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Autore: Losiliel    24/03/2023    0 recensioni
Morifinwë Carnistir Fëanárion, giovane nipote del re dei Noldor, vive in un meraviglioso palazzo nella splendente città di Tirion, in una terra benedetta da ogni ricchezza, circondato da una famiglia unita e numerosa. La sua vita sembra perfetta sotto ogni aspetto.
Peccato che lui non la pensi affatto così.
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[ Caranthir-centrico | coming of age | vita dei Noldor in Aman | Anni degli Alberi ]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caranthir, Fëanor, Figli di Fëanor, Nerdanel, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
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14

La zuffa

(o quando per rimediare a un errore combini l’ennesimo guaio)
 

 

Il salone delle feste era la stanza più grande del Palazzo Reale, persino più grande della sala del trono. A Morifinwë non capitava spesso di entrarci perché era riservato alle occasioni ufficiali, alle quali lui avrebbe potuto partecipare solo quando avesse raggiunto la maggiore età.

Ma il giorno della Meren Tulusto, la Festa dell’Arrivo, chiunque poteva accedervi, purché arrivasse abbastanza presto da trovare posto. E chi non trovava posto all’interno dei numerosi saloni messi a disposizione nel palazzo si sarebbe potuto divertire altrettanto, e forse anche di più, nel parco. Qui non avrebbe goduto dello spettacolo delle luci messo in scena dal principe Fëanáro in persona, ma avrebbe passeggiato lungo viali addobbati da scintillanti sfere di cristallo colorato, e si sarebbe affacciato a terrazze che davano sulla Piana Dorata per godere dello spettacolo del vero Telperion che raggiungeva la maturità, o a quelle che si affacciavano sulla Piana Calaciryana, punteggiata fino al mare dai falò della festa accesi dai suoi abitanti. E avrebbe avuto a disposizione molti angoli appartati, se preferiva starsene più tranquillo.

Il salone rimbombava di parole e di risate, e del tintinnio dei calici e delle posate d’argento contro i piatti di porcellana. Era gremito di gente che chiacchierava, scherzava e si serviva di cibo dai tavoli allineati lungo le pareti: niente cene formali per la Meren Tulusto.

Al soffitto erano appese centinaia di minuscole ampolle colme della rugiada di Telperion. Erano di diverse dimensioni ed erano disposte – almeno così avevano spiegato a Morifinwë – in modo da riprodurre le costellazioni che si potevano osservare nella Terra di Mezzo. Dalle alte vetrate entravano i deboli raggi dell’Albero della notte, ancora a inizio della sua fioritura. Presto sarebbero state coperte da pesanti arazzi che avrebbero fatto calare l’oscurità nella sala, prima del grande spettacolo finale.

Morifinwë si stava chiedendo cosa avesse organizzato il padre per il momento culminante della serata, quando tutti si sarebbero scambiati auguri, baci e abbracci, per celebrare ancora una volta l’inizio di una nuova era, priva di paura e di sofferenza, e ricca di luce e di promesse.

L’anno prima Fëanáro si era superato. Era riuscito a rivestire le due pareti più corte della sala, e il soffitto, con una fitta rete di canali trasparenti, di vetro talmente sottile da risultare invisibili. Sulle pareti i canali erano intrecciati tra loro e sagomati in modo da assumere la forma di un tronco d’albero. Man mano che si innalzavano da terra, si separavano in rami e quando arrivavano a rivestire il soffitto si suddividevano in migliaia di foglioline.

Allo scoccare dell’ora terza, esattamente a mezzanotte, le ampolle-costellazioni si erano spente, lasciando la sala nel buio più completo. Dopo qualche attimo, un fluido scintillante aveva cominciato a riempire dal basso i canali, come linfa che risale dalle radici per nutrire fino all’ultima foglia. Il liquido che riempiva la scultura di vetro che decorava la parete sud era rugiada di Telperion, quello della parete nord, rugiada di Laurelin. Morifinwë si era chiesto chi fosse stato a prendersi la briga di raccoglierle in una tale quantità, prima che cadessero a terra e si mescolassero.

Comunque fosse, ne era valsa la pena: assistere a quello straordinario spettacolo era stato come assistere alla nascita degli Alberi stessi, un evento che aveva preceduto di parecchie centinaia di anni l’arrivo degli Eldar nella terra di Aman. All’unisono si erano accesi prima il tronco, poi i rami più grossi, infine quelli più sottili, in ultimo le foglie. Queste avevano ricoperto il soffitto da una parete e dall’altra e si erano mescolate nel centro.

Luce abbagliante si era sprigionata nel salone e gli arazzi messi a copertura delle finestre, che fino a quel momento erano rimasti nell’ombra, si erano mostrati in tutto il loro splendore: quelle che, al buio, erano sembrate creature acquattate in un bosco oscuro, si erano rivelati cespugli carichi di bacche rosse e violette, le minacciose protuberanze sui tronchi degli alberi erano diventate uccelli dalle piume colorate, infine, al posto di ciò che erano sembrate dune di arido deserto erano apparse le onde del mare e la bianca spuma, e voli di gabbiani sotto un cielo terso. Alla fine, nemmeno un angolo del salone era rimasto in ombra e nemmeno una stella accesa nel cielo. La realtà si era trasformata a simboleggiare la nuova vita che cominciava nel nuovo mondo.

Quella sera, per quanto aguzzasse la vista, Morifinwë non scorgeva canali di vetro sulle pareti o sul soffitto della sala, ma d’altronde nemmeno se li aspettava perché il padre non ripeteva mai due volte lo stesso spettacolo. E dal momento che in casa non si lasciava sfuggire anticipazioni – o, almeno, non lo faceva davanti a lui – Morifinwë avrebbe dovuto attendere come tutti gli altri per scoprire cosa sarebbe accaduto.

– Arafinwioni in arrivo.

La voce di Tyelkormo, che gli era sopraggiunto alle spalle mentre era intento a scrutare il soffitto, lo fece sussultare. Da qualche tempo, Morifinwë aveva smesso di tenere il broncio al fratello e i loro rapporti erano tornati quelli di una volta: una via di mezzo tra l’indifferenza totale e la tolleranza reciproca. Come potesse essere successo, non riusciva a spiegarselo, visto che aveva promesso a sé stesso che non l’avrebbe mai perdonato, e di solito era un campione quando si trattava di ripicche. Colpa di Káino, probabilmente, che l’aveva contagiato col suo carattere sempre bendisposto verso tutti.

Morifinwë spostò l’attenzione sul fratello, che per l’occasione aveva abbandonato il suo stile minimale e vestiva un abito che poteva essere uscito dal guardaroba di Russandol tanto era elegante, pur non avendo rinunciato alla sua capigliatura disordinata.

Tyelkormo gli accennò col capo all’ingresso sulla parete di destra, da cui erano appena entrati i due figli di mezzo dello zio Arafinwë, insieme a Findekáno, che si stava già dileguando tra la folla dopo averli salutati con un breve abbraccio.

I due ragazzi, di altezza simile nonostante la differenza d’età e dai capelli biondi tipici di quel ramo della famiglia, indossavano le vesti morbide e multistrato caratteristiche della moda della costa, sulle tonalità dell’azzurro. Si sarebbero potuti scambiare per gemelli, non fosse stato per la chioma del più piccolo, i cui capelli gli stavano dritti in testa come una corona di spighe mature.

Morifinwë non aveva più parlato con Angaráto. Dal giorno della gara aveva abilmente evitato ogni occasione in cui avrebbe potuto incontrarlo, e anche quella sera si era rifugiato all’interno del palazzo proprio perché sapeva che il cugino avrebbe preferito stare all’aperto, dove normalmente si radunavano i ragazzi della loro età.

– Pensi che sospetti qualcosa? – domandò a Tyelkormo.

– Una cosa bisogna concedergliela a quei biondini: hanno cervello – rispose il fratello.

– Che sarebbe a dire “sì” – disse Morifinwë, cupo.

– Ci sono buone possibilità – confermò l’altro.

Lui ci pensò sopra: – Papà mi aveva chiesto se mi ero scusato.

– Scusarti sarebbe stata una buona idea se l’avessi fatto subito – commentò Tyelkormo dubbioso, – ora non saprei.

Angaráto disse qualcosa all’orecchio di Aikanáro, per sovrastare il rumore della folla, e cominciò a guardarsi intorno.

Morifinwë fece un passo indietro per ripararsi dietro le ampie spalle del fratello, e quando si rese conto di ciò che aveva fatto fu assalito dalla vergogna. Káino non si sarebbe mai nascosto, gli venne da pensare.

– Ti resta comunque un’alternativa – disse Tyelkormo, spostandosi leggermente per coprirlo meglio alla vista dei cugini, – la fuga.

Sì, scappare. Come aveva fatto tutte le volte che qualche occasione ufficiale lo aveva costretto a un incontro ravvicinato col cugino.

O come quella volta, da piccoli, nel parco, quando era rimasto rintanato tra i cespugli mentre gli altri lo prendevano in giro.

– Mi sono rotto di questa storia! – sbottò Morifinwë, – adesso vado e lo affronto.

– Cosa? – Tyelkormo si girò verso di lui così velocemente che il calice di vino che teneva in mano mandò schizzi da tutte le parti. – E cosa gli dirai?

– Gli chiedo scusa, maledizione! Cos’altro posso fare?

Lasciò Tyelkormo allibito a borbottare qualcosa come: “Cosa ti danno da mangiare a quella fattoria?” e si diresse a passo deciso verso i cugini. Quando Angaráto lo vide arrivare tirò la manica del fratello e uscì dal salone. Morifinwë li seguì, prima nel corridoio principale, poi in uno secondario meno frequentato.

– Vorrei parlarti – disse al maggiore.

– Che vuoi? Io non ho niente da dirti! – ribatté Angaráto in tono sostenuto, – credi che non mi sia accorto di cos’hai fatto?

– È proprio di questo che… – cominciò lui.

– Non hai sentito quello che ha detto? – si intromise il fratello più piccolo, che era il più impulsivo dei due, – come ti permetti di rivolgergli ancora la parola? Non sei nemmeno degno di guardarlo in faccia!

Morifinwë sentì la vergogna scaldargli il viso e strinse i pugni per non cedere alla rabbia.

– Volevo appunto… – ritentò.

– Fëanárion – intimò Angaráto, sforzandosi di tenere la voce bassa, – non una parola di più se non vuoi che spifferiamo tutto a tuo padre!

A Morifinwë venne quasi da ridere: – Mio padre sa già tutto, idiota.

– Ma certo, Ango – s’intromise il minore, – sarà stato lo stesso Fëanáro a dirgli di sabotare la tua barca. Lo sanno tutti che quelli non muovono un dito se non è il padre a dirgli cosa fare.

Morifinwë non ci vide più. Offendere lui andava bene, se lo meritava. Ma offendere suo padre? Come si permettevano quegli slavati imbecilli di un ramo minore della famiglia offendere il principe Fëanáro in persona?

Senza pensarci un attimo saltò addosso al più vicino: Angaráto.

Per un istante si domandò come c’era finito a fare a botte con uno a cui era intenzionato a chiedere scusa. Poi fu troppo impegnato a schivare i pugni del suo avversario e a tentare di mandare a segno i propri per pensare ad altro.

In breve finirono a terra, a tentare di afferrarsi e allo stesso tempo di sottrarsi alla presa dell’altro, a cercare di allontanarsi abbastanza da sferrare qualche colpo, ma non abbastanza da farsi sfuggire l’avversario. In un fugace momento di lucidità, Morifinwë pensò che non se la stava cavando troppo male; sebbene di qualche anno più piccolo di Angaráto la loro forza sembrava equivalere. Inoltre la correttezza – o la paura – impediva al minore di dare una mano al fratello.

Morifinwë si prese una ginocchiata nel fianco e rispose con un colpo di gomito tra le costole dell’Arafinwion. Non aveva voluto le scuse, il cugino? E allora che si prendesse le botte! In un modo o nell’altro Morifinwë non avrebbe più dovuto nascondersi. L’esaltazione scacciò la rabbia, annientò la paura; ogni pugno che dava o che prendeva lo faceva stare meglio.

Questo finché non sentì una voce severa che lo chiamava, alle sue spalle: – Morifinwë.

Morifinwë abbandonò all’istante la presa sul vestito di Angaráto e rimase col pugno a mezz’aria voltandosi verso suo padre. Angaráto, su cui la voce di Fëanáro aveva meno presa, ci mise un istante di più a fermarsi e arrivò con un diretto al sopracciglio che colse Morifinwë del tutto impreparato, facendolo gemere di dolore.

I due ragazzi si alzarono da terra, un po’ aggrappandosi l’un l’altro, un po’ spingendosi via, finché non furono in piedi. Morifinwë si trovò davanti al padre con la sua bella giacca rosso scuro a ricami dorati tutta sgualcita, e le trecce dentro cui la madre era riuscita a intrappolare i suoi capelli completamente sciolte, a giudicare dalle ciocche che gli cadevano davanti agli occhi.

Un rapido sguardo alle sue spalle gli confermò ciò che temeva: corridoio cieco, nessuna via di fuga. Un’occhiata di lato gli mostrò un Angaráto messo non molto meglio di lui: scarmigliato, con un taglio sul labbro e il collo del suo vestito celeste quasi completamente strappato. Mento alto e sguardo fiero, bisognava riconoscerglielo all’Arafinwion: riusciva a dissimulare il terrore con disinvoltura encomiabile. Se c’era una cosa che non veniva tollerata all’interno del palazzo, soprattutto nelle occasioni in cui c’erano ospiti, erano le zuffe tra ragazzini, che davano una pessima immagine della famiglia reale. Era forse l’unica cosa su cui suo padre e i suoi zii erano tassativamente d’accordo, e tutti i nipoti lo sapevano. Tremava persino Aikanáro, che non era direttamente coinvolto nella lite.

– Volete spiegarvi? – domandò Fëanáro, e la sua voce fu come una scheggia di ghiaccio che scende giù per la schiena.

Morifinwë non era arrivato all’età che aveva senza imparare che, quando un adulto faceva quella domanda, l’ultima cosa che voleva davvero erano spiegazioni. Angaráto, evidentemente, era dello stesso avviso, perché dissero quasi all’unisono:

– Papà, scusa, c’è stato un malinteso…

– Zio abbiamo sbagliato, perdonaci…

– Non accadrà più – ci mise del suo Aikanáro.

In quel momento, provvidenziale come un’aquila di Manwë, arrivò Tyelkormo a salvare la situazione: – Lascia stare, papà, li tengo d’occhio io.

Fëanáro, che quella sera era gravato dal tenere sotto controllo più cose di quanto facesse di solito, si lasciò convincere. Morifinwë non si faceva illusioni, sapeva che avrebbe dovuto rendere conto delle sue azioni al più tardi l’indomani. Per il momento, però, andava bene così: aveva assestato qualche bel pugno, se ne era presi un certo numero – e questo andava altrettanto bene, perché sapeva di meritarseli – e non sarebbe più dovuto andare alla ricerca di nascondigli quando gli fosse capitato di incontrare il cugino.

Il bilancio, tutto sommato, era positivo.

Non appena il padre se ne fu andato, Tyelkormo fece un cenno secco con la testa in direzione del corridoio principale; gli Arafinwioni colsero al volo l’invito, gli sfilarono davanti e svanirono dalla loro vista. Morifinwë sentì uno dei due mugugnare “non finisce qui”, ma era più che certo che invece la cosa si sarebbe chiusa quella sera.

Tyelkormo inarcò un sopracciglio: – Interessante questo modo di scusarsi. Me lo devo segnare.

– Lascia perdere – disse Morifinwë tastandosi il sopracciglio che, scoprì, stava sanguinando, – guarda come mi ha conciato.

– Anche lui non era messo tanto bene – osservò Tyelkormo, e se non era una nota di apprezzamento quella nella sua voce, Morifinwë non ne aveva mai sentita una.

– Me ne vado a casa – mugugnò, – avvisa tu gli altri.

– Vuoi che ti accompagni?

Questo era troppo, Tyelkormo che si preoccupava per lui?

– No, resta. Divertiti.

Il fratello gli lanciò un’ultima occhiata, poi gli voltò le spalle. – Contaci! – disse, con la sua solita spavalderia. E sparì nel corridoio.

Morifinwë fece la breve passeggiata fino a casa tamponandosi la ferita con un fazzoletto. Si sentiva stranamente bene, considerato che era appena uscito da una rissa con un ragazzo più grande che, per giunta, aveva tutti i motivi per volerlo vedere ridotto male.

Era pervaso da una scarica di energia che non lo abbandonò nemmeno quando si tolse i vestiti della festa e andò a lavarsi. Non se la sentiva proprio di prepararsi per la notte e chiudersi in camera sua.

Guardandosi allo specchio vide che la ferita aveva già smesso di sanguinare, anche se l’occhio si stava gonfiando e presto si sarebbe tinto di sfumature violacee. Si annodò i capelli umidi nella sua corta coda, scelse una delle poche camicie chiare che possedeva e un paio di pantaloni grigi, si rimise addosso gli stivali che aveva indossato per la festa e andò a recuperare Morvail.

Quando giunse in vista della fattoria si chiese come mai, per un motivo o per l’altro, finisse sempre per rifugiarsi lì.

Questa volta almeno era stato invitato.


 

 

 


NOTE

Grazie a chi ha letto!

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë = Caranthir
Fëanáro = Fëanor
Tyelkormo = Celegorm
Russandol = Maedhros
Arafinwioni = figli di Arafinwë, cioè di Finarfin
Findekáno = Fingon
Angaráto (qui chiamato anche Ango) = Angrod
Aikanáro = Aegnor

Personaggi di mia invenzione
Káino, un amico di Morifinwë
Morvail, il cavallo di Morifinwë

Nomi di mia invenzione
Piana Dorata, l’ampia pianura tra Tirion e Valmar
Piana Calaciryana, stretta striscia di terra pianeggiante tra Tirion e il mare

 

  
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