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Autore: Orso Scrive    08/04/2023    1 recensioni
Alberto Manfredi e Aurora Bresciani ricevono l’incarico di gestire la sicurezza di una mostra dedicata alla storia della frontiera americana. Fare la guardia a vecchi cimeli privi di valore non sembrerebbe essere un incarico molto gratificante, per i due carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale. Ma dovranno presto ricredersi, quando la mostra verrà sconvolta da uno strano furto, che sembra collegato a un’antica maledizione degli indiani d’America e alla scoperta, ai tempi della frontiera, di una miniera misteriosa…
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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4.

 

 

Roma, Italia, marzo 2022

 

 

 

«Ti rendi conto che, in questo posto – di solito – vengono esposte le opere di Leonardo, o di Raffaello, o magari di Michelangelo, o comunque dei grandi uomini della cultura italiana? Te ne rendi conto o no, Manfredino?»

Aurora Bresciani stava seguendo con aria poco meno che scioccata l’allestimento in corso della mostra.

Alcuni operai, diretti da un archeologo americano giunto apposta dagli Stati Uniti, stavano provvedendo a sistemare negli espositori vecchie armi da fuoco arrugginite, finimenti di cavalli di cuoio rinsecchito, uniformi lacere che risalivano alla Guerra Civile, copricapi indiani mezzi marciti e altre cose del genere. Su tutto, aleggiava un odore poco meno che ripugnante, che si attaccava addosso e penetrava nelle narici con la prepotenza di un morbo pestilenziale.

«Sembra di stare a un mercatino delle pulci dove sia rimasto soltanto il ciarpame», commentò ancora, aspra. «Con la sola differenza che lì, di solito, è già tanto se si vede un vecchio vigile urbano aggirarsi tra i banchetti. Di certo, non ci si trova un’intera squadra speciale.»

Alberto guardò per un istante l’archeologo americano maneggiare con amorevole cura una sciabola – che, a quanto pareva, era la replica esatta di quella utilizzata dal colonnello George Armstrong Custer a Little Bighorn, dal momento che l’originale era andata perduta – e spostò lo sguardo su Aurora. Anche lei, cosa insolita, considerato che la maggior parte delle volte agivano sotto copertura, indossava la divisa. Al contrario di lui, però, la vestiva con una grazia rara, una grazia a cui facevano da contorno i capelli rossi, che aveva raccolto con eleganza dietro la nuca.

«Secondo Iannaccone, questa mostra è importantissima», riferì. «Stando al colonnello, ha il compito di rinsaldare il profondo legame di fraterna amicizia tra il popolo italiano e quello statunitense, mettendo in mostra nel cuore della Città Eterna i simboli della cultura d’oltreoceano.» Fece una pausa e sogghignò. «Parole sue, eh.»

Aurora atteggiò le labbra a una di quelle smorfiette a cui Alberto era sempre incapace di resistere.

«Penso che, dagli Stati Uniti, avrebbero potuto inviarci ben altri simboli di cultura, oltre a questa paccottiglia informe», commentò. Spostò lo sguardo. «E magari un esperto migliore di quel buzzurro lì. Guardalo, dannazione: sembra uscito da un film western.»

Il buzzurro uscito dal film western in questione era l’archeologo che si stava occupando della mostra. Il professor James Shelton, ricercatore e docente dell’Università del Texas. In quel momento, si stava sbracciando all’indirizzo di due operai intenti a trasportare una cassa con stampigliata la dicitura “fragile”.

L’uomo, in effetti, si sarebbe potuto scambiare davvero per uno sceriffo del vecchio West. Indossava una giacca marrone di fustagno al di sopra di una camicia bianca, il cui colletto era chiuso da una cravatta texana ornata da un teschio di bufalo in argento; calzava blue-jeans e stivali da cavallerizzo; sopra i capelli tenuti in ordine dalla brillantina, portava un cappellone bianco da cow-boy e teneva lo sguardo celato da un paio di occhiali da sole dalle lenti nerissime, che non si era tolto nemmeno per un istante. Un paio di enormi baffi gli ornavano le labbra, mentre le guance non erano state rasate da almeno tre giorni.

Quando si era presentato loro, con una vigorosa stretta di mano e un tono di voce che rasentava il disturbo della quiete pubblica, sottolineato dal suo incomprensibile accento texano, aveva chiesto in confidenza di chiamarlo Jim.

Manfredi si strinse nelle spalle.

«Che vuoi farci? Come dice il colonnello, dobbiamo essere usi a obbedir tacendo…»

«Sì, sì», tagliò corto Aurora. «È proprio meglio tacere, perché se dicessi quello che ho in mente…» Sbuffò. «Vado fuori a fumarmi una sigaretta, ché altrimenti divento nervosa, e quando sono nervosa, tendo a essere dispettosa, e allora…»

Senza aggiungere altro, si voltò e si allontanò di buon passo. Alberto restò incantato a fissare il suo tondo didietro ancheggiante.

«Tenente», lo richiamò alla realtà il maresciallo De Crescenzo, avvicinandosi. «È tutto sistemato. Ho predisposto il servizio d’ordine, e ho disposto i turni di sorveglianza dei vari agenti, in modo che il luogo resti vigilato di notte come di giorno.»

Il maresciallo Gennaro De Crescenzo era un uomo di mezza età, piccolo, baffuto e in sovrappeso. In apparenza, non ci si sarebbe fatta molta affidabilità. Eppure era abilissimo nel suo lavoro, e Alberto doveva a lui molte delle cose che aveva imparato.

«Molto bene, maresciallo», replicò Manfredi. Infilò le mani in tasca, assumendo la posa meno marziale che fosse in grado di mettere in atto. «Anche se sono abbastanza sicuro che nessun ladro cercherà di entrare qui dentro, né stanotte né fino a quando sarà finalmente stata sgomberata questa sottospecie di parodia di una mostra.» Annusò l’aria, impregnata del tanfo della paccottiglia, e fece una smorfia. «Penso proprio che basterebbe questa puzza a mettere in fuga qualsiasi malintenzionato.»

De Crescenzo gettò uno sguardo a una delle vetrinette, che conteneva alcuni proiettili di Colt schiacciati, blu per l’ossidazione. Il cartellino che li accompagnava informava chiunque si fosse preso la briga di leggerlo che erano stati raccolti a Tombstone, nell’ottobre del 1881, subito dopo la celebre sparatoria all’O.K. Corral che aveva contrapposto i fratelli Earp alla banda Clanton.

«Mannaggia, tenente, che razza di porcherie», borbottò. «E pensare che, in questo momento, saremmo dovuti essere impegnati a pianificare i dettagli dell’incursione in Croazia, nella villa di Rakovac.»

Alberto scosse il capo. Il viso gli fu oscurato da un’ombra cupa.

«Non parlarmi di quel pelatone, o mi viene l’orticaria…»

Quella era una faccenda quasi personale, per lui.

Rakovac era un boss della malavita dei Balcani, che aveva la mania di collezionare tutte le rappresentazioni che, nel corso dei secoli e dei millenni, erano state date della Grande Madre mediterranea, la dea primigenia a cui era devoto. Solo che, nella sua personale collezione – composta quasi per intero di opere rubate – era compreso anche un quadro di enorme valore che era stato trafugato dall’Italia: la Venere impudica, di Sandro Botticelli. Alberto aveva giurato a se stesso che, prima o dopo, sarebbe riuscito a recuperare quell’opera d’arte. Da qualche mese, quindi, stava studiando un piano minuzioso e dettagliato per entrare nella villa di Rakovac e recuperare il quadro, anche grazie ad alcune informazioni che era riuscito a ottenere da un ex collaboratore di quello che, per lui, era il pelatone.

Purtroppo, aveva dovuto rimandare i suoi piani di incursione a causa di questo assurdo lavoro che Iannaccone gli aveva rifilato all’improvviso.

«Ce la faremo, tenente», lo rassicurò De Crescenzo. «Nel nostro lavoro, ci vuole pazienza. Servono anni – a volte, persino decenni – ma, alla fine, si riesce sempre a recuperare ciò a cui si punta. Siamo segugi inarrestabili: quando fiutiamo una pista, non la molliamo finché non abbiamo raggiunto la preda.»

Alberto fece un sorrisetto. Gli sarebbe tanto piaciuto riuscire a condividere l’ottimismo del maresciallo. Eppure, si sentiva come se gli mancasse qualcosa. Qualcosa di suo. E non sarebbe mai riuscito a sentirsi davvero completo fino a quando il quadro a cui stava dando la caccia non sarebbe stato esposto dentro un qualche museo italiano.

Era una faccenda che gli stava profondamente a cuore. Qualcosa che aveva preso sul personale.

«Ci riusciremo, tenente», lo rassicurò ancora De Crescenzo, intuendo i suoi pensieri.

Manfredi annuì.

«Intanto», disse, senza riuscire a celare il proprio sarcasmo, «dobbiamo badare che nessuno provi a trafugare tutti questi tesori.»

Tornò a guardare il dottor Shelton, impegnato ad appendere a una parete un ritratto di Buffalo Bill. Lo maneggiava e lo fissava con la stessa venerazione con cui, ne fu sicuro, lui avrebbe maneggiato e fissato la Venere impudica di Sandro Botticelli.

A ciascuno il suo, si disse, con un’alzata di spalle.

 
   
 
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