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Autore: Zobeyde    31/03/2023    2 recensioni
Prequel de “Gli ultimi maghi”
Sono anni turbolenti per l’Europa: la Belle Époque sta per tramontare, sotto l'incombere di una guerra come non se n’erano mai viste, e nella millenaria città di Arcanta, dove la magia esiste e i suoi abitanti hanno da sempre vissuto al riparo dalla corruzione del mondo, c’è chi non può restare indifferente ai cambiamenti fuori dalle sue mura incantate:
Abigail Blackthorn, in fuga da una gabbia dorata per aiutare chi soffre nelle trincee, dove inaspettatamente troverà amore e dannazione.
Solomon Blake, cinico, ladro, machiavellico, determinato a rendere la magia grande come un tempo, fino al giorno in cui scoprirà che ogni cosa ha un prezzo.
Zora Sejdić, maga decaduta che ha fatto dello spiritismo la propria arma per la scalata al potere. Un’arma però che si rivelerà presto a doppio taglio…
Dal testo:
[…] Vede, ambasciatore, io non credo né negli dei, né negli uomini. Credo che ognuno di noi, presto o tardi, venga chiamato a giocare un ruolo in una partita ben più grande. Deve solo capire qual è il suo. […]
Genere: Angst, Fantasy, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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TESORI DA CUSTODIRE

 
 

 
Da qualche parte nei dintorni di Frascati, Italia.
16 aprile 1914
 
 
Sulle rive di un piccolo lago nascosto da boschi di lecci e castagni, vi era una magnifica dimora eretta in tempi antichi da un papa non molto amato dal popolo.
Si trattava di un palazzo grandioso, con la facciata arricchita da eleganti arcate, torrette e cupole. L’interno non era meno sontuoso dell’esterno: pavimenti a scacchiera in basalto e breccia rosa, vetrate istoriate di Murano, volte affrescate su cui divinità greche a bordo di carri alati solcavano cieli ricchi di nuvole e figure allegoriche.
Una coppia di leoni di marmo faceva la guardia allo scalone monumentale che conduceva ai piani superiori, e a un susseguirsi di sale traboccanti di tesori da ogni dove: dipinti del Tintoretto, di Veronese e Caravaggio, splendidi bronzi salvati dal ventre dell’Egeo, guerrieri in terracotta rubati dalla tomba di un imperatore cinese. Appesa in un salottino, una Monna Lisa troppo bella per essere falsa accoglieva chiunque entrasse col suo sorriso enigmatico, da sopra un camino in pietra calcarea grande come un sepolcro.
Malgrado l’ora fosse tarda, una giovane donna sedeva allo scrittoio dentro una vasta biblioteca stipata di librerie fino al soffitto; lunghi capelli ramati le coprivano le spalle, e sfogliava una pila di carte con espressione corrucciata. Di tanto in tanto, scuoteva il capo con un sospiro, poi intingeva la penna nel calamaio e segnava correzioni qua e là, cercando di salvare il salvabile. Ma era inutile perderci la testa: quei test erano un disastro. Possibile che nessuno di quei ragazzini arroganti fosse ancora in grado di bilanciare correttamente una formula alchemica? E dire che, stando a quanto sostenevano con orgoglio i loro genitori, rappresentavano il futuro di Arcanta, una nuova generazione di maghi dal sangue purissimo pronta a scalare le vette della Cittadella e stupire il mondo coi loro prodigi.
A un tratto, un corvo completamente bianco fece irruzione accompagnato da uno stridio acuto e da un leggero fruscio di penne.
La ragazza alzò la testa e gli rivolse un enorme sorriso.
«Wiglaf!» esclamò, mentre il corvo gracchiava allegramente e svolazzava per la stanza. «È tornato? Da quale armadio?»
L’uccello fischiò e imboccò l’uscita, planando leggiadro lungo il corridoio. Lei scattò immediatamente in piedi e lo seguì di corsa.
Wiglaf si fermò in una sala dalle pareti rivestite da armi, spadoni vichinghi, ixwa africane, katane giapponesi e baionette risalenti alla Rivoluzione francese. Addossato contro un muro vi era un antico armadio di mogano intarsiato, che vibrava leggermente.
Il corvo si appollaiò sulla spalliera di una poltrona e la ragazza si fermò di fronte al guardaroba con le mani dietro la schiena. Nell’attesa, gettò un’occhiata allo specchio ovale affisso alla parete e lisciò le pieghe della gonna.
«Sono un disastro» mormorò in tono nervoso, mentre riavviava i capelli con le dita. «Se mi avessi avvisato un po’ prima!»
In quell’istante, le ante del guardaroba si spalancarono.
Il sorriso raggiante di lei svanì all’istante, quando si accorse che quel che stava venendo fuori non era assolutamente ciò che si aspettava.
Arretrò lentamente, gli occhi scuri fissi sull’energumeno dalla pelle grigio verdastra, la testa completamente calva e le zanne sporgenti che si stava trascinando goffamente fuori dall’armadio, piegandone le assi.
«Non fare un altro passo, bestia!»
La rossa sollevò di scattò le mani e le armi presenti nella stanza si staccarono dalle pareti, fluttuando nell’aria intorno a lei. Alla vista di tutte quelle lame affilate puntate contro di lui, il mostro emise un ringhio furioso e si preparò a sferrare un colpo con la sua enorme clava di legno…
«Un momento! Fermi, fermi!»
Qualcun altro saltò fuori dall’armadio, un allampanato uomo in smoking, che si mise tra la ragazza e la creatura con le braccia spalancate.
«Adesso vediamo di darci tutti una calmata, d’accordo?» disse Solomon Blake, con aria trafelata. «Forza, abbassate le armi!»
La ragazza lo fissò sbalordita. «Non dirmi che sta con te?!»
«Faremo le dovute presentazioni» replicò lui. «Per adesso, ti dispiace mettere via quelle armi? Lo stai innervosendo.»
Sempre più scioccata, lei agitò una mano e spade, lance e baionette tornarono quietamente a occupare i propri posti sulle pareti.
«Ti ringrazio» disse lo stregone. «Anche tu, giovanotto. Non c’è niente di cui aver paura, è un’amica.»
L’orco rispose con un grugnito scettico, ma abbassò la clava.
«Molto bene.» Solomon riprese fiato e cercò di ricomporsi. «Dunque, Valdar, ti presento la mia apprendista, Lucia. Lucia, lui…be’, lui è Valdar. Un orco, come avrai capito.»
«Potresti spiegarmi che sta succedendo?» domandò la maga, portandosi le mani ai fianchi. «Credevo fossi andato a rubare un grimorio e invece porti a casa un orco?!»
«Non era nei piani» ammise lo stregone, passandosi una mano fra i ricci corvini e spettinati. «Ma non mi ha dato molte alternative: per il momento resterà qui, finché non avrò capito cosa farne…»
«Stai scherzando, spero!»
«Dove altro vuoi che lo tenga? Non posso mica portarlo ad Arcanta!»
«Be’, allora avresti potuto lasciarlo dove lo hai trovato!»
«Valdar debito di sangue con Padron Blake» biascicò l’orco, gonfiando il petto gigantesco. «Valdar onorerà Padron Blake fino alla morte, così suo spirito sarà accolto nella gloria da Antenati…»
Esasperato, Solomon si schiaffeggiò la fronte con la mano. «Non ricominciare!»
Un istante dopo, da qualche parte al piano di sopra sbatté una porta e un paio di passi risuonarono sopra le loro teste.
I tre rimasero immobili e in silenzio.
«Aspettavamo altre visite?» chiese piano Lucia.
Solomon fece subito mente locale. «Che giorno è oggi?»
«Martedì.»
«Marte…oh, maledizione!»
«Solomon Blake!» chiamò una squillante voce maschile dal piano di sopra. «È inutile che fai finta di non esserci, vecchio stronzo!»
«Macon Ludmoore» mormorò Lucia, stupita. «Non mi avevi detto che sarebbe venuto.»
«In realtà un po’ ci speravo.» Solomon prese un profondo respiro. «Devo andare a riceverlo. Tu bada a lui, fa’ in modo che non combini danni.»
«Non vorrai mollarmi da sola con questo…coso?!»
«Valdar viene con Padron Blake» affermò l’orco.
«No, no! Non pensarci neanche!» sbottò Solomon e gli indicò con decisione un punto del pavimento. «Tu non ti muoverai di qui, mi sono spiegato? Resta. Qui. A cuccia!»
«Solomon» iniziò Lucia, tra i denti.
«Lu, ti prego, almeno tu dammi una mano!»
Sfoderò uno sguardo languido, da cane bastonato, sicuro che non gli avrebbe detto di no, e infatti Lucia cedette. «E va bene.»
Solomon sorrise e sgattaiolò via.  Un momento prima di lasciare la stanza, la chiamò con dolcezza: «Lucy, tesoro.»
Lei si volse subito a guardarlo, speranzosa. «Sì?»
Il sorriso malandrino di lui si allargò. «Non ti dispiace mettere su del tè, vero?»
Pochi istanti dopo, lo stregone spalancò le porte vetrate che conducevano alla sala della musica: tra pianoforti a coda, arpe e un’intera collezione di Stradivari, l’Arcistregone del Sud sedeva in una comoda poltrona di fronte al camino, un ometto coi capelli blu e la pelle color caramello, fasciato da una sgargiante tunica viola e oro.
«Ah, eccoti. Pensavo ti saresti finto morto anche questa volta.»
«Perdona l’attesa» gli sorrise Solomon, chiudendosi le porte alle spalle. «Stavo leggendo e mi sono appisolato.»
«In abito da sera?»
«La classe prima di tutto. Vuoi qualcosa da bere? Ho uno scotch invecchiato ottantasette anni.»
«No, grazie. Vengo proprio ora dalla Cittadella.»
«Motivo in più per farsi un drink.»
Senza aspettare risposta, Solomon si avvicinò alla vetrina dove conservava le sue bottiglie migliori.
«C’era anche Boris Volkov» riprese Macon, mentre lui era di spalle che trafficava coi bicchieri.
«Ah sì? E come se la passa il vecchio Bo?»
«Dimmelo tu. So che avete trascorso una seratina movimentata a San Pietroburgo.»
«Ed è venuto a lagnarsi con te perché ho cercato di soffiargli l’incarico» completò Solomon, annoiato. «Tipico.»
«Be’, non puoi biasimarlo: sono anni che fai il bullo con lui.»
«Io non faccio il bullo!»
«Sì che lo fai. E ti diverte pure parecchio.»
Solomon raggiunse la poltrona di fronte col suo doppio scotch in mano, ridacchiando. «Forse un pochino.»
«Posso almeno sapere che ci facevi lì?» chiese Macon, tamburellando le dita sui braccioli. «Ti comporti in modo strano ultimamente: voglio dire, sei sempre stato strano, ma almeno prima se c’era qualcosa che bolliva in pentola ero il primo a saperlo!»
«Dimmi di cosa vuoi parlare e ne parliamo» disse Solomon, facendo spallucce. Buttò giù un sorso di scotch. «Vuoi parlare di San Pietroburgo? Ero nei paraggi, ho sentito della missione di Boris e mi sono incuriosito.»
«Si è trattato solo di questo?»
«Ho dato un piccolo contributo per la sicurezza di Arcanta: sono un Arcistregone, è il mio lavoro.»
Gli occhi eterocromi di Macon, uno marrone e uno verde, si soffermarono su di lui con diffidenza, e Solomon aggiunse: «Siamo amici da quando avevamo sedici anni, Macon: sul serio hai smesso di fidarti di me?»
«Probabilmente sono rimasto l’unica persona al mondo che si fida ancora di te. Non è questo il punto.»
«E qual è il punto?»
In quell’istante, da qualche parte nel palazzo risuonarono dei tonfi e un frastuono di vetri rotti. A Solomon si strinse lo stomaco. L’orco…!
«Per tutti i demoni!» esclamò Macon. «Cosa è stato?»
«Cosa è stato cosa?»
«Non hai sentito?»
«Oh!» fece Solomon in tono leggero. «É solo Lucia. Le ho chiesto di prepararci un tè, a volte è un po’ maldestra. Dicevamo?»
«Il punto» riprese Macon. «É che sono preoccupato per te.»
«Non devi. Sto benone.»
«Bevi sempre molto, vedo.»
«Se non ricordo male tutte le migliori sbronze della mia vita le ho avute insieme a te.»
«Eravamo ragazzi. E non avevamo allievi a cui pensare.»
Quel branco di babbei viziati, pensò Solomon, rabbuiandosi un momento. Fece oscillare piano il bicchiere. «Quindi, pensi sia un pessimo insegnante?»
«Penso tu sia un ottimo insegnante» ribatté Macon. «E i tuoi allievi ti adorano, anche se li tratti come degli idioti. Per questo mi chiedo: qual è il tuo problema, Sol? Cosa ti manca? Ti sei barricato in questa specie di museo, e a parte per le lezioni e le missioni per il Decanato non esci mai.»
«Qui ho tutto quello che mi occorre» rispose Solomon, con voce incolore. «I miei libri, la mia arte, la mia magia. Non mi è mai piaciuto circondarmi di persone.»
«E pensi davvero che ciò che cerchi lo troverai nei libri?»
Di nuovo furono interrotti da una serie di rumori, porte che sbattevano, vibrazioni che percorrevano il pavimento. E stavolta, un sonoro ruggito riverberò per i corridoi, facendo saltare Macon in poltrona. «Oh, per i Fondatori! Lucia, cara, va tutto bene? Hai bisogno di aiuto?»
Pochi istanti dopo, le porte del salotto si aprirono da sole e Lucia comparve sulla soglia un po’ arruffata ma sorridente, con un vassoio che le fluttuava accanto. «Tutto sotto controllo!»
Solomon la osservò in ansia mentre, con un movimento delle dita, lei guidava teiera, tazzine e zuccheriera sul tavolino fra le loro poltrone.
«Grazie, cara» disse Macon, sorridendole. «Come stai? È tanto che non ti vedo! E figuriamoci se il tuo maestro si scuce la bocca con me!»
«Sto benissimo!» disse Lucia, ricambiando il sorriso. «In verità non c’è molto da raccontare, trascorro la maggior parte del tempo sui libri.»
«Be’, non dovresti.» Macon scoccò un’occhiata di rimprovero a Solomon, che alzò gli occhi al soffitto. «Sul serio, bambina mia, sei così giovane! Dovresti vedere il mondo, divertirti, farti degli amici! Non passare le tue giornate in questo mausoleo polveroso insieme al Conte Dracula!»
«Ma a me piace qui» ribatté Lucia, convinta. «C’è tanta pace e poi, studiare la magia è l’unica cosa che desidero.» I suoi occhi però indugiarono un istante su Solomon, che si era allontanato per versarsi un altro bicchiere.
«Capisco quanto sia importante per te» disse Macon dolcemente, ma il suo sguardo si velò di malinconia. «Dopo l’orrore che hai dovuto passare, povera cara…»
«Macon» lo avvertì Solomon, seccamente.
«Ehm, ma la cosa importante è che tu adesso sia felice!» concluse Macon vivace. Le fece segno di avvicinarsi e quando la ragazza fu a portata d’orecchio le bisbigliò: «Posso darti un piccolo consiglio, Lucy?»
«Ma certo che puoi.»
«Non eclissarti mai dietro qualcun altro. E non parlo solo del tuo potenziale come maga.»
Lucia arrossì leggermente. «Ma già lo faccio.»
«Me lo auguro.» Macon fece un cenno verso Solomon. «Sai, il problema di noi uomini è che spesso siamo troppo concentrati su noi stessi per accorgerci di cosa è importante finché non lo perdiamo…»
«Di che state parlando?» inquisì Solomon, tornando a sedersi.
«Di miopia. Un problema che affligge più gente di quanto si pensi.»
Lucia sghignazzò, ma Solomon non parve cogliere l’allusione.
«Be’, si è fatto tardi» disse a un certo punto l’Arcistregone del Sud, alzandosi in piedi. «Meglio che torni ad Arcanta a controllare le mie pesti!»
«Ci vediamo presto, Macon» disse Solomon, pronto ad accompagnarlo alla porta, ma Macon si rivolse a Lucia in tono allegro: «Darò una festicciola alla Corte dei Miraggi questo venerdì: perché non vieni? Magari puoi convincere questo topo di biblioteca a mollare i suoi benedetti libri per una sera…»
Il sorriso di Lucia vacillò. «Non credo che ai tuoi ospiti piacerà avere una Sanguemisto in giro.»
«Sciocchezze!» tuonò Macon. «Sei mia amica e mia ospite, e se a qualcuno non dovessi andare a genio sarà invitato educatamente ad andarsene!»
«Valuteremo» rispose Solomon, sbrigativo. «Grazie per la visita, Macon. Ci fa sempre piacere.»
Quando finalmente l’Arcistregone del Sud fu sparito in un armadio e rimasero soli, Solomon si lasciò sfuggire un profondo sospiro. «Anche questa è andata. Cos’era quel baccano poco fa? L’orco ti ha aggredita?»
Lei rise. «Ma no, ha solo fatto i capricci perché voleva raggiungerti a tutti i costi. É convinto di essere la tua guardia del corpo.»
«Grandioso» commentò Solomon, piattamente.
«Mi ha fatto un po’ tenerezza.»
«E cosa ne hai fatto alla fine?»
«L’ho addormentato: è in cucina che russa come un bambino.»
«Almeno per un po’ non darà problemi.»
Solomon sprofondò di nuovo in poltrona, massaggiandosi le tempie. «Mi dispiace di averti dato questo fastidio. Se non l’avessi portato con me a quest’ora la sua testa sarebbe appesa sul camino di qualche cacciatore di mostri Mancante…»
«Hai compiuto un bel gesto» replicò lei. «Non molti maghi si sarebbero preoccupati per la vita di un Dimenticato.»
«Inizio a capire perché. Allora, che hai deciso? Lo terrai qui finché non gli trovo una sistemazione?»
Lei incrociò le braccia. «Non mi lasci molta scelta, no? Sarebbe stato carino se me lo avessi chiesto prima, ma tanto tu fai sempre di testa tua.»
Solomon stette a osservarla mentre gli voltava le spalle per mettere a posto tazzine e teiera, osservò i lunghi capelli ramati ondeggiare come fiamme sulla sua schiena, e pensò che fosse bella e luminosa come una ninfa preraffaellita, come il giorno in cui l’aveva incontrata, malgrado gli austeri abiti monacali all’epoca facessero di tutto per soffocare la sua sensualità.
Lasciò la poltrona e le si avvicinò, fermandosi alle sue spalle. «Troverò il modo di farmi perdonare. Che ne pensi di un piccolo dono, come anticipo?»
Le sfiorò delicatamente le clavicole con le dita, provocandole un piccolo sussulto, e al suo collo apparve un grosso e scintillante zaffiro blu.
Lucia trattenne il respiro. «É bellissimo! Dove lo hai preso?»
«L’ho vinto onestamente a una scommessa. Ovvio.»
Lei si voltò a guardarlo e rise, un suono dolce e fresco come un ruscello di montagna.
«Allora?» chiese piano Solomon. «Perdonato?»
Lei rigirò la gemma tra le dita. «Be’, è uno zaffiro bello grosso.»
«Sì, lo è.»
«Ma anche quell’orco è bello grosso. Un grosso problema.»
«Che risolveremo in fretta, parola mia.»
Lucia sorrise soddisfatta e si ammirò in uno specchio, sollevando i capelli e studiandosi da varie angolazioni.
Solomon era sempre stato attratto dalla bellezza. L’aveva ricercata per anni nella natura, nell’arte, così come nella magia. La bellezza donava potere, e lui trovava affascinanti soprattutto i tesori nascosti, quelli difficili se non impossibili da trovare, quelli destinati a pochi audaci eletti.
A dispetto di ciò che pensava Macon, quel palazzo non era affatto un mausoleo: era uno scrigno, dove custodire tutto ciò che di bello, di prezioso e di buono c’era ancora nel mondo, prima che venisse corrotto dai suoi orrori.
Lucia non faceva eccezione. Eppure, non poté non domandarsi se quella vita fosse la scelta migliore per lei.
Quando l’aveva portata via con sé, quattro anni prima, lontano da quel miserabile villaggio pieno di gente crudele e bigotta, le aveva offerto un’alternativa: le aveva insegnato la via della magia, dato un luogo sicuro dove accrescere le sue conoscenze, dove esprimersi in libertà… ma avrebbe potuto esserci molto altro. Avrebbero potuto esserci viaggi e balli, e uno stuolo di giovanotti pronti a chiedere la sua mano…
«Forse Macon non ha tutti i torti.»
Lucia scostò lo sguardo dal suo riflesso e lo spostò su di lui. «Che intendi dire?»
«C’è tanto là fuori che vale la pena vedere» disse Solomon, rivolgendole un mezzo sorriso. «Potresti prenderti una vacanza una volta tanto, visitare qualche città. Parigi ti piacerebbe.»
Lucia lo fissò per un momento, in silenzio. Poi, tornò sui suoi passi e ridusse la distanza che li separava, lentamente. «Non c’è altro posto al mondo in cui vorrei essere.»
«Lo dici perché ne hai visti pochi.»
«Lo dico perché è ciò che penso» disse lei con forza, guardandolo dritto negli occhi, nonostante i diversi centimetri di statura in meno. «E penso anche un’altra cosa.»
Lo sguardo di lui indugiò sulla sua bocca. «Cosa?»
Erano distanti appena lo spazio di un respiro.
«Che se vuole sul serio che badi a quell’orco, signor Blake, dovrà impegnarsi di più per convincermi.»
Solomon la strinse a sé e la catturò in un lungo, avido bacio. La ragazza si alzò in punta di piedi, gli chiuse le braccia intorno al collo, attirandolo più vicino, e lui sentì il corpo di lei fremere e sciogliersi a contatto col suo. Si spostarono negli appartamenti privati, spogliandosi con urgenza crescente; Solomon le lasciò indosso soltanto lo zaffiro, una fulgida fiamma azzurra sulla sua pelle color latte.
 
 
La stanza era buia e calda, per via del piacere che vi si era consumato.
Insonnolita, Lucia si girò tra le fresche lenzuola di seta nera e cercò a tentoni il corpo del maestro, senza tuttavia stupirsi quando non lo trovò. La sua parte del letto si era raffreddata, segno che l’aveva lasciata da tempo.
Come al solito.
La ragazza scivolò fuori dalle lenzuola coperta solo dalla sua cascata di capelli rossi, e sollevò una mano per comandare all’armadio di aprirsi; fece scorrere le dita tra le molte vestaglie da uomo appese e ne scelse una blu notte, di velluto, che indossò mentre lasciava la stanza a piedi nudi.
Vagò per sale e corridoi deserti, tra sagome spettrali di statue e armature d’epoca, alla luce bluastra della luna che filtrava dalle finestre. Un brivido la attraversò e strinse a sé la vestaglia, meravigliosamente calda e soffice a contatto con la pelle. E impregnata del suo profumo, un abbraccio deciso e misterioso, che sapeva di cuoio, legno e aghi di pino.
I piedi la condussero automaticamente in biblioteca, perché ormai aveva imparato le sue abitudini. Infatti, lo trovò seduto alla scrivania, vestito e pronto a ripartire per Arcanta, mentre sfogliava un grosso tomo rivestito di gemme ai bagliori del fuoco che crepitava nel camino.
Sentendola entrare, lui alzò gli occhi dalle pagine per un breve istante, ma sufficiente per percorrerla da cima a fondo. «É una delle mie vestaglie.»
Lei sorrise e accarezzò Wiglaf, che sonnecchiava sul suo trespolo con la testa sotto l’ala: sapeva quanto lo infastidisse che qualcun altro indossasse i suoi vestiti, ma era sicura che la visione d’insieme fosse gradevole. «Può darsi.»
Solomon tornò a rivolgere la sua attenzione al libro.
Lucia gli si avvicinò, incuriosita e sbirciò oltre la sua spalla. «È proprio lui? Quello che stavi cercando? É il Libro Nero di Farabi?»
Solomon non rispose. Chiuse la preziosa copertina con un sospiro e si appoggiò contro lo schienale della poltrona. E poi, gettò con noncuranza il tomo nel camino.
La ragazza si lasciò sfuggire un’esalazione di sorpresa, mentre fissava le pagine arricciarsi e venire divorate rapidamente dalle fiamme. «Sei impazzito!? Perché l’hai fatto?»
«Perché quello non è il Libro Nero di Farabi» rispose Solomon, con voce piatta. «É un falso.»
Sbalordita, Lucia distolse gli occhi dal fuoco. «Ne sei proprio sicuro?»
«Una pallida imitazione, realizzata senza neanche troppo impegno» confermò Solomon. «La pergamena risale appena al Tredicesimo secolo, ed è scritto in avestico, mentre è risaputo che Farabi parlasse un dialetto persiano ben più antico. Quanto al contenuto ...ridicole filastrocche, roba da esoteristi di bassa lega.»
«Non sembri sorpreso» disse Lucia. «Lo sapevi già, non è così?»
«Lo sospettavo. Ma avevo bisogno di averne conferma.»
Lucia sospirò e incrociò le braccia. «Insomma, si è rivelato tutto inutile: se ignoriamo ancora dove si trova il Codice, siamo al punto di partenza.» 
«Oh, ma io so perfettamente dove si trova» replicò Solomon, i gomiti sui braccioli della poltrona e le dita congiunte. «É ad Arcanta.»
Lei gli indirizzò uno sguardo confuso. «Non ha senso: perché i Decani avrebbero mandato Boris Volkov a sbarazzarsi di qualcosa che hanno sempre posseduto?»
«Pura propaganda» rispose lui. «Volevano assicurarsi che tutti sapessero che il Codice è andato distrutto. Sia dentro che fuori le mura della Città.»
«Continuo a non capire.»
Solomon si alzò e prese a percorrere la biblioteca, avanti e indietro. «Il Codice Oscuro rappresenta un’arma a doppio taglio per i Decani: è la prova che uno dei Fondatori, il buon Farabi, si fosse divertito a pasticciare con le Arti Proibite. E contemporaneamente è uno dei manufatti magici più antichi, potenti e pericolosi al mondo.»
«Questo lo so» replicò Lucia, accigliata. «Ma se era importante tenerlo nascosto, perché all’improvviso si sono impegnati tanto per fingerne la distruzione? E in modo così eclatante!»
«Per dissuadere chiunque là fuori lo stia ancora cercando.»
Si fermò improvvisamente, le mani intrecciate dietro la schiena e lo sguardo fisso nelle fiamme del focolare. «C’è una profezia.»
Lucia corrugò la fronte. «Credevo che le profezie fossero roba da ciarlatani, o storie per bambini.»
«In tutte le storie c’è un fondo di verità. A San Pietroburgo, gli Adoratori del Vuoto sono convinti che sia in arrivo un messia, qualcuno in grado di riportare la Grande Magia nel mondo. In altre parole: un Plasmavuoto.»
L’espressione di Lucia era di puro scetticismo. «Assurdo, non si sente più parlare di Plasmavuoto da almeno mille anni.»
«Dall’epoca della Fondazione di Arcanta» precisò Solomon. «Nel Vecchio Mondo, i Plasmavuoto potevano scatenare forze che i maghi moderni possono solo sognarsi, forze che minerebbero la credibilità dei Decani e il controllo che esercitano sulla nostra razza. Per questo hanno fatto in modo che si estinguessero.»
«Ma se trovassi il modo di ricrearne uno…» 
«Arcanta sarebbe nostra. E con essa il mondo intero.»
Solomon riprese a camminare e raggiunse un tavolino su cui era adagiata un’antica scacchiera in alabastro.
«Però prima» fece Lucia, fissandolo attentamente. «Dovresti impossessarti del vero Codice. E questo è impossibile.»
Solomon sorrise, mentre afferrava dalla scacchiera la Torre Bianca e se la rigirava tra le dita. «Adoro quella parola: nella mia testa suona sempre come una sfida.»
«Questo colpo è troppo audace persino per te, Solomon» protestò Lucia, con ansia. «Nessun mago è mai riuscito a portare via qualcosa dalla Biblioteca della Cittadella senza autorizzazione!» 
«Io non sono come gli altri maghi.»
«Ma non sei nemmeno un dio.»
Lui si volse a guardarla, stagliato contro le braci ardenti, con una luce scaltra che brillava nei suoi occhi azzurri. «Non ancora.»
  
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