al presente. «Ha intenzione di rimanere lì ancora per molto? Le ricordo che siamo attesi con una certa urgenza.»
Abigail rinfilò di corsa le scarpe e risalì la spiaggia, affrettandosi a raggiungere Miss Wilkins e l’eterogeneo gruppo che l’aspettava accanto ai tre autocarri della Croce Rossa; nove giovani infermiere in fluenti mantelli viola, quattro medici in tenuta militare e tre studenti del London Hospital incontrati a Victoria Station, con cui si era imbarcata a Folkstone.
A eccezione di Abigail, nessuna delle infermiere di Norwich che avrebbero dovuto accompagnarla nella traversata si era presentata all’appello e l’organizzatrice era andata su tutte le furie. Ad Abigail si era stretto il cuore al pensiero di intraprendere quel viaggio senza Bessie e Charlotte, ma in fondo le aveva comprese: per delle ragazze di campagna non doveva essere facile lasciare la sicurezza del loro piccolo ospedale per affrontare i pericoli del fronte.
“Prometti che ci scriverai tutti i giorni” le aveva raccomandato Bessie il giorno della partenza, mentre Charlotte la stritolava in un abbraccio sulle scale della clinica in cui aveva trascorso gli ultimi sei mesi. “E che non correrai più rischi del necessario!”
Abigail era felice di poter dire di essere stata loro amica. Di ricordare con affetto e una punta di rimpianto le ore di studio durante l’apprendistato e le chiacchiere nei momenti di tranquillità. E persino il suo primo incarico importante, quando era stata selezionata per gestire un’epidemia di tifo ad Aldeby. Le avevano consegnato anche una medaglia ed era stato allora che il dottor Davenshaw, primario a Norwich, l’aveva notata:
“Quanti anni hai, Miss Thorn?” le aveva domandato al suo rientro, senza preamboli, dopo averla convocata nel suo ufficio.
“Diciannove appena compiuti, signore.”
“Sei giovane” aveva commentato lui. “Ma possiedi sangue freddo, e all’Inghilterra servono persone come te di questi tempi. Te la senti di raggiungere i nostri ragazzi al fronte, questa primavera?”
Abigail non chiedeva altro. Per quanto la riempisse di gioia prendersi cura della gente di Norwich sapeva di poter dare di più, e la prima linea sembrava il luogo dove fare davvero la differenza.
Sbarcati a Dunkerque, avevano superato il confine col Belgio attraversando strade pianeggianti costellate da villaggi e fattorie; al loro passaggio, la gente usciva dalle abitazioni agitando berretti e fazzoletti e gridava: «Vive les Anglais!», e in risposta alcune sue compagne urlavano, ridendo: «Vive les Belges et à bas les Allemands!»[2]. Avevano persino iniziato a cantare It’s a long way to Tipperary e l’atmosfera era così allegra che ad Abigail era quasi sembrato di essere in gita.
Ma il clima acquisì tonalità più serie quando giunsero a destinazione.
La Panne era stato per anni un piccolo villaggio di pescatori, povere case costruite in mezzo alle dune e frustate dal vento sul Mare del Nord; una schiera di villette disadorne si allineavano una dietro l’altra a ridosso della spiaggia, e tra loro svettava l’Oéan.
Un fremito d’eccitazione attraversò il retro del furgone e molte teste si sporsero per ammirarlo. Anche Abigail ne rimase impressionata, e anche un po’ intimidita; fino a non molto tempo prima, il Grand Hôtel de l’Océan doveva essere stato un’ambita meta per i turisti facoltosi, una struttura raffinata e imponente, affacciata sul mare. 
Ma poi era scoppiata la guerra, la Germania aveva invaso il Lussemburgo, il Belgio e la Francia nordorientale, e il numero dei feriti non faceva che aumentare, come la pressante necessità di organizzare le retrovie e accogliere i reduci in strutture adeguate. Così, col benestare della Corona belga, alla fine dello scorso anno era nato l’Ambulance de L’Océan[3], un ospedale attrezzato a poche miglia dalla linea del fronte.
Non appena gli autocarri si fermarono in piazza fu subito chiaro il cambiamento che la cittadina aveva subito in quei mesi; negozi e taverne erano chiusi, non c’era l’ombra di un turista e persino gli abitanti si aggiravano con aria cupa e spaesata. Molti edifici civili erano stati convertiti a strutture militari, depositi, alloggi, aree per le esercitazioni di tiro, e ovunque soldati avvolti in lunghi soprabiti blu scuro marciavano severi. Nessuna musica li accompagnava.
Un militare, con baffi biondi e lo sguardo malinconico ma gentile, aiutò le infermiere a scendere una dopo l’altra dal camion e Miss Wilkins batté le mani precedendole a grandi passi. «Su su! Svelte, signorine, non c’è tempo da perdere! Penserete a sistemarvi più tardi.»
Il drappello si accalcò dietro l’organizzatrice su per le scale dell’Océan e poi in un ampio atrio tutto maioliche tirate a lucido e vetrate che lasciavano entrare la luce del giorno a fiotti. Il comitato che trovarono a riceverle era formato da sole due persone: una ragazza poco più grande di Abigail e decisamente più alta, dai tratti delicati e belli, fasciata da un sobrio abito di cotone rigato con grembiule bianco e cuffia, e un uomo di mezza età in uniforme color cachi, che si sorreggeva a un bastone da passeggio.
«Benvenute a l’Ambulance de L’Ocean» esordì quest’ultimo, con un marcato accento francese. «Sono il dottor Depage, direttore e fondatore di questo ospedale. Inutile dirvi quanto sia grato per la vostra presenza, solo il Signore sa quanto è indispensabile il contributo di tutti in questi tragici momenti. Vi lascio adesso nelle ottime mani dell’infermiera Fanny Bouchard, vi mostrerà la struttura e i vostri alloggi. Con permesso.»
Dopo aver rivolto loro un breve inchino, il dottor Depage si accomiatò zoppicando leggermente e la bella infermiera prese la parola:
«Siete fortunate, le emergenze di oggi sono state quasi tutte gestite, ma non abituatevi a questa tranquillità.» I suoi occhi azzurri scrutavano i volti delle nuove arrivate con una certa alterigia. «Vi attendono giorni difficili. Da questa parte, per favore. E cercate di non rimanere indietro, detesto ripetermi.»
Fece un rapido dietrofront e s’incamminò con passo svelto lungo un corridoio. Le nove ragazze la seguirono senza indugio, bisbigliando eccitate.
«L’Ocèan vanta un vero e proprio primato» raccontò l’infermiera Bouchard. «Dispone di duecento posti letto, e contiamo di aggiungerne altri cento nei prossimi mesi. La moglie del dottor Depage è in visita negli Stati Uniti in cerca di fondi.»
Mentre parlava, sfilarono davanti a una serie di camere, uffici e sale operatorie attrezzate, da cui medici, infermieri e barellieri entravano e uscivano in un flusso continuo.
«La struttura possiede un sistema di riscaldamento centralizzato» proseguì la Bouchard. «In origine era destinato a un castello scozzese. Le attrezzature chirurgiche provengono invece direttamente da Londra.»
Parlava e camminava così velocemente che Abigail si ritrovò quasi a correre per non perdere neppure una parola. Si domandò se dovesse prendere appunti.
«A gennaio abbiamo iniziato a eseguire trasfusioni di sangue citrato e la sterilizzazione col metodo Carrel-Dakin» illustrò l’infermiera. «Il dottor Depage esige solo il meglio per il suo ospedale, per questo è dotato di cinque reparti, per trattare ogni emergenza in maniera specifica.»
Sostò brevemente in un corridoio. «Questo è il reparto di radiologia, uno dei nostri fiori all’occhiello.» Si concesse un lieve sorriso e guardò in direzione di Abigail, come a volerla impressionare. «Marie Curie in persona si è occupata del suo allestimento.»
«Ehm» fece Abigail, nervosa. «Chi?»
Qualcuna ridacchiò. L’infermiera Bouchard invece inarcò un sopracciglio e il suo sorrisetto sparì. «Ah, abbiamo una burlona qui. Presto avrai poco su cui scherzare.»
Visitarono altri reparti, specializzati in mandibole fratturate, ferite articolari, oftalmologia, protesi, riabilitazione...
«Di recente abbiamo adibito un intero padiglione per la gestione di traumi della pelle» aggiunse la Bouchard. «La maggior parte sono dovuti al gas: penetra le uniformi e vi assicuro che quel che c’è sotto non è un bello spettacolo. Mi auguro abbiate stomaci forti.»
«Accidenti!» borbottò una ragazza lentigginosa accanto ad Abigail. «Siamo appena arrivate e già sembra stia facendo di tutto per farci sloggiare!»
Sfortunatamente, la Bouchard la sentì. «Cerco di mettervi in guardia» disse con voce secca, fermandosi vicino una porta finestra che si affacciava su un porticato. «Sono all’Océan da quando ha aperto e ho visto più orrori qui di quanti ne abbia mai visti in tutta la mia vita. La maggior parte di voi non ha idea di cosa dovrà affrontare.» E nel dirlo, i suoi occhi indugiarono freddamente su Abigail. «Magari cercavate solo un diversivo dalla monotona vita di provincia, qualche eccitante aneddoto da raccontare alle amiche o una fuga prima di incastrarvi in un matrimonio. Ma non è quello che troverete qui. E non è questo il genere di donne che ci serve. Perciò, consiglio a tutte voi di valutare saggiamente le conseguenze delle vostre scelte: decreteranno il confine tra la vita e la morte per molti uomini valorosi.»
Il gruppo ammutolì, alcune chinarono il capo come alunne dopo una strigliata della maestra. In quell’istante, il silenzio fu spezzato dall’eco di spari ed esplosioni e le ragazze sussultarono. Oltre le vetrate, al di là di un’ondulata distesa di campi coltivati e boschi, nuvole grigie si addensavano all’orizzonte e il vento portò ai loro nasi un forte odore di fumo e polvere da sparo.
Fanny Bouchard restò impassibile. «Esattamente quello di cui parlavo: ci troviamo a soli dodici chilometri dalla trincea. Il che ci rende l’ospedale più vicino al campo di battaglia mai costruito.»
«Ma» squittì un’infermiera, impallidendo. «Questo non ci espone ai bombardamenti? Se un aereo nemico passasse sopra di noi…»
Gli occhi azzurri della Bouchard erano duri come il vetro. «Avete tutta la notte per decidere se restare o andarvene.» Senza alcuna parola di rassicurazione, tirò fuori una cartellina. «Ora vi chiamerò in ordine alfabetico e sarete smistate nei vostri alloggi: Abbott Eleonor…»
Più tardi, ricevettero tutte in dotazione un’uniforme standard, insieme a un tubetto di pastiglie di morfina. «Da tenere sempre a portata di mano» aveva detto la Bouchard, laconica, dopo averle distribuite. «Se ci invadono, l’ultima cosa che vorrete è finire nelle mani dei tedeschi vive.»
Il personale ospedaliero risiedeva in una ventina di villette a schiera, distribuite tutt’intorno all’ospedale: quando finalmente fu dato loro il permesso di rompere le righe, Abigail si mise in cerca del suo alloggio. Si trattava di una casetta carina, con un cortiletto in cui erano stati appesi dei panni ad asciugare. Bussò alla porta, ma solo al terzo o quarto tentativo finalmente venne ad aprirle una ragazza in vestaglia, con la testa piena di bigodini.
«Scusa!» disse, trattenendo uno sbadiglio. «Ho fatto il turno di notte e sono a pezzi! Sono Gwen, comunque. Gwen Barclay, vengo da Segale, nel Sussex.»
Si strinsero la mano. «Abigail Thorn di, ehm…Norwich. »
«Oh, grazie al cielo sei inglese!» esclamò Gwen, ridendo. «Vieni, ti mostro la tua stanza. Ma fa piano, Augusta e Henriette stanno dormendo, povere care!»
La aiutò a trascinare la valigia su per una rampa di scale coperte da moquette e le indicò la seconda porta a destra. «Tu starai qui. Goditela finché puoi!»
«É la seconda volta che me lo dicono oggi» ironizzò Abigail, ripensando all’accoglienza di Fanny Bouchard.
«Ah, mi crederai quando conoscerai la tua compagna di stanza» replicò Gwen. «Per fortuna stamattina è di turno, viene sempre e solo a dormire.»
La stanza era piccola ma pulita, ammobiliata in modo semplice: due lettini addossati alla parete, mobile per la toeletta con specchiera, armadio e scrittoio affacciato alla finestra.
«La mia stanza è proprio qui di fronte» spiegò Gwen, faticando a contenere gli sbadigli. «Bussa se ti serve qualcosa. Vorrei essere più ospitale ma ho avuto una nottataccia e non mi reggo davvero in piedi! Preparati pure qualcosa da mangiare in cucina, per la dispensa di solito utilizziamo delle etichette.»
«Ti ringrazio.»
Gwen la salutò e tornò in camera sua, lasciando Abigail sola a familiarizzare con l’ambiente. Sistemò le poche cose che aveva portato con sé, poi sedette qualche istante sul letto, facendo cigolare le molle del materasso.
Malgrado la stanchezza del viaggio iniziasse a farsi sentire, appesantendole le membra, era elettrizzata come il giorno in cui era scappata.
Stentava ancora a credere che fosse stato così semplice: lasciare la Cittadella senza farsi scoprire, intrufolarsi in un Meridiano diretto a Londra, e poi raggiungere Norwich e spacciarsi per una neodiplomata in cerca di impiego. Era stato semplice anche farsi degli amici, conquistare fiducia e stima contando solo sulla sua forza di spirito e sulle proprie capacità, e imparare a cavarsela da sola in quel mondo di cui conosceva ancora così poco. Anzi, era stato talmente facile abituarsi a quella nuova vita appena costruita, lontana da Arcanta, lontana dalla magia, che l’ipotesi che tutto potesse semplicemente finire la terrorizzava a morte. Era stato quello il suo incubo ricorrente negli ultimi mesi, non la guerra: che Lui potesse trovarla e che la riportasse a casa.
Esitò un momento, poi tirò da sotto il vestito una catenina a cui era agganciato un pesante medaglione d’oro, con sopra inciso un elaborato stemma: una spada spezzata circondata da rovi che si intrecciavano fino a comporre una sontuosa B.
Alzò la testa e incrociò il suo riflesso nella specchiera della toletta: un viso pallido e stretto, un arruffato taglio alla maschietta e occhi grandi, color nocciola, che facevano capolino sotto la frangetta castana…
"Hai gli stessi occhi di tua madre. Peccato tu abbia ereditato solo quelli…"
Abigail strizzò le palpebre, scosse con decisione il capo.
Respira si disse, sforzandosi di recuperare il controllo, di smettere di tremare. Conta fino a dieci. Tienilo fuori dalla testa.
Inspirò profondamente. Espirò. Quando riaprì gli occhi, era ancora nella sua modesta stanzetta a La Panne. Niente guardie. Niente tutori. Nessuno che le dicesse cosa fare della propria vita o come avrebbe dovuto essere.
Era sola, finalmente. E soprattutto, era libera.
 
Il giorno dopo trascorse confusamente; Abigail fu svegliata da un frenetico bussare quando il cielo oltre le tende era ancora buio.
«Vestiti!» disse la voce di Gwen da dietro la porta. «Hanno bisogno di noi, dobbiamo andare!»
Abigail buttò all’aria le coperte e indossò in fretta l’uniforme, annodando la cuffietta mentre scendeva a precipizio le scale.
Non erano neanche le tre del mattino e già l’ospedale pullulava di attività: durante la notte c’era stata una battaglia feroce a Ypres e gli autocarri dell’esercito andavano e venivano riversando nelle retrovie valanghe di feriti, col risultato che il pavimento a maioliche dell’atrio era pieno di impronte di fango e scivoloso di sangue. Ogni paziente era gravemente, se non mortalmente, ferito; teste fasciate alla meglio con sudice garze di fortuna, volti sfigurati dalle ustioni, arti piegati in posizioni innaturali. Gemiti e urla risuonavano in ogni reparto e chirurghi dai camici macchiati di sangue e barellieri col fiatone correvano da un corridoio all’altro senza sosta. Abigail, Gwen e altre coinquiline, Sarah, Augusta e Henrietta, si fecero largo nella calca: Abigail riconobbe le ragazze con cui era arrivata il giorno prima, pallidissime e con l’aria smarrita. Un paio di loro erano già in lacrime prima ancora di avvicinarsi ai feriti. Stette attenta ad ascoltare gli ordini urlati dai capireparto, ma molti di loro parlavano solo francese ed era difficile stargli dietro. Tutto accadeva talmente in fretta che Abigail non pensava, eseguiva e basta: volava da paziente a paziente, disinfettava ferite col cotone idrofobo, inseriva aghi ipodermici per le iniezioni, come le era già capitato innumerevoli volte a Norwich e ad Aldeby. Nel reparto di radiologia, le fu chiesto di tagliare le uniformi dei feriti che giacevano sulle barelle, ancora fumanti per l’esposizione al cloro. In molti casi, stoffa e carne avevano formato un tutt’uno ed era difficile capire con esattezza cosa le forbici stessero tagliando.
Qualche letto più in là, Fanny Bouchard stava assistendo un chirurgo alle prese con un ufficiale che aveva un buco nella parte posteriore del cranio, da cui sporgeva parte del cervello; la ragazza aveva le mani così insanguinate che sembrava indossasse guanti scarlatti, ma i suoi movimenti erano precisi e i suoi occhi attenti.
«Infirmière!» gridò un medico, chino su un giovane soldato con un’infezione in stato avanzato alla gamba destra, dalla caviglia al polpaccio. Fece un cenno frenetico alla ragazza lentigginosa con cui Abigail era sbarcata. «Vite, il faut amputer!»
Lei guardò Abigail, impaurita. «N-non lo capisco…»
«Dice che deve amputare» spiegò lei. «Sta andando in cancrena. Fagli un’iniezione di morfina e poi fissagli un laccio emostatico.»
La ragazza annuì, pallida come un lenzuolo e preparò la siringa. Ma il soldato soffriva come un animale ed era terrorizzato a morte: alla vista del seghetto, si dimenò con fura tale sulla barella che per poco non mollò un pugno in faccia al chirurgo, gridando: «La gamba no! Vi prego, vi scongiuro, non la gamba!»
«Infirmière!» incalzò il dottore. «Tenez-le tranquille, pour l'amour de Dieu![4]»
La ragazza con le lentiggini però era nel panico quanto il soldato e la sua mano tremava talmente forte che sembrava avesse le convulsioni. Provò ugualmente a praticare l’iniezione, ma mancò due volte la vena e alla terza spezzò l’ago.
«Merda!» gemette, sull’orlo delle lacrime. «M-mi dispiace, n-non ci riesco…!»
Bisognava fare in fretta. Non c’era tempo per correre da una parte all’altra alla ricerca disperata di un altro ago, non in mezzo a quel macello…
Abigail non ebbe scelta. Approfittò del fatto che i due portantini e il chirurgo fossero impegnati a tenere a bada le gambe del soldato mentre si preparavano a segare, e afferrò saldamente il suo polso, mentre con l’altra mano gli toccò la fronte. Inspirò a fondo, per trovare prima di tutto la calma in se stessa.
All’inizio, percepì solo un flebile sussurro. Erano mesi, dopotutto, che non lo cercava e per un attimo temette che non le avrebbe mai più parlato. E invece, il suo potere era ancora là, in attesa: lo sentì risvegliarsi, stiracchiarsi come un animale rimasto inattivo per troppo tempo e poi correre veloce da lei al primo richiamo, entusiasta. E con esso, arrivò un senso di sicurezza che in quei mesi le era mancato.
Dilatò i confini della propria mente, fino a toccare quella sofferente del soldato.
Va tutto bene, cercò di rassicurarlo. Sei al sicuro. Non sentirai nulla.
Percepì il terrore dell’uomo e il suo dolore investirla come un’onda, togliendole il respiro. Abigail si sentì vacillare, ma riuscì a mantenere la posizione. Temeva che l’incantesimo si spezzasse.
Resisti.
La sofferenza lasciò la mente del soldato, gli spasmi si acquietarono. Presto, l’uomo finì di dibattersi e i portantini riuscirono a mantenerlo sdraiato. Abigail continuò a tenerlo finché il chirurgo non ebbe completato l’operazione e solo quando Gwen si precipitò da loro con un’altra siringa di morfina, allentò la presa.
«É stabile!» disse la ragazza, rivolgendole un sorriso. Subito dopo, la sua espressione si adombrò. «Ehi, stai bene? Non hai una bella cera.»
«Sto bene» rispose Abigail, debolmente. «Solo un giramento di testa.»
«Allora prenditi un minuto, va bene? Qui finisco io.»
Avrebbe preferito rimanere, ma si rese conto che in quelle condizioni avrebbe potuto procurare molti più danni. Così, si allontanò il più in fretta possibile dalla sala operatoria, cercando di ignorare i conati che l’odore del sangue le procurava. Uscì sul porticato e sentì il sudore ghiacciarsi sulla pelle accaldata, facendola rabbrividire nella sua uniforme.
«Guarda come ti sei ridotta.»
Le si bloccò il respiro. No…!
Si girò di scatto. Lui era là, appena un’ombra in quella luce caliginosa, i freddi occhi azzurri colmi di disgusto mentre si posavano sulla sua uniforme imbrattata di sangue. «Tu, che hai nelle vene l’antico sangue di Avalon, sangue di re e di regine. E hai gettato via tutto per questo
Non è davvero qui, disse Abigail a se stessa, per calmare i battiti forsennati del suo cuore. È solo una Proiezione astrale. Non lasciarlo entrare.
«Va’ via.»
L’uomo arricciò le labbra in qualcosa che non era proprio un sorriso. «Sei ancora in tempo per renderti conto del madornale errore che hai fatto, bambina. Torna a casa, adesso, e faremo finta che non sia mai successo. Una monelleria, la liquideremo così.»
Lei strinse i pugni. «Non posso.»
«Ma certo che puoi. Cosa speri di trovare qua fuori? I Mancanti non conoscono che odio, e la loro breve vita è costellata da sofferenza e miseria.»
«E che genere di vita avrei avuto, ad Arcanta?» fece Abigail, faticando a contenere la collera. Forse, se non fosse stata così stanca e provata dalle ultime ore, sarebbe stato più facile respingerlo. «Che vita avrei avuto con te? Per tutti questi anni mi hai trattata come una prigioniera!»
«Ho solo cercato di proteggerti. Quale padre non lo farebbe?»
«Hai cercato di vendermi!» ringhiò lei. «So tutto degli accordi con i Lightwood! Vuoi farmi sposare col primogenito, senza neanche chiedere il mio parere!»
«I Lightwood sono una delle Rispettabili Trenta, Abigail» replicò l’uomo, asciutto. «E tu sei una Blackthorn: molte ragazze di Arcanta ucciderebbero per avere un’occasione simile…»
«Io non sono le altre ragazze!»
«Ma rimani figlia di un Decano!» disse suo padre, a denti stretti. «E non hai la minima idea del ridicolo di cui mi sto ricoprendo per colpa di questa tua bravata!»
«Tu non capisci.» Abigail scosse il capo, allontanandosi da lui. «Non hai mai voluto capire, papà. Non rimarrò reclusa in un palazzo mentre nel Mondo Esterno la gente muore e soffre. Potremmo fare così tanto per queste persone, potremmo salvare centinaia di vite! Se solo i Decani…»
«I Decani hanno protetto la nostra gente per secoli» ribatté freddamente Blackthorn. «E continueranno a farlo, finché i Mancanti non avranno ridotto questo mondo in cenere con le proprie mani. E da quel che vedo.» Si gettò un’occhiata alle spalle, mentre camion carichi di feriti continuavano a battere ininterrottamente le strade. «Sono già a buon punto.»
Abigail era stanca, addolorata e voleva solo crollare in un angolino e piangere. «Vattene via, papà.»
«Continua questo gioco infantile quanto vuoi, Abigail» disse lui, duramente. «Ma non puoi scappare da ciò che sei, nessuno può farlo. Quanto credi ci vorrà perché queste persone scoprano la verità e inizino a temerti..?»
«Ti ho detto di uscire dalla mia testa. ADESSO!»
La Proiezione si dissolse, portata via dal vento come fumo.
Di nuovo sola, Abigail soffocò un singhiozzo nel palmo della mano, e poco alla volta, si concesse un pianto silenzioso e liberatorio.
Al fronte, intanto, si continuava ancora a sparare, e l’aria limpida del mattino risuonava del cupo rombo dell’artiglieria, come il basso di un’orchestra.




 
 

[1]Pack Up Your Troubles”, canzone di marcia della Prima guerra mondiale, pubblicata nel 1915 a Londra.
[2]“Viva gli Inglesi” “Viva i Belgi e abbasso i Tedeschi!”
[3] l’Ambulance de L’Ocean è stato davvero un ospedale da campo belga della Prima guerra mondiale, aperto il 18 dicembre 1914 dal Dott. Antoine Depage nella località balneare di La Panne.
[4] «Tenetelo fermo, per l’amor di Dio!»
  
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