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Autore: Sorbello da Goito    02/04/2023    0 recensioni
Santiago Bertischi, nato orfano e cresciuto moderno ignavo, dovrà ricongiugere pezzi della sua identità quando la matrigna, che soffre di demenza senile, gli consegnerà una misteriosa lista.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Ognuno ha delle proprie incognite da rischiarare, Santiago vi potrà dare una sua versione dei fatti, ma sarete voi a scoprirne una tutta vostra”. Introduzione Mia madre con il suo sguardo glaciale e imperturbabile, ma non assente- l’Alzheimer non aveva ancora prosciugato tutta la sua memoria, ma ci mancava poco- aveva la faccia girata di lato. Lei, capelli grigi raccolti in una ponderata crocchia, occhi azzurro smeraldo più vicino al blu oltremare e un altezzoso naso all’insù, che aveva lo sguardo perso nel cupo giardino, coronato da aiuole lasciate crescere selvaggiamente, della casa di riposo “San Isidoro”, non era mia madre. Io, naturalmente, la trattavo come tale, dedicandole tanto affetto. Da lontano vidi l’infermiere che si stava appropinquando dall’inizio del corridoio, poiché l’orario di visita era terminato. Avevo se non due minuti per recitare le solite frasi a filo di voce, che secondo me era importante ripetergliele ogni domenica affinché queste, rimanendole nella mente, potessero risvegliarla da quel coma lucido. Le accarezzai le mani e con un dolce tono le assicurai. - “Matrigna mia, sai che ti voglio bene, non scordarlo mai, ci vediamo prossima domenica.”- A volte avevo la sensazione di parlare con una lapide, ma speravo in fondo che lei un giorno o un altro potesse rispondere al mio sguardo. Ma lei all’improvviso… afferrò la mia mano con una forza che non gli apparteneva o quanto meno da sempre aveva celato, e guardandomi dritto negli occhi mi diede un foglietto, che con la coda dell’occhio appresi che vi erano scritte delle parole e mi comandò con voce autoritaria di… - “Cerca il seme.”- Dopodiché lasciò la mia presa e continuò a fissare la finestra, finché non venne l’infermiere a condurla nella sua stanza. Lei con il suo passo claudicante, io con le mie incertezze. Capitolo 1= il misterioso percorso. Mentre mi avviavo verso l’uscita, scompigliandomi i capelli ricci plumbei, tanto confuso per il comportamento, tanto assurdo quanto imprevedibile, della mia matrigna, studiavo il foglietto. Vi erano scritti quattro nomi. Sembrava una di quelle scalette che adoperavo nei miei studi collegiali, per riassumere argomenti di verifica come le due fasi di duplicazione del DNA o la formazione del tema del supino. - Il posto dove batte sempre mezzanotte - Il monte Sion - Il falso profeta - Sodoma - Il sangue Non riuscivo a collegare questi nomi correlati sicuramente a dei luoghi a nessuna conoscenza di cui io mi vantassi di possedere, ma l’intuito mio, tanto irruente, temerario e formidabile consigliere, mi suggeriva, se non mi ammoniva, che quelli potevano rappresentare un percorso che la mia matrigna voleva che intraprendessi, ma la vera domanda che mi stavo ponendo in quell’esatto momento, con la mia mente proiettata ad analizzare diversi risvolti possibili della faccenda, era “qual è il vero scopo di questo probabile percorso?” al quale a questa domanda si subordinava una risposta “cerca il seme” e subito la coscienza, mio ammiraglio, controbatteva con un’altra domanda “cosa vuole dire “cerca il seme?”. Ma in quel momento non avevo né la possibilità né la pazienza di attaccare battaglia con il mio inconscio e quindi di cominciare a cercare, poiché una forza diabolica si era impadronita del mio stomaco… la fame. Decisi di ritornare a casa. Entrai in macchina. Una multipla con la carrozzeria esterna color deserto e il cofano color bianco latte. Mi vergognavo di guidarla, perché era scomoda e soprattutto perché non si addiceva alla mia idea di vettura; ossia una che trasmettesse una predominante sensazione di virilità e di importanza a livello sociale. Rimpiangevo, per questo motivo, di aver dovuto concedere il permesso di guida alla mia fidanzata della mia BMW, perché anche lei, per ottenere una considerazione e una probabile promozione del suo progetto di marketing, doveva conquistare le aspettative dei componenti della riunione e soprattutto del suo capo grazie a questo piccolo, ma significativo stratagemma di partenza. Tolsi il freno a mano dopo aver inserito le chiavi e avendole girate e la stessa cosa con lo sterzo, feci la retromarcia e, una volta raddrizzata la macchina, mi avviai verso casa allietato da un valzer, propagato dalla radio, che a furia di immedesimarmi nei quartetti di archi violino e chissà anche nel violinista, mi aiutava a focalizzarmi su quell’evento di beneficenza, per gli orfani, che io stesso stavo organizzando. La mia umile dimora o , come la chiamavo io durante i miei sogni di gloria, “la mia piccola cattedrale” sorgeva vicino l’antico quartiere che si raccoglieva presso la Porta Beatrice o conosciuta nella sua versione più fedele come “Pusterla Beatrice” , una delle porte minori poste sul tracciato medievale delle mura di Milano. Essa doveva apparire, antecedentemente al glorioso e salvifico restauro di Ludovico il Moro e la demolizione del 1860, come un arco a sesto acuto leggermente riabbassato. Poco più in là vi era la mia umile dimora. Infilai nella serratura, sovrastata dal gande portone rinforzato e posta all’interno di un picchiotto, che rappresentava un centauro, la chiave. Si accedeva poi a un non tanto spazioso cortile, le cui mattonelle in pietra levigata traboccavano di erba fresca dove al centro vi era il pozzo. Le sue estremità erano sormontate da un’asta curva di ferro dove era appeso con un miracoloso equilibrio un secchio di legno. Io con il mio solito passo un po’ dubbioso e lento e con la tendenza di guardare il vuoto, salii le scale ritrovandomi alla vera e propria porta per accedere alla mia “piccola cattedrale”, una masseria totalmente ammodernata seguendo fedelmente lo stile rustico. Impugnai un’altra chiave sempre dello stesso mazzo, inserendola nella serratura ed entrai. “Mon amour, sono ritornato appena adesso dall’ospedale psichiatrico. Non sai cosa mi è successo, ora ti racconto…”- Non sentendo nessuna controbattuta, il che era strano visto che la mia fidanzata doveva essere già ritornata, dissi. . “Ci sei?”- Non ascoltando nessuna risposta mi stavo convincendo che non ci fosse nessuno in casa… - “Oui mon amour, ritornaci per favore e fatti curare.”- Era una voce maschile che non riconobbi all’istante e che si spacciava, chiaramente, per femminile. Mi stavo allarmando se non che dalla parete portante, accanto alla cucina, comparve un volto, emanante una certa luminosità dalle labbra incurvate in un sorriso e dagli occhi azzurri, tinti di sfumature verdi evidenziati, ancora di più dai capelli ricci tirati indietro e raccolti da un elastico; e poi tutto il corpo molto slanciato. Egli vestiva una camicia bianca e dei pantaloni di seta e domandò. - “Mon amour non mi riconosci Santiago? Sono io Armando, il tuo vecchio amico del collegio.” - A poco a poco i pezzi deformati dei miei ricordi si intrecciavano e cominciavano a riaffiorare, straripando, addirittura, dagli argini dell’oblio come quando per vendicarci della punizione, assegnata dal sorvegliante per altri nostri misfatti, avevamo intasato il rubinetto del lavandino del bagno del direttore ed egli, frequentatore assiduo, soprattutto dopo pasti sempre abbondanti, lo aveva sgridato malamente e perfino minacciato di licenziarlo, oppure quando volevamo “prendere in prestito” una bottiglia di spumante e berla con tutti i nostri compagni, ma quando mancava solo un sorso per finirla completamente, il sorvegliante, che aveva associato la mancanza della bottiglia nella dispensa, inevitabilmente, a noi, spalancò la porta cogliendoci in flagrante e per ciò convenne, brillantemente, nell’ informare, di persona, il direttore, però, mentre lui avanzava con lo sguardo minatorio, la bottiglia scivolò dal tavolo e si frantumò in mille pezzi, allora lui, intuendo che non poteva svegliare il sommo direttore a quell’ora, anche perché abitava fuori città, optò per chiudere un occhio anche perché il corpo del reato, effettivamente, non c’era più. Invece, in quel momento di autoindotta trance, un ricordo, immensamente proibito, mi trascinò. Erano da poco passata la mezzanotte. Noi, perché il sorvegliante, che potrebbe facilmente essere posto in qualche girone dell’inferno a controllare la gente perduta, alla fine aveva informato riguardo tutto il direttore, sebbene senza la veridicità della prova e per punizione dovevamo pulire la lavanderia che, specialmente in un punto, si poteva ammirare la colonia di muschio formatosi ai tempi dell’apertura del collegio. Tanto per render difficile il carico di sopportazione si era diffusa la storia che proprio lì si fosse suicidata una novizia. Io, proprio a causa di questa storia che seppur inventata di sana pianta e probabilmente arricchita con qualche particolare discutibilmente veritiero, mi incupivo così tanto da costruirmi infondate paranoie e anacronistiche superstizioni, ma Armando mi tranquillizzò dicendomi con parole confortanti di non crederci. Nei suoi occhi intravidi un indomabile coraggio e una insaziabile sete di avventura che tradussi in… - “Vuoi andare a vedere la città?”- Anche nelle mie iridi, nelle mie sclere e nelle mie pupille ardeva una voglia famelica di conoscere il “fuori”, ma ero combattuto da mille insicurezze. - “E se ci scoprissero?”- - - “Non succederà, perché prima che diranno “a”, saremo già ritornati.”- - “D’accoro, e come faremo a scendere da questa torre, dove si è suicidata…”- - “Annoderemo le biancherie non so panni, vestiti e anche perché no le camice del direttore”- ridemmo- “per creare una resistente corda e ci caleremo giù.” - “E se non è abbastanza resistente? E se cadessimo e ci facessimo male? E se il tempo non ci bastasse?”- Lui mi indusse al silenzio, chiudendo gli occhi e portando il dito medio verso le mie labbra. - “C’è una sola domanda che ti devi fare…”- sussurrava al mio orecchio nel mentre- “ce la farò a fare tutto questo? E puoi avere pure la risposta”- spalancò le braccia- “Io ce la farò! Quindi adesso aiutami a trovare il necessario per fare questa corda.”- Assolvendo le mie ignobili insicurezze cercai tutto l’utile per il nostro ambito progetto, e dopo una mezz’ora elaborammo una resistente quanto flessibile corda e la buttammo dalla piccola torre. Non ci preoccupammo che qualcuno ci potesse vedere, perché la struttura sorgeva di fronte al cortile, quasi sempre all’ombra. Ci aggrappammo e piano piano, con il suggerimento di Armando che fischiava tra le orecchie, ossia di non guardare in basso, scendemmo e, scavalcando il muro che divideva il giardino del collegio dalla strada, ci dirigemmo verso il centro storico della città. Esso non stava così distante dalla nostra meta, benché sorgesse nel quartiere più moderno e industrializzato, costruito dopo il terremoto del 1925. Impiegammo circa un’ora ad orientarci evitando vicoli ciechi, dimenticate pure dal tempo, e a percorrere, ad ampie falcate, i marciapiedi sporchi di polvere e di alienante vita quotidiana , le scalinate mielate, i balconi sgretolati e decadenti e gli archi che collegano corridoi come ragnatele. Finalmente raggiungemmo la piazza centrale dominata dalla cattedrale della Santa reliquia di nostro Signore. La leggenda voleva che in quella chiesa romanica tra le sue facciate a capanna e le navate a croce latina vi fosse custodito il molare di Cristo, prelevato dai templari dalla santa terra. Per molti anni si cercò di dimostrare la sua veridicità o la sua inconsistenza, ma senza successo dato ancora di più dalla incontrovertibile manipolazione dei fatti e omertà. Seduti su una panchina, la cui vernice, così tanta sbiadita e interrotta dalle buche di termiti, sembrava più una tela messa sul volto di un defunto. Le nostre parole, ritmate dal rintocco delle campane a ogni ora, si conoscevano nei loro più lussuriosi desideri e nelle loro più bizzarre ambizioni. Solo uno scambio di battute del nostro dialogo si mantenne più integro del legno della stessa panchina. - “Per caso se venissi rapito in questo momento, tu cosa faresti? Inseguiresti il mio rapitore o cercheresti aiuto?”- Mi diede una risposta netta. - “Sicuramente non ti abbandonerei.”- La mia mente dall’estasi in cui si era tuffata ritornò in un baleno. - “Allora, non vieni a salutarmi?”- disse aprendo le braccia in un saluto accogliente. Ripreso dalla sorpresa gli venni incontro con un sorriso a 32 denti e ci abbracciamo. - “Ma quanto tempo , vecchio amico, che fine hai fatto? Dove sei stato e che hai fatto e che ci fai qui? Diamine, sono davvero contento di vederti!”- - “Ei calmo, calmo, ti ho lasciato insicuro e ti ho trovato insicuro.”- ridemmo e si divincolò dall’abbraccio- “dai ci sarà tanto tempo per rispondere alle tue domande. Mi sono preso la libertà di cucinare i pizzoccheri…”- Girò lo sguardo per puntarlo nella teglia dove stavano cuocendo assieme a patate: verze, formaggio e pepe. - -“Il mio piatto preferito! Te lo ricordi ancora!”- risposi entusiasmante. - -“Certo, ti ricordi quando pregavamo la cuoca di cucinarla?”- - “Ovviamente! Dai andiamo a mangiare.”- lo invitai a sedersi a tavola. Ma prima che si potesse sedere, Armando notò il foglietto dove vi erano scritte le quattro “tappe”. - - “Cos’è questo?”- - -“Ah un foglietto che la mia matrigna delirante mi ha dato prima che finisse la visita”- spiegai , mentre disponevo i piatti e i bicchieri perpendicolarmente. Lui lo studiò attentamente e poi con mio grande stupore rispose. -“Forse so cosa significa “il posto dove batte sempre la mezzanotte”. Capitolo 2= Il posto dove batte sempre la mezzanotte. -“Davvero lo sai?”- Sembravo un imputato che aspettava il verdetto della giuria. -“Cioè più o meno”- -“In che senso più o meno?”- -“Nel senso che ho una mezza idea, molto mezza però…”- -“Cioè?”- -“Cioè…””- si grattò la fronte -“la soffitta.”- aggiunse. - “La soffitta? Cioè questa soffitta?”- Lui annuì, iniziando a punzecchiare con la forchetta i pizzoccheri e a segnare con un coltello le varie porzioni che sarebbero andate ai corrispettivi piatti e tendendo, in un precario equilibrio, la bottiglia di plastico con un dito. - “È vero!”- esclamai, alzandomi in piedi. Si spaventò. -“Dai, ancora che pensi a quel foglietto, pensa piuttosto a mangiare!”- -“Si forse hai ragione.”- Mi sedei, impugnando, in un gesto teatrale, coltello e forchetta come se fossero lancia e scudo, e iniziai a duellare contro il mio stomaco in una cruciale battaglia all’ultima forchettata. Ma nel frattempo, la mia testa era come un computer, che selezionava mille pagine di ricerca e, in questo caso, le miriadi domande che ronzavano nella mia anticamera peggio di uno sciame di api. Finalmente dopo 40’ minuti, con due birre moretti, appena uscite dal frigo, lui cominciò a parlare. -“Dai su spara le domande che vuoi farmi.”- -“Altroché, come hai fatto a entrare in casa con tutti gli antifurti possibili e immaginari?”- -“Senti che arroganza.”- ridacchiò lui, bevendo un sorso di birra, io feci lo stesso per non controbattere –“Ti ricordi che ben 19 anni fa dopo che tu acquistassi casa, quando trovasti lavoro come organizzatore di feste, mi desti una copia di chiavi in segno di fedeltà? Ecco questo prima che me ne andassi”- si schiarì la voce- “per motivi di lavoro.”- - “E a proposito di cosa questi “motivi di lavoro”?”- “Voglio essere totalmente sincero con te, come lo sono sempre stato, ma quando uscii dal collegio ero senza soldi anche tu lo eri, mi ricordo”- io annuii e con un accenno e un mezzo sorriso lo pregai di continuare- “ebbene… sono qui per restituirteli.”- -“Davvero? Questo significa che sei riuscito ad aprire la tua impresa delle sculture di legno?”- -“Si”- Il suo volto assunse un vivace colorito. -“Ecco”- fece scivolare la mano nella tasca per cercare qualcosa -“i biglietti della mia mostra, sarà questo mercoledì 11 Aprile esattamente tra sette giorni.”- Me li consegnò assieme a un assegno di 200 euro. - “E grazie ancora per avermi prestato i soldi come hai visto, non ti ho deluso.”- - “Anche se hai impiegato ben 9 anni.”- Finimmo di bere. Io stavo con una mano a sorreggere la birra, quasi come se fosse chissà quale antica coppa antica recuperata da qualche avventuriero, e con l’altra a giocherellare con l’orologio da polso che si era un po’ sfilato proprio quando ci demmo le strette di mano, e lui invece stava rigirando la birra come se stesse contemplando un quadro del pittore flammingo Jan Van Eyck . Avevo in serbo un’ultima domanda. - “Scusami.”- - “Dimmi.”- - “Ma perché hai avuto questa pensata della soffitta? Questo mi sfugge.”- Lui abbassò lo sguardo e sorrise, accarezzandosi i lunghi capelli ricci raccolti. - “Quando compimmo 16 anni e tu, per questo motivo, dovevi andartene per l’adozione, spaccammo a metà il legno…”- - “E tu mi dissi “se il destino vorrà riunirci, allora questi due pezzi si attaccheranno.”- completai la frase. - “Si uniranno, precisamente.”- Ci fu una breve pausa, in cui tutte due buttammo le bottiglie di birra nel vetro. - “Se mai ci fossimo rivisti, io ti avrei dato il pezzo del legno mancante e infatti oggi c’è l’occasione, solo che stando lì ad aspettarti non avevo nulla da fare e per questo mi sono preso la libertà di curiosare nella soffitta, dato che non lo facevo da secoli… però ho trovato la lampadina fulminata e mi sono arreso, ma in compenso ho avuto la geniale idea di cucinare i pizzoccheri, quindi alla fine non è andata così male.”- - “Ok, ora tutto chiaro… andiamo adesso?”- proposi. - “Le ho sempre trovate affascinanti le soffitte.”- sorrise. - -“Di più le dispense.”- dissi scherzando. - -“Giusto… ma hai una lampadina nuova?”- - “Purtroppo la devo comprare, dato che non la cambio da anni.”- - “Va bene utilizziamo le torce dei telefoni.”- Così salimmo le scale, che si trovavano tra la cucina e il soggiorno, decorate con mattonelle della prestigiosa ceramica di Caltagirone, fino ad arrivare alla stanza da letto, arredata con un materasso matrimoniale, una televisione da 45 pollici sopra un mobile di mogano, accanto al quale vi era un tappeto che anche esso poteva fingersi da materasso per quanto spazioso e pulito fosse e infine una finestra che si affacciava al cavedio. La superammo oltrepassando anche la stanza degli ospiti che speravo ardentemente che un giorno sarebbe appartenuta ai miei figli e anche essa una piccola cattedrale, seguendo alla lettera il mio motto “o tutto un vanto o niente”, e facendo scorrere le mani sulla ringhiera dell’ultima rampa di scale arrivammo alla soffitta, abbastanza grande a costruirvi un monolocale. Era vero. La lampadina si era fulminata. “Dovrei comprare una dimmerabile la prossima volta”. Essa era perfino avvolta da delle ragnatele dove vi era un piccolo ragno che stava tessendo nuovi filamenti. Tante domande, in quell’esatto momento, annidavano nei più disperati angoli della mia coscienza, ma pressoché uno primeggiava su tutti, cioè “come faceva la mia matrigna a sapere che nella mia soffitta la lampadina fosse fulminata?”. E poi facevano capolino altri pensieri “era per caso venuta di recente? Forse l’unica volta che l’avevo invitata a pranzo? Ma se non le avevo mai staccato gli occhi di dosso?”, e infine “cosa custodisce la soffitta di così tanto importante?”. Armando con una mano guidava il fascio di luce del telefono, mentre con l’altra spingeva delicatamente la porta, e io lo imitai. Vi era una marea di scatoloni accatastati ognuno sopra l’altro, quasi a toccare il soffitto che il loro sfiorare il tetto mi ricordava tanto il mancato tocco tra Dio e Adamo nella “Creazione di Adamo” di Michelangelo Buonarroti. -“Cosa stiamo cercando esattamente?”- mi domandò Armando. - “Un indizio, penso.”- suggerii. -“Beh… sicuramente lo troveremo, dobbiamo essere molto scrupolosi.”- Armando inarcava la schiena, assomigliante a uno sperone che si abbatte sul mare. Era questo ciò che apprezzavo molto di lui. Tutto il suo mondo, che girava in senso frenetico e imprevedibile, non si plasmava mai su un piano premeditato né tantomeno, in caso di imprevisti, si faceva assalire da paranoie. Lui sapeva seguire nel più virtuoso delle maniere l’istinto ma allo stesso tempo aveva il buon senso di accostarsene giudicando in modo oggettivo tutte le convenienze. Egli era l’ ”oltreuomo” che nasceva dalle ceneri della noia di Emma di Flaubert. - “L’unico segno che sto vedendo è l’infinita polvere… dai su andiamocene e chiediamo spiegazioni alla matrigna.”- Ma mentre Armando stava facendo scivolare scatoli su scatoli con mia grande sorpresa trovò una linea rossa… -“Ma che cos’è?”- chiesi ad Armando che stava sempre di più assumendo uno sguardo indagatore chino, come era, su essa. Indicava chiaramente una via. - “Non so, scopriamolo.”- disse, sorridendomi radioso. Nei suoi occhi, la brama della conoscenza. Via via che Armando scrollava scatoli da altri, sgomberando il passaggio, percorrevamo la linea a ogni centimetro illuminato dalla torcia e alla fine della soffitta trovammo qualcosa di sconcertante. Capitolo 3= la vecchia fotografia. Il raggio di luce della torcia, che timidamente si svezzava dalla cortina di buio della soffitta, colorava di un giallo opaco una fotografia. Intorno ad essa gli scatoloni sembravano macerie di una città dimenticata persino da Dio mentre essa rimaneva ordinata e spolverata come se fosse stata adagiata recentemente. La presi per mano e subito rivelò il suo contenuto, così immensurabilmente traboccante di caos che avrebbe destabilizzato il più sensibile e apatico degli psicologi… come poteva trovarsi la matrigna giovane di vent’anni fotografata con un gruppo di suore e un prete e vestita essa stessa da novizia? Il parroco, dalla statura alta, dalla mascella pronunciata, dalla fronte bitorzoluta, nascondeva la sua calvizie con una berretta e i suoi occhi grandi e vicini, tra di loro, erano divisi da un naso camuso. Studiando meglio la foto, le monache indossavano un copricapo a larghe tese. -“Armando guarda!”- Lui che stava ancora sollevando gli scatoloni e li scuoteva, ignaro di aver già trovato l’oggetto del desiderio, si girò di scatto ed emise un grido acuto che avrebbe fatto ridere persino un sasso. -“Minchia!”- esclamò. Poi guardò meglio, avvicinando la faccia. - “Ma cosa ci fa la tua matrigna in mezzo a delle suore con un prete con la faccia porcina?”- - -“Mi sto ponendo la stessa domanda.”- La sua espressione, dapprima così tanto vivace e colorate di fame, si ostruiva di punti interrogativi, accarezzandosi la barba. Poi disse. - “Cosa sai della tua matrigna?”- - “Molto poco.”- - “Come niente?”- - “Dai lo sai che con lei avevo avuto un rapporto quasi inesistente... mi nutriva, non mi faceva mai mancare un vestito, non mi faceva mancare nulla per la scuola… e basta, zero affetto, solo una fredda attenzione… direi… e una perseverante trascuratezza emotiva… se io avessi voluto fare la qualunque cosa, la facevo senza dare spiegazione a nessuno… penso che lei mi considerasse meno di un morto…”- Armando mi mise una mano sulla spalla. Sapeva che ero davvero sensibile, parlando di ciò. Eravamo immersi fino all’orlo nelle nostre trame di riflessione quando suonò il citofono. -“La mia fidanzata Liviana deve essere.”- Detto ciò, rifacemmo il percorso a ritroso raggiungendo l’uscita della soffitta dopo che io riposi la fotografia nella tasca e ci affrettammo a scendere la scalinata e ad aprire. Sulla soglia vidi la promessa della mia vita. Era davvero splendida. Il suo viso a diamante avrebbe fatto cadere in estasi lo stesso Lidia. Le sue guance, imperlate dalle lentiggini che coronavano le labbra carnose, valorizzate tantissimo dal rossetto color Bordeaux, erano tonde con dei lievi rossori intessuti vicino al naso greco, che la facevano assomigliare a una bambola di porcellana. Le sopracciglia esili mettevano in risalto gli occhi verdi con sfumature castane che quando venivano bagnati dal sole si dipingevano di un rosso acceso come un lago alpino al tramonto. Adoravo osservare i suoi capelli castani ramati ondulati, scomposti nei colori come una chiara alba. Il collo da cigno aveva solo una piccola imperfezione, un piccolo neo posto sopra la laringe, ma che lo consideravo un frammento di cielo. Il suo seno a campana tanto voluminoso nella parte inferiore con un piccolo spazio al centro era reso prodigiosamente attraente dal reggiseno a balconcino senza ferretto. La considerano un vaso fragilissimo da contemplare, soltanto quello. L’amavo come la prima volta quando la intravidi tra i cocci di folla in una discoteca di Varese. Armando la salutò e con la giustificazione di dover andare in bottega per ultimare delle statue di legno, si congedò. Io le diedi un bacio nella guancia ma lei allontanò il viso, io perplesso le domandai. -“ È successo qualcosa in ufficio?”- -“No, no semplice stanchezza vorrei rilassarmi un po’, facciamo una passeggiata al parchetto a due passi da casa?”- -“Va bene.”- Dopo di che sempre più titubante la vidi. Gettò il cappotto su una poltrona e crollò sul divano e pensai “che l’incontro con il capo fosse stato così tanto pesante?”- Capitolo 4= l’altra faccia della medaglia. Dormì per due ore. In quelle due ore le accarezzai i piedi e le massaggiai le spalle come piaceva a lei quando si appisolava e io, duraturo sonnambulo delle ore piccole, solevo svolgere questo compito per accompagnarle il sonno. Non c’era paradiso più bello che non ammirarla. Aprì lentamente le belle palpebre. Io le sorrisi e lei ricambiò solo accennando a un timido movimento delle labbra. In seguito sollevò il dorso, si mise in posizione seduta, si alzò e andò in cucina a sgranocchiare qualcosa. Mi alzai pure io e mi spostai verso il piccolo armadio dove vi erano le scarpe di taglia 47 che indossavo per passeggiare. Sentii, distintamente, il “mi metto la tuta e andiamo”. Infatti, dopo una decina di minuti, la sentii scendere le scale. - “Dopo di te.”- Ancora il sorriso timido… che cosa voleva dire? Altri misteri… Però… uscivo pazzo per le sue curve rotondi, perfettamente a mezzaluna così’ tanto provocanti da istigare parecchi sguardi… i suoi fianchi… degli affluenti di fiumi che se li percorrevi, ti incatenavano nel Tartaro del piacere. - “La palestra del lunedì e del venerdì sta dando i suoi frutti.”- dissi componendo una espressione di approvazione. Io non ero decisamente un’amante della palestra, preferivo, solitamente, fare lunghe passeggiate peripatetiche, ma, se avessi dovuto, proprio, andarci, non sarei mai riuscito a stare al passo con la sua ambizione. -“ Si nota?”- -“Altroché.”- Finalmente un sorriso a 32 denti. Lei attraversò il porticato, scese le scale e andò al portone, io impiegai una trentina di secondi a raggiungerla, chiudendo a chiave la porta. Percorremmo le strisce pedonali, mano nella mano, oltre il quale ci aspettava un rettilineo di marciapiede, la quale la parte opposta conduceva a Pusterla Beatrice, e invece di continuare, girammo a sinistra, profilandosi, in lontananza, un quadrato di alberi, pini, abeti con viottoli e un piccolo stagno. Io composi una espressione di autentico straniamento e lei notandomi mi informò. -“Tranquillo, un piccolo cambio di programma.”- Esso era molto più grande rispetto a quello tradizionale con una statua equestre di Garibaldi, che sollevava un fucile a pietra inglese, trasmettendo un sentimento di trasgressiva audacia. Liviana giocherellava con le ciocche di capelli e, con lo sguardo perso nel vuoto tanto simile a quello della matrigna, stava con la gamba appoggiata sull’altra mentre io, badando poco al suo comportamento misterioso, presi la foto dalla tasca e la studiai con più criterio, constatando con sorpresa che, girandolo, vi era incisa a caratteri rossi una frase latina “ubi maior minor cessat”. Aveva un non so di che familiare, ma naturalmente non mi ricordavo più cosa potesse significare. Era da tempo immemorabile che non ripassavo il latino. Così premendo il tasto di accensione del telefono, prima di poter cercare la traduzione su Internet, mi interfacciai con le comunicazioni della segretaria… “si ricordi che alle 9 di domani mattina, avrà un meeting con il finanziere, alle 11.30 dovrà recarsi in via Pietro Garbini per l’appuntamento con il direttore d’orchestra Petrofini Massimo, infine verso le 17 dovrà confermare la decisione della compagnia teatrale “Aletheia”, per oggi è tutto”. Ma per ora la ignorai e inquadrai la barra di ricerca di Google. “Dove vi è il maggiore, il minore decade”. Riflettei molto e scavando nella memoria ricordai dell’unica volta in cui lei mi rimboccò le coperte. La mia matrigna spense la luce della camera. Nel torpore del buio, mi stavo sistemando, nella mia solita posizione sul fianco per prendere subito sonno. Mi addormentai con il suo completo di camicia e gonna nera nei miei occhi sempre fedele al suo minuto corpo, il suo volto di mille carestie, il grigio che asfissiava i suoi capelli e che non le stava di certo, la sua espressione glaciale e severa. Ruotava sempre l’interruttore della luce. Una sera dopo l’altra. Dopo un’ora, venni disturbato e svegliato totalmente da ciò che dapprima mi sembrava un lamento e che, dal modo in cui era pronunciata, si avvicinava in un modo del tutto verosimile a una preghiera… pacata, persistente, costante; ma cercando di sforzarmi meglio non stava orando ma ripeteva con la stessa puntualità di un orologio “Ubi maior minor cessat”. Si interrompeva recitando una Ave Maria e poi la frase, un Padre Nostro e poi la frase, come se si stesse flagellando fino all’esaurimento e la sentivo singhiozzare, ma se io l’avessi fissata e lei se ne fosse accorta, allora avrebbe agito come se non fosse successo nulla. Quel ricordo, tanto tumulato dal passato, tornava altero tra i miei occhi. La traduzione parlava chiaro… un “maggiore” che subentrava a un “minore”, ma in che rapporto intertestuale erano inseriti i due? E il verbo “cessa” nel quadro del periodo, qual ruoli e quali significati assumeva nella storia della mia matrigna? Non sapevo che strada percorrere né tantomeno sapevo a cosa volesse alludere il “Monte Sion”; perciò provai ad analizzare con più zelo il profondo significato delle stesse parole. “Quando vi è il maggiore, il minore cessa”. Il termine comparativo “maggiore”, seguito dall’articolo maschile “il” farebbe pensare a qualcosa di superiore; e se non si riferisse a una insignificante persona, ma a una che invece deteneva un’autorità sul “minore”, che molto probabilmente era dominato da lui? Da questa punto, riallacciandomi alla fotografia, potevo dedurre, ma sempre senza alcuna prova che potesse scongiurare ciò, che il maggiore fosse sicuramente il prete visto che la sua parola aveva più rilievo e importanza contro quella delle novizie che allora sarebbero diventate, presumibilmente, sue vittime ma di cosa? E ritornando al verbo “cessa”, riguardo a questa foto, che conseguenza vuole identificare? Di vivere, respirare, mangiare? Starei ancora meditando se non fossi stato distratto dallo sguardo rapace della mia ragazza, tipico di quando lei era attratto da qualcosa che ardeva tanto di conquistare e acchiappare, e puntando gli occhi miei nella stessa direzione dei suoi, constatai con amarezza che stava guardando un uomo di alta statura e calzante un completo sportivo dell’adidas; doveva avere 30 anni e nonostante il fatto che abbia corso tanto, la sua capigliatura non era né increspata né trasandata, ma rispettava un suo stile ordinato con una sua riga laterale. - “Amore, che stai guardando?”- - “Nulla amore… i cespugli, gli alberi…”- Non sapevo come agire, se essere comprensibile, apprensivo o geloso, fatto sta che mi limitai a una occhiata disprezzante; d’altronde questo poteva essere soltanto uno sporadico cedimento del suo animo, ma la mia mente, in quel momento, era un ramingo che perlustrava un territorio a lui ignoto, cioè la fotografia. Stava imbrunendo. Lei era leggermente imbarazzata e io con voce rauca le dissi. - “Andiamo.”- La aiutai a sollevarsi dalla panchina e ci incamminammo nella strada per casa, rifacendo la stessa al contrario. Io, a ogni 10 metri fatti, mi giravo insospettito da quell’uomo e mi assicuravo che non ci stesse seguendo. Io sbloccai la serratura della prima massiccia porta, poi la seconda più piccola, sempre abbassando e alzando le suole delle scarpe macchinalmente, aggrappandomi con la mano destra alla ringhiera in titanio, che discordava, dalla parete di fianco, per i vasi di terracotta, posti sopra le scale, nei quali erano piantati il rosmarino e giglio. Lei entrò, io non lo feci. Chiamai qualcuno che poteva, veramente, delucidarmi. Armando. Tre squilli con 33 secondi di intervallo, poi al quarto sentii la sua voce. - “Pronto?”- - “No come “pronto”? Dovresti sapere chi sono ormai!”- - “Ah ciao Santiago, da quando che non ci sentiamo, non ho registrato il tuo numero nel nokia .”- - “Ma come?”- risi - “Si, è quello di lavoro. Lo so, la sua suoneria è peggio dello scacciacani.”- Ridemmo. - “Sei il solito buffone, senti ti voglio dire… domani alle 19 sei libero?”- Armando non disse nulla. Ripresi a parlare. - “Sto vedendo una colonna di fumo qui, non è che ti stai sforzando troppo?”- Ridemmo. Ci riuscì. Perfezionavo solo con lui questa abilità. - “Va bene, credo di finire prima delle 19 con i preparativi per la mostra. Ah ti devo dire anche una cosa inerente alla fotografia.”- - “Cioè?”- - “Ci puoi arrivare da solo.”- Staccò. “Vuole fare il misterioso” pensai ironicamente. Riposi il telefono nella tasca destra del giaccone e presi la foto. Capii. “Minchia” pensai. Capitolo 5= Lei, io e lavoro. - “Amore, entra.”- mi invitò la mia fidanzata. C’eravamo io e la foto e nessun’altro, non avvertii nemmeno il muto fruscio del vento tra le tegole, neanche ascoltai il luccichio delle lucciole. La rimisi in tasca. Era troppo per oggi e le stelle mi erano testimoni, per cui chiusi la porta a chiave, notando con la coda dell’occhio la mia ragazza salire in camera da letto, presumibilmente a cambiarsi, indossando un pigiama sempre diverso ogni sera; non riuscivo mai a indovinare cosa mettesse né tantomeno la lavatrice che doveva lavare tutte quelle paia di completi. Io uscii dal frigo la porzione di pizzoccheri che erano rimasti, reduci di forchettate all’ultimo sangue, preparai un’insalata e cucinai, per Liviana, l’unico piatto di cui ero orgoglioso preparare, la cui ricetta l’avevo imparata grazie allo zelante insegnamento della cuoca del collegio, sebbene portassi i miei undici anni all’epoca, cioè… la carbonara. Bollii gli spaghetti, accanto al quale su una padella a fondo piatto feci cuocere la pancetta e su un recipiente di forma ovale frullai delle uova rotte in precedenza. Mentre stavo aspettando la cottura definitiva della pasta da mescolare con l’impasto, uscii in giardino e raccolsi uno stelo di una rosa e la adagiai sul piatto, mentre sotto il tovagliolo nascosi un anello Swarovski, comprato quattro giorni fa prima di andare a un appuntamento. Apparecchiai disponendo il piatto di Liviana, il bicchiere di cristallo e forchetta di argento e coltello dello stesso materiale simmetricamente al mio servizio, utilizzato per le importanti occasioni in modo che ci guardassimo negli occhi… un connubio di sguardi doveva essere la nostra cena. La chiamai, lei dopo cinque minuti venne immergendo suola dopo suola, il piede sugli scalini. Il pigiama, il cui colore contrastava con il buio intorno, le stava a pennello e il seno era possibile intravederlo in parte e ciò innalzava la mia immaginazione e i fianchi, molto arrotondati, sembravano che venissero lavorati in una fucina. Appena si sedette, le dissi. - “Sei bellissima come la prima volta che ti ho incontrata.”- Strinsi la sua candida mano e la baciai. Lei mi ricambiò con un fugace sorriso, un po’ imbarazzato e lentamente allontanò la mia, dopo di ché si sedette sulla sedia che io avevo spostato indietro per farla sedere, brandì il coltello e forchetta e iniziò ad addentare. Io la imitai. - “Scusa se non te l’ho domandato prima, ma come è andata la riunione? Ti è servita la macchina?”- le chiesi. - “È andata benone, liscia come l’olio.”- disse, e una volta ingerito il boccone, aggiunse- “Il capo e i colleghi si sono complimentati con la mia iniziativa per la costruzione di un centro di bellezza con tanto di terme e negozi di cosmetica.”- - “Ah allora hai puntato più in alto.”- Le sorrisi. - “Eh si l’idea originale della costruzione di un solo negozio di cosmetica mi sembrava proprio striminzita; ora la società, grazie a questo progetto, può acquisire più clienti di quanto non ce li abbia già.”- Il tempo di un altro boccone. - “E invece? Come è andata con la tua matrigna?”- mi domandò. - “Ehm bene… in realtà come al solito.”- Pensavo nei panni di buon investigatore quale ora ero e reputavo che ancora dovevo raccogliere più informazioni e sistemare i vari indizi, secondo un logico filo conduttore, prima di delucidarla su quanto mi stava accadendo, però mi rammaricavo di apparirle freddo e insensibile, distaccato; dunque fui intraprendente. Mentre lei stava riponendo i piatti dentro la lavastoviglie, mi avvicinai, cominciai a massaggiarle le spalle e a baciarle il collo gradualmente. - “Tranquilla finisco io di apparecchiare, tu siediti un’altra volta sulla sedia per la grande sorpresa. Lei girò la testa, facendomi vedere solo una metà del suo angelico e proporzionato volto e mi domandò. - “Quale sorpresa?”- Io la invitai a sedere e accesi al massimo i termosifoni, spensi le luci principali lasciando solo quelle del corridoio in modo da creare un’atmosfera surreale, in seguito con una mano acchiappai un candelabro e con l’altra due candele profumate e deposi il tutto sulla tovaglia dove già erano sistemati due calici che riempii di vino. Lei mi osservò insospettita. - “Amore perché tutte queste attenzioni?”- Le baciai la guancia e le sussurrai all’orecchio. - “Solleva il tovagliolo.”- Lei fece ciò che le dissi. - “Buon anniversario, amore mio.”- sollevai il calice per brindare. Lei trattenne il respiro per un po’, allargando le labbra a formare due sfere concentriche, che in quel momento, dato il suo grande stupore, mi regalavano più letizia che vedere dieci arcobaleni; poi portò il palmo della mano di fronte al naso e iniziò a piangere. Io mi meravigliai. - “Ehi amore cosa c’è che non va? Tutto bene?”- - “È un regalo bellissimo e io non lo merito.”- - “Ma che dici? Certo che te lo meriti! Sei la mia gioia, e poi oggi è un giorno molto importante, dobbiamo festeggiare.”- Lei si asciugò le lacrime con la manica del pigiama, si ricompose, sorrise come se non fosse successo nulla, impugnò il calice e brindammo. In seguito lei mi prese per mano, ci alzammo e ci dirigemmo verso la camera da letto, facendo attenzione a non inciampare contro qualche mobile per via del buio persistente. Davanti al letto, lei era seduta. Io la svestì del pigiama e le sfilai il reggiseno, mentre lei mi stava spogliando della camicia. Tolte le mutandine, la distesi sul letto. Il suo sorriso sapeva, ora, di sfida; esso provocava i miei sensi. Mi tolsi i pantaloni jeans e, poi, le mutande. Avvicinarmi dove le sue cosce si restringevano sembrava percorrere il corridoio del palazzo Spada per arrivare alla fine, e ci si perdeva per la troppa bellezza che, adesso, brulicava nella mia pelle e la voglia si vedeva in tutto il corpo che si avvicinava vorace. Quando fui io sopra lei a tal punto da respirare l’odore fresco del suo collo e, nel muscolo del bacino percepire l’ingrossamento come una cisterna riempita fino all’orlo d’acqua, spensi la lampadina posta sopra il comodino; così ci perdemmo nella sinfonia del piacere. Mi ero svegliato alle 7.30. Oggi avevo l’appuntamento con il finanziere alle 9, ricordato fedelmente dalla mia segretaria. Lei stava dormendo profondamente; era il suo giorno libero d’altronde. Coperta dalle trapunte, si vedeva solo una ciocca di capelli e anche lì, sebbene ci fosse poco da ammirare per un uomo normale, tuttavia mi pietrificai per un’istante… il bene che le volevo e il senso di protezione che provai erano immensi. Mi alzai piano piano, recuperai una mutanda e una maglia intima pulita dalla biancheria del bagno di servizio e mi feci una doccia rigenerante, dopo mi vestii calzando calze lunghe, abbinando camicia bianca classica, con colletto tradizionale, con pantalone nero elegante e indossai dei mocassini, pettinando i capelli e sistemandoli nel lato destro, mentre quello sinistro li lasciavo schiacciati; in seguito scesi e andai in cucina, cucinando due uova fritte e nel frattempo in un altro piatto ordinai due fette di prosciutto con grissini e un pizzico di marmellata di ciliegie. Quando finirono di essere cotte, distribuii esse in due piatti mettendo il tutto in un grande vassoio con forchette e coltello, aggiungendo poi due fette di pane e salendo le scale cautamente, lo appoggiai in uno sgabello accanto al comodino; in questo modo aveva la colazione servita. Le diedi un bacio in fronte e scesi. Finii di ingerire il pasto, mentre stavo scorrendo con il dito le varie notizie di articoli che mi comparivano quando accedevo alla schermata principale di Google e disquisii tra me e me su quanto fossero seducente essi, per esempio “Putin annuncia la ritirate delle truppe dal Dombass, si prevede la fase 2” oppure “uscita nuovo modello iphone 18 per anno 2024, è in grado di sfruttare la realtà virtuale” oppure “nuovo capo abbigliamento Gucci con sconto stracciato”; faceva paura il controllo mediatico sulle volontà dei futuri clienti e io purtroppo sarei stato uno di questi. Mi accorsi che erano le 8.30; per cui mi lavai i denti, indossai il giubbotto di pelle in fretta e furia e con una mano agguantai la mascherina, maledicendola, e brandii le chiavi della macchina con le quali la accesi e, facendo retromarcia, uscii dal cortile. La filiale, dove lavorava il mio finanziere di fiducia, si ergeva presso il mausoleo pe i caduti della Prima guerra mondiale, accanto alla basilica di rifacimento gotico unica del suo genere per i suoi pinnacoli con gargoyle, e posteggiai la mia BMW serie 3 vicino a essa, allineando le ruote alle linee bianche, Superai con una certa disinvoltura i controlli visto che non avevo tanti bagagliai in mano ma solo una borsa da lavoro in pelle di camoscio. Essa fu facilmente scansionata da un macchinario radiogene, mentre un giovane addetto alla sicurezza mi perquisiva da cima in fondo, e ottenuto la sua benedizione, mi recai all’ufficio del finanziere Pietro Burrano, che tra l’altro conoscevo la strada manco fosse casa mia. Bussai. - “Avanti.”- disse lui sorridendomi con il suo solito tono professionalmente neutrale, ma colorito dalla sua voce calda. - “La prego, si accomodi.”- aggiunse, indicandomi la porta libera. Stringemmo le mani e ci sedemmo. - “Allora.”- iniziai a parlare mentre lui mi scrutava con i suoi occhi incavati- “sono venuto ora per richiedere un prestito di ben 50.000 € da parte della cooperativa Associazione Apollo, naturalmente alla fine dell’evento ci sarà la restituzione senza eventuali interessi”. - “Quindi lei mi sta dicendo che la nostra banca debba erogarle un prestito di tale somma?”- - “Si, esatto.”- - “Allora Signor Bertischi mi dia la sua documentazione fiscale anche se è registrato nella lista dei, tra virgolette, buoni pagatori; tuttavia sono costretto a verificare il tutto per regolarizzare la liquidazione.”- - “Si, si proceda.”- lo invitai con un segno della mano, componendo un’aria innocente. Ma quell’aria innocente si trasformò in uno sguardo prima sibillino, poi viperino e infine insonnolito e lodavo la mia segretaria Lambrica di fissare gli appuntamenti in orari diversi. Dopo un’interminabile quarto d’ora, in cui guardai, letteralmente, due mosche svolazzare per accoppiarsi, lui finì. - “Bene Signor Bertischi, ho controllato nel nostro sistema la sua situazione finanziaria, cioè se ha la possibilità di restituirci i soldi in rate come ben sa, e anche ho attenzionato lo scopo del prestito.”- - “Perfetto.”- - “Si può recarsi dalla mia collega Vocciara per ultimare i processi bancari.”- Ringraziai. Ci alzammo, ci demmo la mano e voltandomi indietro uscii dal suo ufficio. Alla fine di tutto questa odissea me ne andai dalla banca mezz’ora prima proprio in tempo per il secondo appuntamento. Ora Enea con il padre Anchise e il figlio Iulo stavano lasciando Troia e io, trovandomeli davanti, gli avrei fatto il tour-operator per la lentezza del traffico. Infatti spostarsi per giungere in via Pietro Garbini era una vera impresa proprio per le bancherelle che erano, assolutamente, ingombranti, e raggiungere il conservatorio, che alla fine del lungo viale era ubicato, era come bere un fresco bicchiere d’acqua dopo esser stato per dodici ore a vagare nel deserto. Posteggiai nelle strisce bianche. Pagai anche se sapevo in cuore mio che l’incontro sarebbe durato poco. Il conservatorio e, in generale, altre parti dello stabile, originariamente, erano unificati, nel complesso, in un’abazia benedettina di ben centomila metri, la quale una parte, dove vi erano stati, addirittura, dei crolli nei secoli scorsi, era stata adibita a caserma dei carabinieri, mentre un’altra era stata convertita a conservatorio e, invece, un’altra ancora conservava lo stato di “consacrata”. L’appuntamento era stato fissato in una sala per convegni vicino al chiostro dove un tempo gli stessi monaci, chi amanuensi e chi addetti ad altre funzioni come cucinare o fare riparazioni, avevano l’abitudine di discutere argomenti eruditi e filologici fino al vespro. Il direttore d’orchestra, eminente sia per il suo aspetto fisico dato che portava i capelli lisci grigi molto lucenti e curati e i baffi con sfumature nere a forma di manubrio, sia per la sua fama visto il suo recente debutto al teatro della Scala di Milano e la sua collaborazione con il compositore Ennio Morricone, era all’in piedi, appoggiato alla cattedra con le gambe incrociate, vestendo uno smoking nero in pura lana con rever a lancio. Bussai. - “Avanti.”- Spinsi leggermente il massiccio portone in ferro battuto. - “Buon giorno egregio signor Petrofini.”- - “Buon giorno anche a lei.”- Mi accolse con un sorriso gentile di quelli che difficilmente si incontravano nell’andirivieni della vita. Tutti e due ci sedemmo nelle due sedie disponibili accanto al lato destro del lungo tavolo dove vi erano tre microfoni posizionati in orizzontale, alternandosi, e alla fine un computer fisso connesso al video proiettore. Tutta la sala convegni era in penombra dato che l’unica fonte di illuminazione era il rosone, posto nella navata laterale. Iniziò lui. Il suo viso era illuminato di un tenue rosa mischiato con l’oca della luce del sole. - “Non posso esimermi dallo scusarmi intanto per il luogo fissato per l’appuntamento che difetta di un buon impianto di illuminazione.”- - “Stia tranquillo.”- - “Bene, innanzitutto la data che ha scelto per l’evento galante di beneficenza per l’orfanotrofio Stella di Nazaret sarebbe l’11 del mese di Maggio, cioè tra tre settimane giusto?”- - “Esatto.”- - “Mi dica, ha già prenotato l’apposito ristorante o villa?”- Annuì. Feci una pausa. - “Hotel Imperial Grimaldi di Savoia.”- Si meravigliò. - “Ohh… azzeccata scelta… un hotel lussuoso, prima residenza invernale dei Savoia.”- disse, accennando alla sua storia proprio per elevare la fama che già lo stesso nome imponeva- “Accorta preferenza di luogo, anche per l’aspetto paesaggistico, proprio perché si affaccia sul foro imperiale, ma ovviamente non voglio tediarti con le immagini che io ricordo di esso… invece mi informi, esattamente quando dovrei levare e battere la mia bacchetta?”- - “Dalle 19:00 fino alle 24:00.”- Si accarezzò il baffo, poi domandò. - “Quali esecuzioni musicali dovrei far riprodurre, esattamente?”- Aggrottai la fronte. - “Io direi dalle 19 alle 21… direi… musiche d’accompagnamento per il buffet per esempio… “Le quattro stagioni” di Vivaldi o dei brani di Chopin, e dalle 21.30 fino a 00.00 qualcosa che diffonda energia, vitalità ma che allo stesso tempo si adatti ai gusti delle persone più affini.” - Lui si grattò la fronte per pensare. - “Perfetto, ho capito. E un’ultima accortezza…”- fece una pausa mentre sfilava dalla borsa di lavoro un taccuino con scritto “Agenda 2022” e incominciò ad aprirla- “bene dunque…”- si schiarì la voce e con la mano sinistra iniziò a sfogliarla fino ad arrivare a 25 lunedì di Marzo- “perfetto, dovrei suonare ad Abu Dhabi al cospetto dello sceicco Momed Bin Asyad per l’inaugurazione della nuova reggia…”- - “Quindi?”- lo incitai a proporre la richiesta. - “Quindi le vorrei domandare se non fosse un problema per lei pagare la spedizione degli strumenti.”- - “Da illuminato mecenate quale sono e da buon rappresentante della mia associazione le rispondo “perché no?”- Sorrise. - “Perfetto, ora facendole un preventivo di tutto, il costo viene ad ammontare a…”- con il telefono in mano- “stia tranquillo che non sarà così tanto sconcertante.”- Io gli feci un cenno di approvazione e composi una preghiera silenziosa. - “15.600 € inclusa la spedizione .”- Fui più sollevato. - “Si mi sta bene.”- - “Per il pagamento adesso o con il bonifico in un altro giorno?”- - “Con il bonifico, grazie.”- Si alzò. Lo imitai. Mi strinse la mano. - “Mi deve scusare se non l’accompagno ma i miei pupilli si stanno spazientendo, sa dove può trovare l’uscita.”- Sistemandosi lo smoking e pettinandosi i capelli, si recò verso l’aula dove avrebbe spiegato. Uscii dal conservatorio, salii in macchina e mi diressi verso casa. Posteggiai lì vicino. Dovevo fare la spesa nel negozio alimentari presso il quale ero cliente abituale. Comprai il necessario: bottiglia di vino, sei uova, quattro mozzarelle, tre filoni, insaccati tra cui la mortadella e sette scatolette di tonno. Ciò che adoravo era che non dovevo manco consultare la mia ragazza dato la completa fiducia. Entrai in casa. Depositai il bottino dentro il frigorifero. Mi tolsi con molta cura la camicia, appoggiandola sullo schienale della sedia, mi sfilai le scarpe, accesi la tv e mentre ascoltavo la voce di un conduttore che presentava un prodotto della cucina (che coincidenza!), mi stavo preparando i spaghetti con l’olio e l’aglio… la mia specialità. Dopo aver consumato il mio umile pasto, convenni di riposarmi sul divano per digerire. Trascorso un breve lasso di tempo, indossai la tuta e corsi per un paio di km, dopo di che ritornai alle 16:15 e mi risistemai. Partii alle 16:40 per raggiungere il prossimo punto di incontro per il colloquio con il capocomico Carlo Sperelli della compagnia “Aletheia”. Si risolse dopo due ore. Fu un parto per me perché la rappresentazione teatrale delle Supplici di Eschilo, proposta orgogliosamente da me, non lo convinceva del tutto favorendo e avvalorando il Macbeth di Shakespeare. Avevo appena toccato, con il piede sinistro, la parte anteriore del pavimento della macchina quando il telefono squillò. Era Armando. - “Ho appena finito di catalogare le mie sculture di legno per la mostra, tu invece?”- - “Si anche io ho appena concluso di lavorare.”- dissi con il corpo incurvato sul volante pronto a partire. - “Perfetto, dove e quando?”- - “Tra venti minuti di fronte a casa mia.”- Capitolo 6= il monte Sion. Ero proprio vestito da scassinatore: berretto nero, bandana intorno al collo, maglione nero, pantaloni elasticizzati neri e scarpe nere. Armando arrivò in perfetto orario manco il diavolo che si presentava a Lucida Mansi. Non c’era bisogno che lui citofonasse perché io ero già fuori e appena mi vide mi spalancò lo sportello della sua Ford di ultima generazione e mi incitò a entrare. Chiusi la portiera e commentai. - “Salto di qualità?”- - “Eh si, non si smette mai di puntare in alto.”- rispose. - “Di spendere soldi vorresti dire.”- corressi. Ridemmo. Attivò il motore e un impercettibile fumo uscì dal tubo di scarico. Mi studiò. - “Sembra che stiamo andando a fare una rapina.”- ironizzò. - “Dopo faremo una visitina agli Uffizi.”- - “Buona idea.”- Ridemmo. Dopo un’ora giungemmo a destinazione. Il grande cancello nero in ferro battuto, che una volta un sorvegliante aveva affermato delirando che l’aveva riconosciuto quando sognò sua madre varcare il regno dei morti, aveva le punte tutte piegate e una parte tutta arrugginita era crollata miseramente, mentre l’altra resisteva ancora al tempo. Armando prese le torce dal cofano e me la porse una. Procedemmo. Le lastre del viale che si inerpicava fino all’ingresso, erano ora ricoperte da un sfaldato manto erboso e le statue, che, parallele, lo accompagnavano e che un tempo rappresentavano le quattro virtù cardinali e alcune fasi della via Crucis, ora erano deformi e chiedevano disperatamente una loro cura. - “Che effetto ti fa ritornare qui e vedere il collegio ridotto in questo stato?”- chiesi ad Armando. - “Come se mi avessero strappato un pezzo di me… non so se mi spiego.”- Annuì. - “Ti incute timore?”- domandai ancora. - “Se non fosse per queste statue, no assolutamente… solo un po’ di nostalgia. Ti ricordi quando abbiamo messo dell’olio di frittura dentro la tazza per il cafè del preside e lui dovette chiudersi dentro il bagno mentre noi nel suo ufficio cambiavamo i voti di algebra?”- Ridemmo. - “Tattiche di sopravvivenza.”- risposi. - “Oppure quando abbiamo fatto scappare Alfonso e con le sue zampe si è nascosto in un cespuglio dietro uno stagno e il sorvegliante ci è finito dentro?”- Ridemmo così tanto che non riuscii a deglutire. -“Ecco…”- continuò lui- “la cosa più bella è che a lungo andare non mi ricordo più le cinghiate prese o gli isolamenti subiti, ma invece queste ragazzate qua ed è questo che mi faceva sorridere e che mi fa sorridere.”- -“Ben detto dissi.”- Arrivammo all’ingresso. - “Ecco il famoso Monte Sion.”- annunciai. - “Che cosa dobbiamo cercare esattamente?”- - “Delle prove che ci documentano qualcosa riguardo quaranta anni fa.”- - “Si chiaro, tipo inchieste o foto compromettenti?”- - “Si ecco, proprio questo.”- La soglia era murata sino all’altezza di un adulto per cui io dovetti piegarmi e issare Armando unendo i palmi della mano a mo’ di scalino, poi lui messosi a cavalcioni sul muro mi porse il suo braccio e grazie ad esso io mi arrampicai. Eravamo dentro. Miracolosamente non era stato vandalizzato come tutti gli altri posti abbandonati di Italia, che del fascino, della storia e dell’arte le persone, cortesemente, danno in cambio scritte e graffiti perturbanti. Il corridoio, da cui si snodavano le aule e le classi e in fondo la mensa, era ancora intatto così come i suoi affreschi dove gli stessi santi e martiri raffigurati riuscivano, ancora, a suscitare con sguardi interrogatori una cristiana austerità inquisitoria. Riuscivo, con l’immaginazione, a vedere un io e un Armando più giovani raggiungere le lezioni a gambe levate perché eravamo, perennemente, in ritardo. Nelle classi vi erano tanti fogli bianchi e tante pagine di quaderni a quadretti sparpagliati a terra che creavano un mare bianco con i banchi che fungevano da isole. Nelle lavagne vi erano incise tante parole incomprensibili e molte forme geometriche. Nella mensa annusammo un’intensa puzza che mi ricordava molto l’acqua stagnata, infatti oltre i tavoli si scorgeva una valanga di catini, di ciotole e piatti non lavati da anni e con i resti di cibo che assomigliavano di più a escrementi. Feci una espressione di ribrezzo. - “Andiamocene da qui.”- - “Si, ben detto.”- Percorremmo le scale dove in certi angoli, sotto la ringhiera di marmo, si conservavano le scritte e le dichiarazioni delle tante passioni che, tra tanti soprusi e ingiustizie, erano nate. Armando indicò una specifica. Ridacchiò. Io sbuffai leggermente. Non volevo riportare a galla spiacevoli esperienze legate alla crescita ormonale. Arrivammo ai dormitori. Le reti erano ormai arrugginite e i materassi inzuppati di umidità e soffocati dalla polvere. Le coperte erano accatastate in un angolo. - “Cavolo, ti ricordi quando sotto i cuscini nascondevamo le Chesterfiel e alle due di mattina le fumavamo con i nostri compagni?”- Sorrisi. - “Sembra che sia trascorsa un’eternità.”- Contemplai ancora per un po’ l’alone di nostalgia che tale visione aveva indotto in me. - “Muoviamoci.”- - “E dove?”- Riflettei. Se i vandali, per qualche innaturale e irrazionale motivo, non avessero bruciato i documenti e i bolli dei fornitori, allora era certo che li avremmo dovuti trovare… - “In presidenza.”- affermai con voce ferma e salda. - “Sicuro?”- - “Beh, tentar non nuoce.”- Vi era ancora una rampa di scale da superare e mentre eravamo impegnati in tal intento non potevamo che riosservare, in modo scrupoloso, i ritratti degli ultimi presidi, le quali espressioni severe erano annebbiate da fitte ragnatele. - “Guarda chi si rivede, Gualtieri l’inflessibile.”- Eravamo stati proprio io e Armando, collegiali di vecchia data, a coniare quel soprannome che sarebbe successivamente diventato un epiteto al pari del Pelide Achille. Di fatti lui era inflessibile in tutto, tanto che tutto il collegio non seguiva l’orario concordato dallo Stato Pontificio, ma dalla sua monotonia giornaliera e ogni sua decisione era insindacabile. Al lato sinistro vi era la scalinata a chiocciola che portava alla lavanderia. - “Vuoi accompagnarmi per rivivere l’ultimo ricordo insieme?”- proposi ad Armando. - “Si, ovviamente.”- Venimmo accolti da un anestetizzante odore di chiuso. Vi erano mensole e credenze vuote, abitate solo da cimici e appesantite da uno spesso strato di polvere, dietro la scopa di legno, secchio e attrezzi agricoli vi erano tante trame di ragnatele. - “Ti ricordi quando ci calammo giù manco fossimo degli alpinisti e facemmo un giro in città?”- - “Come se fosse ieri.”- risposi- “ti devo ringraziare per questo perché non ho mai provato un’emozione così forte.”- - “Figurati.”- Ritornammo nei nostri passi e fummo allibiti dello stato in cui versava lo studio. Tutto in subbuglio: cassetti del comodino spalancati, quaderni buttati a terra, fogli sparpagliati sul pavimento, l’unico scaffale spaccato. - “Porca miseria chi ha fatto tutto questo?”- - “Non lo so.”- Ma girandomi attorno vedevo atti notarili o documenti riguardanti l’aspetto amministrativo, ma nulla che potesse interessare la nostra missione. - “È come se qualcuno ci avesse preceduto.”- suggerì Armando. - “Infatti chi?”- continuai accarezzandomi la barba. “Il prete” pensai, ma era solo un sospetto anche considerando la citazione scritta sul retro della fotografia, però la domanda non cambiava “per quali ragioni? Stava cercando qualcosa che anche a noi dovrebbe interessare?”. Vi era appoggiato sul davanzale della finestra il cannocchiale che il preside De Roberto utilizzava all’epoca per sorvegliare i collegiali e visto che non era rifrattore, i raggi del sole, che riflettevano le lenti, facevano capire dove lui stava puntando gli occhi e così riuscivamo a individuare, sempre, i luoghi da evitare. Mi sentivo intimamente attratto da esso e avevo l’insolita sensazione che, esso, il quale non vedevo da secoli, fosse ricomparso dal nulla proprio per dirmi qualcosa. - “Un attimo.”- Armando mi guardò incuriosito. Tastai il cannocchiale, rimuovendo copri obiettivi e portai gli oculari all’altezza degli occhi. Capii tutto. Ritornavano in quell’esatto momento le parole “dove vi è il maggiore, il minore decade”. Nel velo notturno Giove, la “stella mancata”, era situato un po’ sopra la Luna, colorata di un acceso color porpora che stava iniziando a elevarsi sempre di più nel blu, e, straordinariamente, se si fosse puntato lo sguardo verso sud, si sarebbe potuto vedere che essa stava illuminando un monte orlato da un fitto bosco. Passai il cannocchiale ad Armando. Lui comprese tutto. Ma… Squillò il telefono. - “Guarda che sono i custodi del posto.”- ironizzò lui. Risposi al telefono. - “Pronto?”- - “Buona sera Signor Bertischi chiamo dal centralino della casa di riposo “San Isidoro”, mi sovviene informarle che la sua congiunta Maria Grazia Trovato è morta, mi dispiace. La salma verrà trasportata all’ospedale maggiore e sarà esposta alla sala anatomica, quindi già da domani potrà vederla.”- I miei occhi affondarono nelle lacrime, dapprima tremule gocce, le cui scie rigavano le mie guance, poi grosse quanto gemme. Non emisi alcun verso; solo portai la mia mano per raccogliere i singhiozzi e protestare alla vita. Le mie gambe erano gelatina. Stavo subendo un malcontento se non fosse stato per Armando che, prontamente, mi sorrise e mi fece appoggiare sul tavolo. - “Pronto, è in linea?”- - “Si.”- deglutire era troppo anche per un semplice monosillabo- “va bene.”- Poi mi girai lentamente verso Armando e come un ubriaco che deve bere l’ultimo sorso della bottiglia, così dissi in un sol fiato. - “La mia matrigna è morta.”- Cosa che mi costò… Capitolo 7: La morte accidentale e l’indizio. Ciò che vidi, quando aprii gli occhi, fu il mio viso disfatto con le guance scavate da più rughe del solito, le labbra smorzate da un biancastro cadaverico, la pelle così pallida come se fosse stata toccata dalla mano di un fantasma. - “Cosa… cosa è successo?”- domandai, raddrizzando la testa, che era incollata al finestrino, guardando Armando, vinto da un’assoluta preoccupazione. - “Sei svenuto Santiago, non te ne sei manco accorto.”- - “Come? Ma perché?”- Poi incominciai ad agganciare i ricordi, non soltanto di quella serata ma tutti quelli che avevano come abitatrice la matrigna, e piansi perché li vedevo nitidi e non potevo viverli interamente. Armando mi riaccompagnò a casa. Nonostante le mie gambe fossero più tremolanti di un pavimento di un veliero, riuscì comunque a camminare, peggio di un trampoliere e alla vista della casa buia e dell’assenza della macchina, constatai che la mia ragazza doveva essere a lavoro; questo mi insospettii ma non avevo la forza per pensarci. Lo salutai ed entrai a casa. Singhiozzando, bevvi una camomilla e indossando il pigiama andai a dormire. L’indomani alle 7 di mattina contattai il presidente della mia organizzazione per richiedere il congedo straordinario di 3 giorni, promettendogli di consegnare una copia del certificato di morte della mia matrigna. Dopo la telefonata Liviana entrò in camera da letto. Era un po’ trasandata. Aveva gli stessi vestiti di ieri e la camicia era usurata e scomposta da molte pieghe e il colletto non era per nulla abbottonato, lasciando intravedere il seno. - “Hai lavorato tutta la notte in ufficio?”- domandai con voce scalpitante, mentre lei si stava cambiando. - “Si, ancora.”- sbadigliò. Mi stava innervosendo il suo atteggiamento indifferente mascherato dal vivere quotidiano, ma per ora, contenendo a malapena le palpitazioni, era solo un fastidio. Alla fine mentre si stava coricando, avvertì, in uno slancio empatico, la mia tristezza. - “Amore perché sei così silenzioso?”- I miei occhi ridiventavano lucidi e le mie parole uscirono tutte frammentate. - “La mia matrigna è passata a miglior vita.”- - “Oh, mi dispiace zucchero mio.”- Mi abbracciò. - “E ora cosa ti aspetta?”- - “Una visita alla sua salma.”- - “Buona fortuna.”- mi augurò. Mi strinse le mani e mi baciò la fronte. Ci baciammo. Indossando una modesta giacca marrone a vento, una polo verde e dei pantaloni elasticizzati, uscii di casa e mi diressi all’ospedale Sacro Cuore di Gesù. Posteggiai in un parcheggio a pagamento. Entrando all’ingresso principale venni scortato da diversi infermieri a cui avevo chiesto esplicite informazioni. Era prassi che mi perdessi in quel groviglio di stanze e corridoi. Stavo transitando su un pontile che collegava due padiglioni dove, nella parte più lontana, vi era l’obitorio. Accedendo, avvertii dei brividi lungo la schiena; non so se erano dovuti per un atto estremo di autodifesa o per premonizione riguardo il cataclisma che sarebbe scoppiato di lì a poco. La salma era coperta da un velo bianco. Ebbi un rigurgito alla gola al solo pensare che sotto quel velo vi fosse il viso che poche ore fa osservava il vuoto. Si vedevano solo i piedi. - “Dottore come è morta esattamente, ha sofferto?”- L’anatomopatologo prima sfogliò la cartella clinica, poi schiarendo la voce, disse. - “Dalle informazioni pervenute dalla casa di riposo, ove lei ubicava”- e con lo sguardo indicò la matrigna- “dalla dissezione eseguita dal sottoscritto, posso asserire che è perita per complicazioni respiratorie.”- - “Come scusi?”- - “Come le stavo dicendo”- trascurò la mia richiesta di ripetere l’informazione proseguendo come se non fosse stato interpellato- “sono arrivato a questa conclusione appurando che ella non è deceduta a causa di problemi di deglutizione, che avrebbero condotto a un gonfiore acuto della trachea; poi come causa di morte posso convenire che non si è impiccata, sempre in rispetto della defunta, oltre al fatto che la sua età non glielo permetteva né tantomeno ho trovato tracce di emorragie nel derma, nel sottocutaneo e nel connettivo interstiziale in corrispondenza del solco del collo; dunque deduco che abbia volontariamente deciso di non respirare. Ora le farò firmare il modulo per il rilascio degli effetti personale, e ratificherò la scheda di morte”. “Quindi si è suicidata, in poche parole… ma lei? Perché? ” pensai subitaneamente. Potevo rimanere pietrificato davanti al dottore e il mio animo poteva stare come un’onda prima di schiantarsi sulla battigia, ma la regola sociale di ringraziare e salutare prevalse sulle questioni dottrinali ed esistenziali che il mio Io stava vagliando. Venni scortato da un infermiere sulla quarantina al centralino dove firmai. “Santiago Bertischi” un intreccio ondulatorio di linee che in qualche modo mi identificavano. Mi consegnarono in uno scatolone: il cappotto di pelliccia regalatole per il suo cinquantesimo anno di età, tre banconote da 10 che le rimanevano per la copertura della mensilità della casa di riposo, la tessera sanitaria e la patente di guida da restituire alla motorizzazione e il familiare rosario, calcato dal gemente palmo, giunto nelle notti di preghiera. Ma, recandomi in macchina e aprendo lo sportello con una mano, rovesciai per sbaglio tutto; ma inaspettatamente dal crocifisso, più grosso del normale, fuoriuscì un gracile rotolo e ciò che c’era scritto in forma di filastrocca mi sconvolse, e allo stesso tempo mi fece rivalutare ciò che in apparenza era solo un semplice suicidio. “Se la risposta del mio trapasso vuoi trovare, allora il buon angelo devi aspettare. Ma non ti fermare, o prescelto, qui al Monte Sion dovrai andare, lì il falso profeta dovrai vincere e nel tribunale di Dio condannare”. Capitolo 8= L’angelo Gabriele. Rilessi altre due volte l’ermetica fila di parole dubitando se essa fosse stata veramente scritta da lei, anche se dopo tutte queste coincidenze, che mettevano in serio dubbio il suo declino cognitivo, non avrei creduto più il contrario. A tal riguardo era dunque lampante che il foglietto consegnatomi da lei non era un illogico guazzabuglio isterico, ma un preciso cammino alla scoperta della verità. Una nuova tessera si era incastrata nel grande mosaico che era diventata la mia vita… “il buon arcangelo”. Dalle nozioni degli studi collegiali che albeggiavano in me come volti di un passato indecifrabile, gli arcangeli erano esseri celesti perfetti, non quanto Dio, e immateriali, se Dio stesso non scelga di palesarli agli uomini, incaricati alcuni di glorificare Dio ,salvaguardandone il mistero e di esaudire ogni sua richiesta, mentre altri, tra cui spiccava nella sua sfera di notorietà Michele, di combattere Satana e, a schiera, gli angeli ribelli. L’Arcangelo Gabriele, la cui classe secondo Dante Alighieri compariva nel cielo di Mercurio, si assunse l’epocale ruolo di annunciatore della nascita del figlio di Dio, quindi qualcuno mi avrebbe annunciato qualcosa che avrebbe dovuto cambiare la mia missione? Dopo aver consumato un pasto molto frugale a base di carne, per prima cosa giunsi al comune per riconsegnare la carta di identità, alla questura il passaporto e alla motorizzazione civile la patente; in seguito volli consultare la mia ragazza sul fatto di farmi guidare da una agenzia funeraria oppure procedere ad altre operazioni dalle tempistiche più veloci. Le telefonai. Rispose dopo due squilli. - “Amore cosa succede? Non puoi chiamarmi dopo?”- rispose in modo sbrigativo. - “Ma non avevi finito un’ora fa?”- ribattei. - “Si si, hai ragione ma il mio capo mi sta trattenendo in ufficio per recuperare del lavoro arretrato. Non ne voleva sapere.”- - “Va bene allora sarò veloce, secondo te devo contattare l’agenzia funebre?”- - “Si tranquillo, sono esperti nel loro lavoro, ti troverai bene ok?”- - “Ok.”- Riattaccò. “Prima mi dava più attenzioni” pensai ma in quel momento non dovevo assolutamente farmi distrarre e agitare l’animo più di quanto non lo fosse già, per cui girai in senso orario le chiavi, feci riscaldare il motore e con il cambio impostato in prima marcia partii in direzione dell’impresa di onoranze funebri “Vita beata”. L’ufficio si trovava al quinto piano di un palazzo costruito durante il boom economico degli anni 60. Abitato da molte famiglie in passato, ora rimaneva solo una coppia di anziani che non usciva quasi mai eccetto per le commissioni al super mercato. L’ingresso, con un piccolo atrio dove un tempo vi era la portineria e ora l’ombra degli oggetti che vi erano ammassati, si presentava con una ampia scalinata con la ringhiera arrugginita e mal saldata e con le pareti con l’intonaco sgretolato e infracidito. Sebbene il palazzo apparisse fatiscente, l’ufficio era strutturato con uno stile moderno in contrasto con la severa austerità dell’ex condominio. La porta di ingresso era in vetro rinforzato, mentre il pavimento era in parquet, e vi erano molte poltrone che accompagnavano il cliente fino alla reception lungo un corridoio dove vi erano appesi molti crocifissi di svariata forma e colore. Non ne compresi molto il senso, forse per dare al cliente una maggiore gamma di possibilità di scelta per rifinire la decorazione e l’accessorietà della bara. Interpellai l’addetto all’accoglienza. - “Salve, potrei avere una consulenza?”- domandai. - “Allora, il direttore tecnico principale sta svolgendo una consulenza adesso, ma può rivolgersi a un altro titolare che si è appena liberato.”- - “Perfetto.”- - “Dritto a destra.”- sentenziò. Mi sorrise. Io le sorrisi per ricambiare la sua disponibilità. Mi recai alla camera 5. Vidi uscire una coppia giovane dal viso rassegnato. Bussai. - “Si avanti.”- diede l’invito un sessantino dalla pelle raggrinzita, dagli occhi sporgenti e incavati, dal naso ad aquilino, dalla fronte scheggiata dalle calvizie, ma dalla voce molto energica. - “Si accomodi Signor?”- - “Signor Bertischi.”- - “Signor Bertischi”- ripeté- “molto bene, come posso esserle utile?”- - “Una mia congiunta è passata a miglior vita, per questo motivo vorrei affidarmi a questa agenzia per l’organizzazione di un buon funerale.” – - “Si è rivolto ai giusti specialisti.”- ridacchiò orgoglioso. - “Dunque cosa converrebbe fare?”- domandai io. - “Allora per prima cosa mi dovrebbe dare le sue generalità cioè il suo nome, quello della congiunta e quelli dei suoi familiari così procediamo alla creazione dell’annuncio, tutto chiaro?”- Accettai. Fui davvero lesto nel riferirgli il necessario, poiché non possedevo manco una vaga e, chissà per quale motivo, innata reminiscenza dei parenti della mia matrigna dato che avevo passato tanti anni della mia vita prima in orfanotrofio, poi in collegio e infine i restati con la mia matrigna. Dopo un minuto di pausa, cominciò. - “Il materiale è un po’ insufficiente però provvederò assieme all’equipe alla migliore resa dell’annuncio, nonché alla sua affissione, ma per la grafia e la scelta della formula iniziale per cosa vorrebbe optare?”- - “Per qualcosa di molto semplice, classico.”- - “Ho capito. Vorrebbe invece che noi allestissimo la camera ardente?”- - “No grazie, preferisco un austero funerale e una veloce sepoltura.”- Annuì. - “Dovrebbe consegnare, qualora decidesse di affidarsi a questa agenzia, un indumento elegante e se vuole anche degli effetti personali, tutto chiaro?”- - “Si, capito”- - “Ora se non le dispiace le vorrei esporre le bare, facendole apprendere anche i prezzi.”- Aprì un cassetto della scrivania da dove estrasse una chiave, dopo di ché si alzò scostando lentamente la sedia e camminò strisciando un po’ i piedi verso la porta. Io lo seguii. Mi condusse in un’altra stanza dove erano appoggiati sul pavimento e sulla parete casse e bare. - “Dunque per prima cosa a lei interesserebbe una cassa o una bara?”- - “Non saprei, mi dica lei.”- - “Io le potrei consigliare la bara perché essendo larga nella parte superiore e stretta invece nella parte inferiore, il corpo aderisce meglio.”- - “E che materiale mi potrebbe consigliare per una bara tradizionale?”- - “Intanto dovremmo considerare le proporzioni, quanto era alta la sua congiunta?”- - “All’incirca 1.65.”- Scrutò intorno e dopo una manciata di secondi individuò una, lunga 20 cm più dell’altezza riferitogli. - “Questa dovrebbe essere perfetta. Ma lei la vuole con i manici o senza?”- - “Preferirei con, dato che è più facile il trasporto.”- - “Invece riguardo la fodera anche se mi ha detto che predilige una scelta molto convenzionale come vorrebbe che venga fatta? Io le consiglierei molto il cotone o se vuole essere sostenibile un materiale biodegradabile.”- - “Vada per la scelta sostenibile.”- - “Ottimo, come lei aveva accennato pochi istanti fa, vorrei suggerirle il magano, un legno molto pregiato dato che lei non vuole badare a spese e inoltre questa opzione è già disponibile al prezzo di 2500 €.”- concluse, accarezzando la bara che aveva illustrato. Già immaginavo il corpo della matrigna al suo interno come se si dovesse preparare per le nozze con l’ultimo marito… Ritornando in ufficio e lasciando quel lugubre magazzino accordammo che io avrei dovuto consegnare gli accessori e il completo, mentre loro avrebbero stilato il preventivo. Squillò il telefono. Nella schermata mi comparì una chiamata a carico all’ospedale. Accettai. Il centralino mi informò che il Dottor Carruolo, operante nel reparto dell’autopsia, desiderava parlarmi e senza dire qualcosa sentii la sua voce. - “Buon pomeriggio Signor Bertischi, sono conscio del fatto che per lei la mia chiamata potrebbe apparirle alquanto inusuale, ma le devo comunicare qualcosa che sembrerà alle sue orecchie sconvolgente. A seguito di ancora più scrupolosi esami ho scoperto che la sua congiunta ha portato con sé un feto morto di ben 3 kg avvolto in una specie di membrana posizionata nella cavità addominale che si mimetizzava con gli altri organi, molto arduo da individuare.”- - “Dunque io avrei dovuto avere un fratello?”- - “Affari suoi, buon proseguimento di giornata.”- Ecco l’annunciazione dell’arcangelo, ma io la dovrei prendere come un annuncio di vita o di un periglioso esordio che avrebbe portato a qualcosa di critico? Una cosa era certa; una strana verità stava venendo a galla. Capitolo 9= il funerale. Almeno il meteo riuscì a non vanificare le mie aspettative. Era una giornata davvero soleggiata, non vi era nemmeno uno spettro di nuvola; eppure anche un solitario ed errante passante avrebbe compreso che qualcosa non andava. Non era, di certo, una normale celebrazione dato che vi erano i becchini che stavano come guardiani dei cancelli dell’oltretomba egizio. Ma il dettaglio che di più poteva incuriosire quanto far riflettere era l’esiguità degli invitati. Una coppia marginale di vecchietti cattolici convinti praticanti seduti su una fila di panche limitrofe al nartece, quattro suore che pregavano inginocchiate nel transetto mentre io e Armando, che aveva occupato il posto riservato a Liviana, dato che lei non era potuta venire perché voleva riposarsi visto la stressante serata in ufficio, ci eravamo insediati nella prima panca a destra; invece in quella sinistra erano sedute due zie che appresi essere cugine di lontano grado della mia matrigna, e infine un anziano signore rapato dall’abbigliamento dimesso, ma molto composto e sobrio, dal naso all’insù e dalla gote ossuta. Il curato, dopo aver rivolto il suo sermone a elogiare la virtù del defunto in vita e di raccomandare la sua anima a Dio, invitò i presenti, compreso il sottoscritto a proclamare i brani liturgici scelti in precedenza. Venne il mio turno “La parabola del chicco di grano”. Incominciai. Nonostante il nodo alla gola e la mia lingua che incontrava tanto difficilmente gli incisivi, riuscii, tuttavia, ad emettere le parole del brano che a delle orecchie attente poteva sembrare che parlasse un serpente invece di una persona. - “In verità i-io v-vi dico: se il chicco di grano”- deglutii- “c-caduto non m-uore, rimane s-solo, s-e”- mi accorsi di lagrimare, allora mi fermai, feci un grosso respiro e dissi- “Scusate se non continuo la parabola”- singhiozzai- “per me lei era come la luna… irraggiungibile, ma necessaria perché mi dava sicurezza.”- mi portai la mano in faccia per risaldare il mio tono, ricominciai- “mi ricordo quando a pranzo e a cena mi faceva trovare sempre un biscotto, oppure quando dovevo andare a dormire, ritrovavo sempre i vestiti stirati e ordinati in pile e le coperte rimboccate.. cioè, erano piccole cose ma che a tempo a tempo ti facevano capire l’importanza di quella persona, e in questo caso di lei.”- Detto ciò, scesi dall’ambone molto titubante, guardai il suo volto austero e inquieto, avvicinai due dita alle labbra, toccai il legno della bara, appoggiai il suo rosario tra le dita e scesi. Le retine degli occhi, anche del peggior criminale, non dovrebbero mai osservare un proprio caro profondare dentro la viscere della terra. Mi sentivo, in quel momento, una chiesa sconsacrata senza la sua croce della quale ero sempre rimasto fedele. Accanto a me stava Armando. Massaggiò la mia spalla con la mano destra; mentre la mia coscienza riproduceva una canzone che non risentivo da anni, ma che, in quel momento, si manifestò. “Let the sky fall, when it crumbles, we will stand tall… together”. Capitolo 10= il tradimento di Betsabea. Stavo scendendo le scale che portavano all’androne e stavo guardando il volto quasi decomposto della matrigna, quando ella aprì gli azzurri e vitrei occhi di soprassalto e un eco, che mi colse da lontano, sibilava “cerca il seme”. Poi la riguardai, mi strinse il polso come la scorsa domenica e me lo ripeté urlando. Mi svegliai con il terrore in faccia, con le pupille totalmente dilatate e la fronte grondante di sudore, annaspando e tirandomi la coperta fin sopra le labbra. Capii che era solo un incubo dovuto alla pesantezza di quei giorni. Mi tranquillizzai recuperando il fiato e metabolizzando il suo ambiguo significato. La camera da letto, nonostante i raggi del sole penetrassero attraverso le persiane socchiuse, era immersa in una cupa penombra. Effettivamente il cielo era invaso da nuvole cariche di pioggia. - “Amore, amore dove sei?”- La mia ragazza non era a casa; mi accorsi che erano le 9.30 di mattino, fortunatamente era il penultimo giorno e la ripresa del lavoro mi avrebbe sicuramente sollevato dai miei pensieri. Agguantai il telefono sopra il comodino che per qualche miracolo non cadde. Lessi il messaggio di Armando mentre mi stavo strofinando gli occhi. Mi ricordava della sua mostra a cui dovevo partecipare. Sgusciai fuori dalle lenzuola. Stesi il tappetino sul mio pavimento a scacchiera in soggiorno, dal mio telefono scelsi una playlist tra quelle che fanno viaggiare la mente e praticai dello yoga. Dopo di ché feci una tonificante doccia, apprezzando moltissimo la flagranza dello shampoo; e poi una salata ed equilibrata colazione. Vestito di tuta e armato di pazienza, ero deciso di pulire casa, che sembrava il deserto del Sahara talmente era sporca, e riparare alcune cose. Iniziai dalla cucina. Pulii il piano cottura, il lavello, il frigorifero e poi il pavimento. Mi rimaneva soltanto il divano e poi potevo passare al primo piano. Scostai il copridivano. “Chissà mai se troverò uno scheletro nell’armadio” pensai ridacchiando. Non avevo mai notato che ci fossero, sotto esso, tante macchie gialle ocra come se uno avesse versato interamente una tazza di caffè. Ipotizzai che a me o a Liviana fosse capitato qualcosa di questo genere… forse proprio quando uno di noi due era seduto sul sofà e col cambiare i programmi, lo aveva, durante il sorseggiare accidentalmente macchiato, ma perché rimettere il copridivano? Forse perché non voleva che io li scoprissi? Ma a quel punto, non era meglio riferirmi il tutto chiedendo, umilmente scusa? Non mi aspettavo di certo un’apologia, comunque io non bevevo caffè e, la mia supposizione poteva seriamente essere veritiera. Provai a lavarle alla vecchia maniera, cioè con acqua e sapone di Marsiglia ma non scomparivano del tutto. Tuttavia decisi di proseguire, altrimenti non avrei avuto sufficiente tempo per prepararmi. Lucidai il lavabo, sturando il foro del rubinetto, smacchiando con spugna, uscita da poco dal supermercato, il soffione e il miscelatore della doccia. Mi concentrai sulla camera da letto. Sollevai le lenzuola, i coprimaterassi, le fodere e il piumino con l’intento di metterli in lavatrice ma con mio grande stupore ritrovai quelle dannate macchie e pensai “ma quanti caffè ha bevuto?”. E sotto il letto, vicino agli spigoli quasi per nasconderlo trovai… un profilattico… e ancora pieno. Liviana rincasò alle 19 con la camicia lievemente sbottonata- dava la colpa sempre ai colpi di vento- mentre io mi specchiavo con l’intenzione di porre alla mia attenzione ogni minima imperfezione come le pieghe che cercavo di fare scomparire sistemandomi la giacca elegante o sollevando il colletto della camicia. - “Sei arrivata finalmente.”- Lei stava posando le chiavi sul tavolo con molta tranquillità. - “Eh si, una giornata molto faticosa.”- - “Immagino.”- dissi in modo rude. Mi voltai. La guardai. Ci osservammo. Camminai lentamente verso di lei. Lei stava in agguato. Meravigliata. La mia faccia contratta e distorta, con le sopracciglia incurvate e ravvicinate a sé e le pupille che volevano uscire dalle orbite a furia di guardarla, le incuteva tanto timore. La mano era in direzione del suo collo, pronta a stringere. Indietreggiò. Essa, al contrario, scese fino a prendere con un tovagliolo il profilattico appoggiato prima sul comodino vicino all’appendiabiti. - “Lo riconosci?” - Per un istante le mancò il fiato, poi balbettò come se avesse visto un parente che era stato dichiarato morto. Continuai a parlare. - “Se tu fossi vissuta a Gerusalemme al tempo di Cristo, ti avrebbero lapidata, perché io non dovrei fare lo stesso?”- Le vene della mia fronte vistosamente ingrossate, il viso totalmente incendiato. La rabbia era il cavaliere dell’apocalisse e io il suo cavallo. - “Amore non sai cosa dici!”- - “Non mi chiamare amore!”- proruppi. Sbattei il pettine, che prima pacificamente adempiva al suo lavoro, contro la cornice con una tale forza che la fece indietreggiare verso la porta. Ora era piccina, innocua, indifesa. - “Prima che ti cacci a calci in culo da casa mia, dimmi…” – cercai di respirare normalmente, ma annaspavo- “dimmi… perché mi hai tradito? Non ti piace il mio uccello?”- Sebbene in apparenza potevo sembrare il solito uomo violento e maschilista, in realtà compievo una grande fatica a mantenere le mie gambe salde e vigorose e a sopprimere il nodo in gola, che ululava nel mio animo straziato. Forse anche lei era nella mia stessa situazione, ma credevo che fosse più importante dimostrare la mia superiorità. Abbassò il mento e i capelli le coprirono le lacrime. - “Lui”- singhiozzava- “mi dava attenzioni, molte…”- - “Ma io ti diedi tutto, persino la mia anima se fosse necessario!”- - “No! Ti sbagli! È per quella stupida caccia al tesoro, che hai deciso di…”- Non la feci finire che subito riattaccai impetuoso. - “Come ti permetti! Non capisci l’importanza, ignorante!”- Ero furioso, eppure… forse aveva ragione… non l’avevo informata su nulla, ma non era una giustificazione. - “Perché ora mi stai dicendo che per te è importante? E che ti importa, ti preoccupi più per una che manco conosci bene.”- Silenzio. Mi morsi le labbra talmente forte che mi fuoriuscii un rivolino di sangue. Ma poi una illuminazione che non so da quale Dio o da quale musa provenne… in realtà lei non mi aveva mai capito in fondo né tantomeno conosceva il volto, più profondo e inaccessibile, del mio io. Su questo piano ci eravamo conosciuti in discoteca tre anni fa; in quella sera fui illuso che due occhi potessero veramente comprendersi a vicenda quando la parola, invece, poteva fare più di mille sguardi seducenti. Mi tranquillizzai e con gelido distacco e ostile menefreghismo mi ripettinai i capelli e le dissi. - “Sai… alla domanda che ti ho posto ora, ho capito da solo la risposta. Accanto al sottoscala ci sono le tue valigie, non c’è bisogno che controlli se manchi qualcosa; sbrigati ad andartene perché vorrei usare la macchina che ti ho prestato quella volta per fare una bella impressione alla mostra di questa sera.”- Capitolo 11= L’ombra di lui. Osservai Liviana dallo specchietto, mentre facevo retromarcia. Trascinava le valigie fino al ciglio della strada dignitosamente composta. Aspettava. Ma a me non importava. Vidi il suo viso, molto amareggiato e avvilito e odiavo con tutto me stesso che esso, scolpito da un angelo, venisse macchiato da una qualsiasi nota di tristezza; ma, in quel momento, mi sentii Dio, dopo aver cacciato Adamo ed Eva dal giardino dell’Eden. Speravo di averle impresso una lezione. La mostra era tenuta al palazzo detto “dei cervi”, soprannominato così perché si diceva che il barone Marolo si dilettasse nel far scorrazzare dei cervi nei suoi giardini, visto che il suo animo sublime era particolarmente attratto dalle foreste canadesi. Si tramandava anche che il barone fosse impazzito, per una demenza precoce, e morto di inedia perché non riusciva a trovare l’entrata della sua immensa villa, e si giurava che il suo fantasma potesse riflettersi sull’acqua nelle notti di Luna piena, specialmente durante gli allagamenti… e se l’avessi incontrato questa sera, cosa sarebbe successo? Varcai la soglia, accompagnato durante la mia attraversata, sul drappo rosso, da un possente colonnato. Esso finiva dove incominciavano le scalinate. Le tante vallette e i tanti principi salivano indossando completi ricercati. La mostra era stata allestita lungo una galleria di stampo rinascimentale dove i balconi delle stesse stanze, custodi di ipnotici affreschi, si affacciavano sul naviglio e proprio in esse si compieva la magia… le acque riflettevano le vetrate e le figure degli ospiti, che animavano le sale, sembravano fluttuare e scomporsi, allo stesso tempo, come un volto che si frantuma nello specchio e ciò era permesso solo durante le piene. Trovai Armando, indossante un completo con giacca e doppiopetto in lana, finemente decorato con motivi geometrici, con sotto un maglione nero in cashmere, che faceva a malapena intravedere la camicia bianca formale e accompagnato il tutto da dei pantaloni a tinta di cammello monocromatico e delle scarpe eleganti, che accoglieva i futuri acquirenti distribuendo cataloghi. Sollevai il braccio in arco. Lui mi riconobbe e mi venne incontro tendendo la mano in avanti, pronto a salutarmi. - “Allora ti sei deciso a venire.”- - “Certo! Non potevo perdere la mostra del mio migliore amico.”- Lui annuiva, sorridendomi. - “Mi raccomando, a mezzanotte vai in una delle stanze della galleria”- si avvicinò e con una mano messa a lato della bocca, mi suggerì a bassa voce- “ti consiglio la prima… è per vip, ma a te lo consento.”- Mi fece l’occhiolino. - “Perché?”- - “Fuochi d’artificio.”- Strizzò l’occhio. Fui sorpreso. - “Ah… tra mezz’ora c’è il buffet, non dimenticartelo.”- Aggiunse dandomi una pacca nella spacca, allontanandosi verso nuovi possibili clienti. Io iniziai a inquadrare ciò che poteva interessarmi soprattutto perché, se fossi restato fermo, avrei sicuramente rimuginato su Liviana e su come ci eravamo lasciati… e su come programmare il divorzio… Le statue in legno percorrevano tutta l’ampia galleria, e, inoltre, intravidi in lontananza un piccolo bancone con un barman. Decisi che prima avrei studiato le statue e poi dopo il buffet, avrei inumidito la gola. Le statue erano esotiche. Alcune ritraevano personaggi della mitologia classica come Proserpina nell’atto di essere rapita da Plutone. Lo sgomento di lei e la rapacità di lui mi ricordarono tanto la volubile felicità che ci abbandonava dopo tante piccole sventure della vita. Una statua mi colpì davvero tanto poiché nel soggetto mi rivedevo io stesso. Telemaco su una zattera con la gamba sinistra leggermente piegata in avanti e l’altra retta, possente, su cui tutto il peso si appoggiava, osservava, con gli occhi spalancati e lo sguardo determinato, dritto come se davvero ci fosse il mare. Il braccio sinistro, sollevato in aria, faceva la differenza d’altezza ed era portato sopra gli occhi come per scoprirsi dal sole, mentre la mano destra al petto come se volesse dimostrare di star mantenendo la tanto onorata promessa… trovare suo padre. Anche io avevo giurato di ritrovare me stesso e di riscattare la memoria della matrigna. Rimasi a contemplarla. La grande tavola rettangolare, bandita da una tovaglia blu lapislazzuli, si apriva ai miei occhi con una impressionante varietà dal dolce al salato e alcune specialità di pesce e la guardai come se fossi uno sfollato. Dopo aver assaggiato alcune cose e trangugiato altre e per altre ancora il mio palato chiedeva pietà, mi recai al bancone sorseggiando un cocktail mentre la vista delle acque del naviglio aspergeva di romanticismo la serata. - “Un long island per favore!”- Il barista annuì e si mise all’opera. Il mio animo era un alcolizzato che barcollava, la bottiglia pendeva dalla mano, una volta, in una direzione e, poi, nell’altra; così esso a tratti voleva ribellarsi a tutte le circostanze che lo inchiodavano e lo affliggevano, però, nello stesso tempo, si sentiva afflosciato e voleva scappare urlando e singhiozzando; e se in quel momento era impossibilitato a gridare, per conformarsi alla regola borghese, tuttavia poteva anestetizzare i tristi pensieri nell’alcool. Ma una voce femminile mi domandò. - “Anche tu la mia stessa scelta?”- Mi girai verso di lei. Era una giovane donna sulla trentina. Indossava un abito da sera nero luccicante e portava uno choker di cuoio al collo. Il suo sorriso era accattivante. I suoi occhi erano azzurri come il cielo a mezzogiorno e i capelli neri con riflessi rossi. - “Ah si, si”- dissi alzando il tumbler- “ma con meno vodka, non voglio che Armando mi porti in ospedale…”- - “Intendi l’artista che ha organizzato questa mostra?”- - “Si, siamo molto amici, ma a te quale opera piace?”- - “Il Mosè che guida il popolo ebraico.”- Mi indicò una statua. - “Perché questa scelta?”- domandai innocentemente. - “Mi fa pensare che ogni popolo, ogni uomo ha il suo Mosè, la sua libertà che lo guida, capito?”- - “Si, ho capito pure la citazione.”- Mi sorrise. - “Te invece?”- mi chiese sorseggiando. - “Il Telemaco.”- Parlammo del più e del meno. Si chiamava Angelica e mi raccontò che lavorava in un’agenzia che si occupava di organizzare concerti di beneficienza con cantanti famosi in tanti posti fuori dall’Italia e dall’Europa. Mi informò pure che sapeva molte lingue, ma provava imbarazzo nel mettere in pratica le sue doti linguistiche. Mi lasciò il biglietto da visita dell’agenzia così potevo andarla a trovare. Prese le sue cose e si congedò salutandomi calorosamente. Ma… ero in procinto di bere l’ultimo sorso quando vidi con la coda dell’occhio la sagoma di un uomo. Concentrandomi meglio capii che non era vestito elegante come tutti gli altri, ma portava una tonaca medievale nella quale pendeva un grosso rosaio. Aveva una specie di libro tra le mani, forse un breviario. Non riuscivo a distinguere i lineamenti ma mi avvicinai tanto ne ero attratto. La figura mi osservava. Io la guardavo. Armando mi bloccò. - “Ehi dove stai andando? I fuochi d’artificio sono da questa parte.”- Io annuì. Poi riosservai l’angolo della porta e… era scomparso. Non era il fantasma del barone morto per inedia, ma il falso profeta che mi ricordava cosa dovessi portare a termine, anche se seguirlo sarebbe stato come toccare un ragno nella sua stessa ragnatela, e, perciò, sicuramente sarei rimasto intrappolato. Capitolo 12= Il falso profeta. Dopo che gli ultimi ospiti, con cui Armando aveva concordato delle vendite, uscivano per rincasare e dopo che lui consegnò le chiavi alla portinaia, mi raggiunse. Io stavo appoggiato sul cofano con i contorni della giacca illuminati dai fari. - “Una mostra davvero ben organizzata, i miei complimenti.”- Mi sorrise. - “Il merito è anche tuo con la tua partecipazione.”- Sollevai il braccio in aria e feci una smorfia. - “Grazie a te che mi hai invitato, mi hai fatto dimenticare il litigio che ho avuto con Liviana.”- - “Ecco, a tal proposito…”- si accarezzava il collo, guardava con il viso rivolto a terra, scalciava un po’ la terra e, poi, si tirava il colletto della camicia con lo sguardo perso nel vuoto. - “Che c’è Armando? Vorresti dirmi qualcosa?”- Esitò. Stava riflettendo. - “No, nulla, non è proprio importante.”- - “Dai, non ti giudico lo sai.”- Gli diedi una pacca sulla spalla. - “Okay, allora… so che Liviana ti ha tradito… già da molto tempo.”- - “Come scusa?”- I miei occhi strabuzzati. Mi stavo agitando. Avevo spezzato qualunque legame con lei, ma ancora qualunque cosa che la riguardasse, mi feriva, forse che la considerava ancora di mio possesso? - “Si quando sono andato nel suo ufficio quasi all’orario di chiusura, lo sai che qualche volta ritardo, li vidi fare… quelle cose…”- - “Perché non me l’hai detto?”- - “Perché credevo che ti saresti sentito così… ecco… come sei ora.”- Non volevo conoscere il perché doveva andare al suo ufficio. Prima che potessi mandarlo al diavolo lui e chi avrei preferito e che potessi dimostrargli la mia instabilità mentale, mi misi dentro la macchina, allacciai la cintura e, acceso il motore, partii, mentre lui da dietro protestava facendo qualche passo in avanti e gridandomi di ritornare indietro e di ragionarci su. Girai la chiave della serratura. L’ingranaggio si sbloccò. Varcai la soglia. Ero davvero amareggiato, ma almeno avevo conosciuto qualcuna che aveva addolcito la serata. Tanta gratificazione. Ma vidi… invece una chiave, appoggiata sul mobile sovrastato dalla specchiera, a me del tutto estranea. Era elaborata in ottone con il gambo, riccamente ornato con motivi vegetali e l’impugnatura a volute sovrapposte a formare un occhiello. Mi ricordai. Era caduta dal cannocchiale nell’ufficio del preside, proprio quando io e Armando eravamo andati a rivisitare il collegio. Il mio subconscio doveva aver rimosso il ricordo, ma effettivamente non sapevo che cosa aprisse. Poi… ricambiai totalmente il vestiario, indossando abiti più confortevoli. Presi le chiavi della macchina da dove le avevo appoggiate, riattraversai il baglio, e rinchiudendo meccanicamente la porta, mi risistemai in macchina e partii alla volta del monastero. Avevo ancora le torce dell’ultima esplorazione nel bagagliaio, e in più mi ero portato un coltello a serramanico in caso di evenienza. La strada, che percorreva i piedi della collina, era bucherellata da tanti fossi che la facevano sembrare più a un letto di un fiume. Perciò decisi di accostarla in una rientranza, confidente del fatto che la zona non era a rischio di valanga. Proseguii a piedi. Ero più che sicuro che lui non mi avrebbe teso nessun agguato, fuori dal monastero, tanto che fremeva nell’aspettarmi nella sua tana a fauci spalancate, traboccanti di bava. La strada finiva in un sentiero tanto stretto da poterlo attraversare soltanto in fila indiana, e i rami invadenti che spuntavano nel mio cammino mi ricordavano quella folla, che beffa uno che sale al patibolo. Nell’aria un’opaca nebbia ottenebrava il sottobosco e una gelida brezza mordeva i tronchi. Sudavo freddo e l’angoscia aumentava a ogni metro guadagnato. Ma continuavo. Dovevo. Finalmente vidi un cartello in legno “Convento delle suore del santo Rosario tra 40 minuti”. Stavo cacciando quasi un grido perché vidi una bambola di porcellana impiccata a un ramo. - “Bastardo.”- dissi ansante. Notai con mia grande sollevazione che il sentiero a un certo punto terminava e scorsi con la luce della torcia il portone della chiesa. Esso era un po’ spaccato forse perché vittima di atti vandalici. Dal rosone spiccarono il volo delle cornacchie. Accanto si ergeva minaccioso il convento. Deglutii. Controllai se vi potessero essere delle eventuali entrate e scorsi non lontano dal campanile un portale ad arco dove una delle due ante era ceduta. “Mi vuole davvero facilitare il compito” pensai. Attraversai quelle che furono le ormai rimanenti mura portanti, ed ero dentro. Ero all’interno del chiostro. Al centro vi era un pozzo. Proseguii dritto. Alla mia sinistra vi era una cappella con degli affreschi nel soffitto, dove vi era rappresentato Cristo che, risorto dalle tenebre, sfoggiava tra le mani una bandiera con scritto “beati sunt homines, qui sua sorte contenti sunt”; e un altare con sopra un tabernacolo. Continuai. Le scale non salivano, ma scendevano immergendosi nell’oscurità. Respirai affannosamente, asciugandomi la fronte per il sudore che culava dai capelli, con la torcia in una mano puntata verso il minimo rumore e il coltello a serramanico nell’altra. A un certo punto sentii una voce anziana che mi chiamava. - “Santiago, Santiago, Santiago vieni qua.”- Anche se mi rendesse sempre di più nervoso questo eco malato, rimanevo ugualmente guardingo. La scala, che si mostrò poi essere a chiocciola, terminò nella cripta. Vi erano quattro sarcofaghi socchiusi dove in un ognuno di essi vi erano delle targhette, e appresi che vi erano due monache santificate e due abati. Anche se mi sembrava strano, non ebbi il piacere di guardarvi all’interno. L’eco si faceva più forte e poi, a un tratto, finì. Puntai la torcia davanti. Vi era una parete molto grande, e un mattone che era il più sporgente tra tutti. Lo toccai e, capendo che era flessibile, spinsi e vidi con tanta sorpresa che esso ruotava in senso antiorario. Nella parete apparve una fenditura con una serratura. Infilai la chiave che avevo trovato sul mobile della specchiera. Accompagnato da un rugginoso rumore di ingranaggi si allargò e degli esili raggi di un bagliore artificiale si propagarono, rischiarando un po’ le tenebre della cripta. E… il fuoco delle torce illuminava il suo volto. I pochi capelli rimastogli bianchi e trasudanti di sporcizia cedevano il passo a una pelle raggrinzita che rimarcava le sue incavate orbite e le pupille spiritate, le sue labbra screpolate e i denti marci. Stava lì. Sembrava un lupo che studiava come assaltare la preda. Ritornai in me stesso. - “Ehi, hai rovinato la vita della mia matrigna e anche quelle delle altre novizie, brutto maiale schifoso!”- Ci stavo andando in contro, preparandomi a usare il coltello a serramanico quando misi il mio piede in una mattonella leggermente inclinata e venni sollevato a testa in giù e mi ritrovai a mezz’aria. Il coltello era fuori dalla mia portata. Sorte maledetta. E fu allora che iniziai a tremare di paura, non appena iniziò a camminare verso di me trascinando un crocifisso in mano con la parte finale affilata a mo’ di lama. - “Se inizi a gridare, cosa che è inutile visto che siamo in mezzo a una collina e tanto dovrai morire, ti taglierò la lingua.”- - “Brutto bastardo!”- cercai di divincolarmi e di issarmi- “hai rovinato la vita della mia matrigna e di tutte le novizie.”- ripetei, sputando a terra, anche se parte della saliva gocciolava sulla narice. - “Sta attento a sputare qui, i corpi degli altri semi in che modo ti hanno danneggiato?”- un brivido mi salii lungo la schiena- “E poi io non ho rovinato niente e nessuno”- diceva con tono malizioso- “ho solo cercato di estirpare il diavolo che era in lei, la lonza che la stava attanagliando.”- - “Come scusa?”- - “Da quando scoprii che lei stava consumando una relazione con il giardiniere” - continuava lui a giustificarsi- “iniziai a purificarla con l’acqua, con il fuoco e con il suo stesso male. Ma alla fine la bestia prese anche me.”- Il mio diaframma si contraeva a dismisura e allo stesso tempo la mia coscienza era totalmente concentrata sulle parole di quel folle. - “Quando capii che il diavolo aveva contagiato tutto il convento, feci lo stesso con le altre novizie. Loro mi supplicavano di smetterla, ma io sapevo che era Satana a muovere le loro labbra. Poi quando mi accorsi che l’angelo caduto aveva mandato i suoi emissari, allora… li esorcizzai.”- Come un arringatore aspettò qualche minuto per enfatizzare la parte finale del suo discorso così tanto folle. Capii una cosa nel mentre. - “Brutto verme hai ucciso pure mio padre?”- - “Ma purtroppo Sargatanas l’ha guidato fuori, ma almeno ho rimediato ciò che altrimenti sarebbe stato irrecuperabile… gli tolsi la parola.”- Cercai di afferrarlo, lui si allontanò. - “E invece riguardo mia madre? Sai che si è ribellata? E ho pure vinto?”- Lui fece un ghigno. - “Gesù protegge le sue pecore e Dio i suoi pastori.”- - “Aveva aspettato un bambino da te, ma saggiamente ha deciso di abortire e di custodirlo dentro il ventre. Sai cosa vuol dire questo?”- Allora lui sollevò il crocifisso e colpì la mia fronte, facendo sgorgare del sangue. Imprecai per il dolore. Poi fece riscaldare la lama con il fuoco della torcia e si avvicinò. - “Ma ora… uccidendo l’Idra, che Dio mi assista in questo ultimo esorcismo e onori la mia opera come fece con Abramo sul monte Moriah.”- Pensai “questa è la mia fine”. Sollevai gli occhi e la lama in procinto di colpire. Ma Armando, nascosto nel buio, scattò verso di lui e agilmente con un palo di legno lo tramortì e svenne. Piansi lacrime al contrario. Capitolo 13= Trombe dell’apocalisse. “Se sapete che egli è giusto, sappiate che anche quelli che praticano la giustizia sono nati da lui”. Giovanni 2:29. Alle 18 di un pomeriggio tuonante, le mie orecchie avrebbero finalmente (o forse) ascoltato e i miei occhi guardato ciò per cui avevano lottato sin dall’inizio, cioè la condanna di quel mostro; e forse le mie Erinni e il debito che avevo con mia madre si sarebbero dileguati come dei brutti incubi. Io e Armando, nel ruolo di verbalizzanti, eravamo seduti a una estremità del banco dei giudici, mentre quel mostro che un tempo osava portare la croce sul petto, era sistemato sul lato della porta. Tutti ci alzammo all’entrata dei sei giudici popolari e dei magistrati dopo cinque ore di consiglio. Si ricompose il silenzio. Il giudice Antonio Brigo, schiarendo la voce, pronunciò la sentenza. - “In nome del popolo italiano nel tribunale di Milano, visti gli articoli del codice di procedura penale 613-bis c.p per aver causato traumi indelebili e acute sofferenze con violenza alle sue, ormai decedute, assistite monacali, 558- bis c.p. per aver indotto loro alla morte, 412 per occultamento di cadavere e 575 per omicidio dichiaro Massimo Opera colpevole dei reati a lui ascritti, in concorso unificato sotto il vincolo della continuazione e condanna, alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per la durata di un anno, oltre al pagamento delle spese processuali di custodia cautelare di 100.000 € per le parti civili, visti gli articoli 29 e 32 del codice penale dichiaro l’imputato interdetto dai pubblici uffici, visti gli articoli 538 e seguenti del codice penale l’imputato è obbligato al risarcimento in solido dei danni cagionati alle costituite parti civile, visto l’articolo 539 del codice di procedura penale condanno l’imputato al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva pari a 230.000€ in favore della parte civile Santiago Bertischi e a 150.000€, in favore dei ministri della difesa e del ministero dell’interno in persona dei rispettivi ministri pro tempore, l’udienza è sciolta, grazie.”- Il magistrato e i giudici popolari si recarono verso l’uscita allo stesso modo inespressivo e neutrale in cui entrarono. Guardai Armando con la faccia di ha attraversato l’inferno insieme alla propria guida e ha scalato le più alte vette del paradiso. Ognuno di noi con le proprie ambiguità, ma in quel momento vincitori di un’unica battaglia. La nostra. 4 mesi dopo… “Sei stata più di una matrigna per noi, insegna agli angeli a far ridere, mentre si piange.”- “Dovrei sostituire matrigna con madre” pensavo. Le lettere dell’epigrafe del nome e delle date hanno perso la loro lucentezza. “Devo trovare una soluzione anche per questo” penso ancora. Il mio, in quel momento, è un aggrovigliato pensare. C’è un’immensa pace dopo che le avevo raccontato tutto quello che mi era successo prima e dopo la sua morte. Silenzio adesso. Solo un’ultima cosa ho il desiderio di dirle come, d’altronde, è sempre stato… - “Mamma, sai che ti voglio bene, non scordarlo mai, ci vedremo prossima domenica.”- Faccio cenno ad Armando di andarcene. A dieci metri dal cancello vedo lo stesso uomo anziano che era seduto nella panchina, di fianco, durante il funerale. Mi fissa. - “Un attimo”- - “Va bene Santià, basta che ti sbrighi che Flavia e Margherita ci aspettano.”- Appena fui abbastanza vicino a lui apro le braccia, lui fa lo stesso e ci abbracciamo. Vuole dire qualcosa. Le sue labbra sono un po’ spalancate e il fiato esce, irregolare, ma non può. Si mette a piangere. - “Lo so papà, va tutto bene.”- Vicino a noi ci sono due pozzanghere… come si strappano e si deformano con la tempesta, allora nel colore e nelle loro forme si ricuciono. FINE (23:03 29/03/2023 iniziato nel 2019)
   
 
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