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Autore: Orso Scrive    28/03/2023    1 recensioni
Alberto Manfredi e Aurora Bresciani ricevono l’incarico di gestire la sicurezza di una mostra dedicata alla storia della frontiera americana. Fare la guardia a vecchi cimeli privi di valore non sembrerebbe essere un incarico molto gratificante, per i due carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale. Ma dovranno presto ricredersi, quando la mostra verrà sconvolta da uno strano furto, che sembra collegato a un’antica maledizione degli indiani d’America e alla scoperta, ai tempi della frontiera, di una miniera misteriosa…
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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2.

 

 

Roma, Italia, marzo 2022

 

 

«Allora ha capito bene quello che dovrete fare, tenente Manfredi?»

Il colonnello Iannaccone, marziale e impeccabile nella sua uniforme nera e priva di ogni pur minima piega, come pure erano marziali il suo curatissimo pizzetto e i capelli tagliati a spazzola, era seduto dietro l’ampia scrivania di mogano che troneggiava nel mezzo del suo ufficio.

Alla parete alle sue spalle erano appesi una piccola asse di legno da cui pendevano tutti i calendari dei Carabinieri, e un quadretto – di fianco alla foto del Presidente della Repubblica – su cui era raffigurato lo stemma del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale: un cerchio blu, racchiuso in uno rosso, nel mezzo del quale si vedevano il Pantheon di Agrippa e un drago sputafiamme. Dalla finestra alla sua sinistra si godeva di un meraviglioso panorama sull’intera Città Eterna, dominata dal Cupolone di San Pietro, in quel momento acceso come in un incendio dai riverberi del tramonto.

Seduto di fronte a lui, al contrario, il tenente Alberto Manfredi non avrebbe potuto essere meno marziale.

Con i capelli spettinati e la barba che cominciava ad avere bisogno di una regolata, sembrava quasi che avesse indossato la divisa soltanto perché, al momento, non aveva niente altro da mettere addosso. In quel momento, era anche afflitto da un lieve ma estremamente fastidioso mal di testa, postumo non richiesto del viaggio in treno da Bologna per arrivare nella capitale, che gli donava un’aria sofferente. A giudicare dallo sguardo disgustato che il colonnello gli aveva rivolto quando era entrato nell’ufficio, il suo aspetto, in quel momento, non era per niente degno di un carabiniere – per di più un ufficiale – nel pieno delle sue funzioni.

«Servizio d’ordine alla mostra sul Far West che si terrà all’interno delle scuderie del Quirinale a partire dall’inizio della prossima settimana», ricapitolò Manfredi, svogliato, resistendo a stento alla tentazione di stropicciarsi fronte e tempie per provare a mandar via l’emicrania. «E, onestamente, non capisco perché dobbiamo disturbarci a farlo noi, con tutto il lavoro arretrato che abbiamo, quando al Quirinale c’è pieno di corazzieri che non hanno nulla da fare…»

Iannaccone lo guardò storto.

«Ai miei tempi, tenente Manfredi, si era usi a obbedir tacendo», lo rimbrottò. «Quello che veniva comandato dai superiori lo si faceva e basta.»

Già, compresi atti di tortura verso i sospettati o tentativi di golpe, pensò il tenente, con un fastidio crescente che andò a sommarsi al mal di testa. E poi ci si chiede pure come mai, al giorno d’oggi, la gente non abbia più alcuna fiducia nelle forze dell’ordine.

Non lo disse, ovviamente.

Per quanto sopra le righe, non poteva dimenticarsi di essere pur sempre uno sbirro. E come tale doveva comportarsi. Soprattutto, davanti a un superiore.

Iannaccone tacque un istante, giocherellando con una penna a sfera che aveva preso dalla scrivania e scrutandolo come se stesse cercando di indovinare i suoi pensieri. Il suo sguardo scivolò di nuovo sull’uniforme stropicciata di Manfredi, e indugiò un po’ troppo a lungo sul nodo malfatto della cravatta. Il ribrezzo che gli si dipinse in volto bastò più di tante parole.

«Ma, visto che lei e gli altri dovrete sapere di preciso che cosa dobbiate fare, immagino di poterglielo dire», dichiarò, riprendendo il discorso e staccando gli occhi dall’abbigliamento del tenente, non senza un’ultima smorfia disgustata. «È presto detto. I pezzi che saranno esposti, per quanto antichi e autentici, spediti tutti dagli Stati Uniti, saranno quasi tutti delle cianfrusaglie.»

Afferrò il rapporto con l’elenco dei pezzi destinati alla mostra e cominciò a scorrerlo. Non riuscì a celare una nuova espressione di raccapriccio non troppo dissimile da quella che aveva riservato al tenente.

«Paccottiglia senza un vero valore: vecchie Colt arrugginite, un Winchester o due, punte di freccia indiane, un cappello Stetson bucato e rammendato ma che pare essere appartenuto nientemeno che a Buffalo Bill, una vecchia bandiera a stelle e strisce rappezzata e bucata, un pianoforte da saloon roso dai tarli, alcune uniformi ammuffite dei soldati della Guerra di Secessione, qualche riproduzione di fotografie, arnesi della vita quotidiana, terraglia indiana e poco più. Ci saranno anche la replica di un carro da pionieri, di una tenda navajo e poco altro. Roba che, quasi quasi, non vale nemmeno un’assicurazione. Sembra la mostra per un parco dei divertimenti, più che per un luogo come il Quirinale.»

Alberto aggrottò le sopracciglia.

«Allora, non capisco perché…»

«Ma ci sarà un pezzo, come dire, forte», lo interruppe Iannaccone, ignorandolo. La sua voce scese di qualche ottava, assumendo il tono cospiratorio e carbonaro delle grandi occasioni. «Un pezzo che molti collezionisti privati aspirerebbero ad avere nelle loro raccolte.»

Sollevò gli occhi dal foglio e li puntò dritti in quelli di Manfredi. Si protese verso di lui, pronto a bisbigliare a mezza voce quell’informazione che, oltre a loro, nessuno doveva ascoltare.

Suo malgrado, il tenente provò un moto di curiosità. Che cosa mai poteva essere…?

«Gli speroni che il futuro Presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt utilizzò quando, durante un periodo di depressione, si ritirò a vivere nelle Badlands, terre selvagge del Dakota del Sud.»

Alberto si trattenne a stento dallo scoppiare a ridere.

Gli speroni… cazzo!

«Cosa sarebbe quella smorfia, tenente?!» lo inquisì Iannaccone, raddrizzandosi di nuovo sulla sedia.

Manfredi si controllò appena in tempo.

«Niente, niente… solo mi stavo dicendo che, a ben vedere, il Dakota del Sud non è uno degli Stati del vecchio West…»

Iannaccone si strinse nelle spalle e scribacchiò qualcosa sopra il documento.

«E lei che vuole che ne sappia, la gran parte della gente, di dove si trovi mai il Dakota del Sud? Sono pronto a scommettere che un mucchio di gente non sa nemmeno che esista, uno Stato con un simile nome. L’ignoranza dilaga, caro Manfredi, ripeto, l’ignoranza dilaga. È un dato di fatto, e nulla fa eccezione, tantomeno la geografia. Anzi, quella è la più bistrattata di tutti. Sono pronto a scommettere che, se le domandassi quale sia la capitale del Burkina Faso, nemmeno lei sarebbe in grado di dirmelo.»

Alberto aggrottò le ciglia.

Uhm, la capitale del Burkina Faso…? Vediamo…

«Per la maggioranza dei nostri conterranei, gli Stati Uniti sono semplicemente l’America», proseguì il colonnello, «e hanno giusto una vaga idea dell’esistenza di New York, Washington e Los Angeles, anche se dubito che saprebbero dire dove si trovino, se gli si mostrasse una carta geografica muta e gli si chiedesse di indicarne l’ubicazione. So di gente convinta che la California sia affacciata sull’Atlantico… sull’Atlantico! Perdio!»

Non è Mogadiscio. E nemmeno Antananarivo. Aspetta, forse…

«Ma poi di cosa meraviglio?» andò avanti imperterrito l’ufficiale, ormai perso nelle sue considerazioni. «Una volta, origliando una conversazione in un bar, ho sentito gente convinta che la città di Trapani si trovi, senta un po’, in Puglia! In Puglia! Per non parlare di quelli convinti che, il lago più grande d’Italia, sia il Maggiore, per via del suo nome. Dove andremo a finire? No, dico: dove mai andremo a finire? Io proprio non lo so. E lei, Manfredi, lo sa?»

Alberto, tutto catturato dai suoi ragionamenti, non si degnò di rispondere.

Non potrebbe essere Monrovia, vero? No, no…

Iannaccone lo fissò e soggiunse, con un tono che non ammetteva repliche: «Gli speroni ci stavano bene nella mostra e gli speroni ci saranno. Voi dovrete stare attenti a che nessuno provi a rubarli. Roba, come può ben intuire, che non compete ai corazzieri, i quali hanno ben altri compiti.»

Del tipo, stare immobili come statue di sale e non fare nulla tutto il giorno. Però, chi se ne frega. Mi pare sia Nairobi, no?

Alberto si astenne dal tramutare in parole i suoi pensieri a riguardo della faccenda. Non era il momento di mettersi a fare commenti. Nell’ufficio di Iannaccone, tra le altre cose, regnavano un odore di vecchiume e di masarotto disgustosi, perché il colonnello era così tirchio da non voler far pulire mai i mobili e i pavimenti, nemmeno se a pagare il detersivo non era lui ma lo Stato. Sosteneva che, a pulirle troppo, le superfici avrebbero finito col consumarsi.

Invece, si limitò a domandare: «E tutto il resto?»

Casablanca, macché! Abuja, allora? No, no…

Iannaccone fece un vago gesto con la mano.

«Già che siete lì, dategli un’occhiata a turno. Male non fa. Ma a chi vuole che gliene freghi nulla, di quella roba?»

Manfredi non avrebbe saputo dirla meglio. Immaginò che fosse venuto il momento di congedarsi. Si alzò e fece un vago cenno di saluto.

Non riuscì a trattenersi oltre.

«Yamoussoukro!» esclamò, trionfante. Già il solo essere riuscito a ricordarsi – e, soprattutto, a pronunciare – un simile nome impossibile, gli avrebbe dovuto come minimo fruttare una promozione.

Ma, lo sapeva, in Italia non vige la meritocrazia, a nessun livello.

Iannaccone lo fissò in silenzio per un qualche istante, prima di sibilare a denti stretti: «Ouagadougou, Manfredi! È questa la capitale del Burkina Faso. Ouagadougou. Se la stampi bene in mente, tenente, perché un giorno potrebbe tornarle utile. Non si sa mai, nella vita.»

Alberto pensò bene di battere in ritirata, prima che al colonnello venisse in mente l’insana idea di obbligarlo a fare per davvero un ripasso di geografia.

Prima che uscisse dalla porta, però, Iannaccone lo richiamò ancora una volta.

«E un’altra cosa, tenente, perdio…» sbottò. «Impari a farsi come si deve quel benedetto nodo alla cravatta!»

 
   
 
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