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Autore: Zyadad_Kalonharysh    11/04/2023    0 recensioni
Anni prima della scoperta del continente oscuro, si scopre un altro continente enorme e mai visto prima. Una macroregione composta da cinque piccoli continenti: Europa, Asia, le due Americhe, Africa e zone di vaste distese ghiacciate. Alcuni coraggiosi abitanti di questo continente provano a raggiungere York Shin City, ma scompaiono misteriosamente dopo l’atterraggio presso la repubblica di Padokea. Alla scomparsa degli incursori, i cui responsabili sono ignoti, segue la comparsa di alcuni personaggi eccentrici alla ricerca di risposte.
Espedito Petracelli è il presidente incaricato dell’organizzazione WCS (Worlds Communication Services) e si è ritrovato a svolgere questo ruolo improvvisamente dopo la morte del padre. La sua vita fatta di lusso, moda e serate eleganti verrà stravolta per una nuova avventura non molto glamour.
Genere: Avventura, Azione, Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het, Shonen-ai | Personaggi: Genei Ryodan, Gon Freecss, Killua Zaoldyeck, Kurapika, Leorio
Note: Cross-over | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Le Petit Dejeuner

La tua rassegna mattutina a portata di click!
MONDO – GEOPOLITICA
Come fa un aereo a sparire nel nulla?
Domenica, 10 Marzo 2019 – Articolo a cura di Letizia Squaratti
 

La scomparsa del volo WCS003 avvenuta lo scorso maggio è ufficialmente passata alla storia come uno dei casi più misteriosi dell’aviazione generale. Sull’aereo c’erano ventidue persone, di cui cinque dirigenti della Worlds Communication Services.
Ma cos’è la WCS?
Ce lo spiegò Huldrych Petracelli in persona, ex presidente del parlamento europeo scomparso anch’egli nel volo: «la WCS nasce dall’unione di piccole divisioni dei servizi segreti di diversi stati e si occupa principalmente di tutto ciò che è oltre i confini delle nostre cartine geografiche. Quando Horst Schaffen ha teorizzato e poi dimostrato l’esistenza di altri continenti, i governi hanno manifestato poco interesse verso la cosa, preferendo evitare di innescare conflitti. L’intenzione della nostra organizzazione, però, non è creare conflitti ma connetterci con il mondo esterno». Huldrych è stato pochi mesi prima della scomparsa al centro di un grave scandalo che coinvolse vari funzionari europei, legato a un giro di prostituzione.

POLITICA – Il presidente Petracelli è sotto inchiesta, parole gravissime: escort e corruzione.

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La gestione della WCS è stata affidata ad Espedito Petracelli, figlio di Huldrych e attore di fama internazionale, che conta al suo attivo ben dieci premi Oscar, un Emmy e due Grammy. Ironia della sorte, poco prima che la sua vita fosse spiazzata da questo evento ha ricevuto una nomination per i Tony Awards, con la quale potrebbe essere consacrato allo status di EGOT.
SPETTACOLO – Espedito Petracelli inarrestabile: quattro Oscar per il film “Dov’è finita Audrey?”
MODA – Espedito Petracelli in Jean Paul Gaultier sul red carpet degli Oscar del 2019

Dichiarata la scomparsa di Huldrych, la prima azione di Petracelli come direttore generale della WCS è stato presenziare alla conferenza di Anversa. Tale conferenza si è svolta a porte chiuse e non ci è dato sapere cosa sia successo, ma delle indiscrezioni parlano di un capo di stato “alieno” venuto a contrattare.

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Alla conferenza c’era anche Grazyna Piotrowski (spesso translitterata dalla stampa in “Graziina Petrovsky”), la quale non ha avuto peli sulla lingua nel commentare l’evento poche ore dopo sul suo profilo Twitter, pur non specificando il motivo del suo disappunto (probabilmente, sarebbe incorsa in una violazione del segreto istruttorio).

MUSICA – Step Right Up, l’album di Gracie che è da trentasette settimane nelle classifiche Billboard
GOSSIP – Gracie è tornata single, fine della storia con l’attore Robert Kessler

Virali sono gli hashtag #LetUsKnow e #Anversa, lanciati dopo le proteste che si sono verificate in tutto il mondo da parte dei cittadini spaventati, stanchi di essere tenuti all'oscuro di tutto.
Uno scambio che ha aggiunto tensione è quello tra l'agente NSA Natasha Valente, che ha espresso scetticismo sul nepotismo insito nella WCS, e la presidente di commissione WCS Patricia Buffay, la quale ha maldestramente cercato di calmare le acque, ricevendo migliaia di critiche dall'opinione pubblica che sembra schierarsi con la NSA.

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Capitolo 1

Il defunto Huldrych lascia al figlio Espedito un ingrato compito.

Incidenti diplomatici

Mostri, animali rari, tesori e ricchezze, terre selvagge e luoghi sconosciuti. La parola “sconosciuto” porta con sé un enorme fascino. Ci sono molti uomini incredibili attratti da tutto questo potere, attratti più dall’avventura e dal rischio di per sé che dai potenziali bottini.
Ci sono storie memorabili di eroi, uomini perseveranti gonfi di speranza che intraprendono pericolosissimi viaggi per perseguire i loro obiettivi. Parenti da ritrovare, tragedie da vendicare, amici da salvare e amici da supportare. Sono queste le cose che spingono un uomo a diventare un eroe, una figura che diventerà di ispirazione e le cui gesta racconteremo ai nostri figli.
 
Se pensate che questa sia la mia storia, forse è il caso di iniziare subito con un collettivo bagno di realtà.
Benvenuti nell’era del disincanto. Nessuno vuole diventare più forte e nessuno ha storie da ricordare. Ci alleniamo per dimagrire e le nostre storie sono da dimenticare. Il personal branding e il non essere tagliati fuori dalla società hanno la massima priorità.
Achille si è gettato dal ponte di Brooklyn e Ulisse non ha mai fatto ritorno sulla Staten Island. Non viviamo di sogni e determinazione a New York.
Viaggiamo, paghiamo le tasse, spendiamo quattrocento dollari per una borsa di Valentino e non abbiamo compagni di avventure.
 
Io non avrò compagni, ma ho qualcosa di meglio: le mie amiche.
Sembra appena ieri, quando mi sono trasferito in questa città con la mia amica di infanzia Graziina Petrovsky. La quota Polly Anna della mia cerchia è venuta qui con la speranza di diventare una popstar. Penso che il fatto che quasi ogni anno ha portato a casa un Grammy, per un totale di quattro, significhi che ci sia riuscita. Partner di caccia e avventure tra Escada, Dior, Versace e Roberto Cavalli, ha ventuno anni e si presenta sempre con i suoi capelli neri piastrati e un vestitino rosa che è un faro nella notte. Il suo albero genealogico è un po’ incasinato: suo padre è polacco, sua madre è italiana e parte della sua famiglia è ebrea.
Quando mio padre Huldrych è morto e sono diventato presidente della WCS, ho affidato a lei il grande dipartimento delle pubbliche relazioni. Nonostante questa sia un’esperienza potenzialmente mortale, lei ha accettato di darmi una mano.
Un anno e mezzo fa, invece, ho conosciuto Maxine Parker, avvocata penalista di ventinove anni. Capelli rossi e quasi sempre corti, si veste sempre di colori caldi. Donna di enorme talento e ampia gamma di competenze che spaziano dalla balistica alle investigazioni speciali sul terrorismo. Mi ero rivolto a lei dopo la morte di mio padre per una grossa serie di peripezie legali dovute al suo dubbio operato quando era in vita. Il suo lavoro ineccepibile più il fatto che ha rappresentato grandi multinazionali come Johnson & Johnson, Volkswagen e Telecom Italia sono tra i motivi per cui l’ho scelta al mio fianco. Oggi, è la presidente del dipartimento ufficio legale della WCS.
Quanto a me, il mio nome è Espedito Petracelli e sono una pluripremiata star cinematografica. Non lo dico io, che sono una persona umile. A dirlo sono i miei quattro Academy Awards. Ho ventiquattro anni e vivo a New York da dieci anni. Mentre la mia terra natale è Lugano e il mio intero albero genealogico non esce dal Ticino.
E adesso siamo qui. Pronti per un’avventura completamente nuova e sicuramente con un livello di rischio che mai abbiamo sperimentato prima. Ma abbiamo fatto i compiti, le nostre ricerche e un duro addestramento. Forse non tutto è perduto.
 
La vita è una cosa strana. Nel giro di un secondo, può cambiare la rotta che hai pianificato per vent’anni e ti ritrovi a rifare tutto da capo. Possono accadere cose monumentali, ma sono fiero di essere rimasto la persona che ero, nonostante tutto.
Oggi è quel giorno. È da un’intera mattinata che preparo meticolosamente il mio look. Ho fatto sistemare i miei lucenti capelli corti e biondi, qualche iniezione di acido ialuronico perché non si sa mai e controllato che tutti i bagagli fossero già all’interporto. Ma gran parte del tempo l’ho speso per scegliere come vestirmi. E lì, nella mia enorme e illuminata cabina armadio, mi ritrovo in quello che finora è stato il mio dramma più grave: un armadio pieno di vestiti e nulla da mettere. Scelgo di stare comodo. Metto su una camicia e pantaloni neri di Prada, lasciando tutta la scena a una giacca dorata di Roberto Cavalli. Mi sento finalmente pronto, così afferro la mia borsa Alexander Wang e mi precipito fuori casa.
 
Dopo qualche isolato a piedi, Graziina spunta dall’angolo della strada. Come immaginavo, è completamente firmata Dior tra l’abito, il berretto vintage e la stupenda borsa in pelle di Lady Dior. Ovviamente, è tutto così rosa da renderla riconoscibile persino tra il pubblico del Madison Square Garden quando giocano gli Yankees.
«Ho sbagliato l’indirizzo!» piagnucola. «Devo ancora abituarmi al fatto che hai una casa nuova. Hai lasciato SoHo per l’Upper East Side, che coraggio.»
«Tu abiti da sempre nell’Upper East Side», le faccio notare, mentre ci incamminiamo verso la mia limousine. «Non ti smuoveresti mai da Park Avenue.»
«SoHo è bella per le serate, ma non ci abiterei. Dopo la baldoria mi piace tornare nel mio lussuoso condominio, nel mio appartamento da favola. L’altra sera c’è stato il galà di Serena Graham…»
«Non sarai andata a una festa di cocainomani!» la guardo stizzito. Serena Graham è una ragazzina che spende i soldi del padre per eleganti e austeri ricevimenti dove le persone più schifosamente ricche di Park Avenue si riuniscono. Questo, almeno, sulla carta. In realtà, quelle feste sono una scusa per vendere cocaina. «Se hai pippato ti lascio qui sulla trentaduesima e vado in missione da solo.»
«Ma no! Sono solo passata per dare un’occhiata. Ho incontrato Robert.» le scappa una risatina.
«Cioè, in altre parole, lo hai tampinato sperando in una riconciliazione», le dico, ricevendo uno sguardo da cane bastonato come risposta. «Come farai quando saremo a duecentomila chilometri da qui?»
«Potremmo riconciliarci a distanza!»
Graziina è un caso perso, un concentrato di ingenuità e romanticismo infantile. Per questo non commento oltre.
Faccio accostare alla Fifth Avenue per prendere Maxine. Al suo ingresso, scoppiamo dalla gioia nel rivederla. L’emozione per ciò che stiamo per fare si taglia con il coltello.
«Allora ragazze, avete ripassato?» Ci chiede Maxine, particolarmente entusiasta. Oggi è splendida: indossa un pratico vestito ocra e un quantitativo anomalo di collane e braccialetti. Ha con sé una Hilfinger con libri e quaderni pieni di appunti al suo interno. Ha raccolto tutte le informazioni possibili su hunter, Nen, geografia del nuovo continente, specie animali, vegetali e tanto altro.
 
L’aereo della WCS è stato rimodernato dopo l’ultima spedizione. La prima mia preoccupazione in quanto presidente è stata quella di assicurarmi che il mezzo con il quale mi sarei trovato a viaggiare per oltre cinquanta ore diventasse il volo di prima classe più lussuoso che si possa avere. È l’unica cosa che mi avrebbe permesso di reggere un viaggio così.
Con un aereo normale, il viaggio da New York a York Shin City sarebbe durato quasi centonovanta ore. Fortunatamente, i lavori di potenziamento hanno dato i loro frutti. All’interno dell’aereo abbiamo le nostre suite, tutte decorate in legno e dotate di doccia, sedili che diventano letti e piccoli frigobar per le bevande. Le suite sono aperte, tanto che possiamo parlare tra noi tranquillamente, ma hanno porte enormi che ci isolano completamente una volta chiuse.  
 «Oh. Mio. Dio.» Graziina spalanca la bocca appena entriamo. «È tutto così splendido!»
«Come promesso, il meglio del meglio!» le rispondo, mentre mi accomodo sul mio sedile. Penso al fatto che non abbia visto il bar e la cabina ristorante situate in fondo, verso la coda dell’aereo.
Maxine sta già frugando nella colonnetta accanto al suo sedile, trovando spuntini, salviette, pantofole, bibite refrigerate e altre cose utili per le nostre cinquanta ore di permanenza ad alta quota.
«Gradisce una Bacca dell’Addio?» Cecily, l’assistente di volo, mi porge un piattino pieno di frutti rossi dalla forma sferica perfetta che, però, io non ho mai assaggiato.
«La Bacca dell’Addio è un tradizionale frutto di benvenuto dello stato di Saherta. Cresce sull’Albero del Mondo, si dice che sia alto 1784 metri», spiega Maxine, mentre afferra una di quelle bacche. «Tuo padre le ha fatte importare, c’è una piccola piantagione in Kazakistan. Trovi tutto in uno di questi», mi porge una pila di libri presi dalla sua borsa, sembrano tutti dei mattoni.
«Sei sempre la prima della classe», la canzono, mentre provo uno di quei frutti. Non mi piace, è troppo aspro.
«Ti ci vuoi trasferire in quel continente?» scherza Graziina.
«Volevo solo informarmi per arrivare preparata. Sapete quanto sono ansiosa quando si tratta di studio», risponde, mentre tira fuori delle riviste.
«Abbiamo cinquanta ore davanti, oggi è venerdì e arriveremo lunedì a mezzanotte. Direi di riprendere lo studio fra una decina di ore», suggerisco io. Le ragazze annuiscono.
«E quando vi serve una pausa da tutte le informazioni utili…» Maxine tira fuori delle riviste dalla stessa borsa. Ce le ha tutte: Vogue, Marie Claire, il New Yorker e qualche giornalaccio scandalistico che ci vergogniamo di leggere in pubblico. Uno di questi giornalacci riporta un titolo che lascia poco spazio al dubbio: “Tradisce la moglie mentre lei è in viaggio per lavoro”.
Sfortuna vuole che questa rivista finisca dritta sotto gli occhi di Graziina, già in ansia per la “riconciliazione” a distanza con il suo ex, la quale prende la rivista e se la porta nella sua suite.
«Devo ammettere che sono eccitata!» Maxine continua a parlare, ignara dell’horror psicologico che si sta consumando dietro di lei. «Chissà quante cose impareremo!»
«Come “non portare HELLO! Magazine su un volo di cinquanta ore insieme a una donna facilmente impressionabile”», faccio notare, mentre butto un occhio preoccupato. Maxine si ammutolisce, con uno sguardo colpevole, e prende posto.
 
Poco più tardi, ci raduniamo al bar dell’aereo. Un ampio spazio dominato da un bancone illuminato dietro al quale è esposta una ricca selezione di alcolici. Graziina è silenziosa, continua a tenere in mano quella rivista.
«Tesoro, hai già riletto quell’articolo dodici volte. Che dici di buttare questo rifiuto editoriale?» la scuote Maxine.
«Tutta questa situazione è già un macigno psicologico», faccio notare io. «Se ci struggiamo pure per gli uomini, siamo spacciate.»
«A voi non preoccupa questa storia che potremmo morire?» risponde lei, con un tono di voce abbastanza serio.
«Tutti i giorni», risponde per prima Maxine. «Ma siamo bravi e lo siamo abbastanza da riuscire a non morire. Come minimo.»
«Io direi di fare un brindisi», mi introduco, mentre ordino tre calici di Dom Perignon. «E di accettare dei regalini che ho comprato da Van Cleef & Arpels!»
Tiro fuori una busta verde con tre bracciali Alhambra di colori diversi. Il mio è blu, quello di Graziina è rosa e quello di Maxine è rosso.
«Anche i colori!» Maxine sembra contenta. «Sai che si abbineranno ai nostri guardaroba. Non me lo toglierò nemmeno sotto la doccia.»
«Se hai voglia di far finire cinquemila dollari nello scarico, fa’ pure!» puntualizzo.
«L’oro è aumentato così tanto?» Graziina sgrana gli occhi. Generalmente non ci facciamo problemi per i regali costosi, è la norma e sappiamo di poterli sempre ricambiare.
«Ormai siamo in questa cosa fino al collo. Questo bracciale mi ricorderà voi ogni volta che lo guarderò», cerco di non essere troppo serio. «Che cosa farei se non vi avessi mai incontrate?»
Missione fallita: Graziina è scoppiata a piangere.
 
Poche ore più tardi, la mora è finalmente nella sua suite sprofondata nel sonno. Maxine arriva nella mia per anticipare le ripetizioni per le quali è sprofondata nell’ansia.
«La documentazione di Washington», dice, mettendomi in mano un faldone ritirato in ufficio questa mattina. Ad una prima lettura veloce, già ho la prima sincope.
«Cosa vuole il Mossad?» domando, freddo. «Ho già detto che con Israele non voglio avere nulla a che fare.»
«La CIA ha insistito per inserire la clausola “antiterrorismo”», mi spiega. Ora capisco l’ansia. «Non interverranno finché non ci troveremo ad attaccare frontalmente.»
«Definirla una clausola vessatoria è un pallido eufemismo. Sanno bene che possiamo solo agire per autodifesa. Che bastardi», mi lamento, arrivando alla pagina dove sono riportate le reazioni alle indagini preliminari. «Hanno invalidato le deposizioni?»
«Questa è bellissima: sono arrivate lamentele all’ufficio legale in merito a “testimoni maleducati”», le scappa una risatina. Io onestamente non so cosa pensare. «Pensano sia stato di cattivo gusto intervistare Hisoka.»
«La deposizione più inutile della storia, lui che parla a ruota libera per un’ora e gli investigatori troppo impauriti per fargli domande dirette. Di chi è stata l’idea?»
«Il coroner, quello che si è dimesso subito dopo.»
«Beh, non posso dire che mi dispiaccia», questo fascicolo è tutto uno schifo. «Non si riesce nemmeno a coordinare le indagini. Ho voglia di spararmi in testa.»
Che è quello che ha fatto il coroner ancora precedente quando è stato informato della scoperta del nuovo continente.
«Io non posso lamentarmi del mio dipartimento, siamo solo in cinque e si lavora benissimo.»
L’idea che il suo ufficio avrebbe potuto essere come quello del procuratore ha fatto recuperare a Maxine un po’ di autostima.
«Nemmeno io, anche se devo sempre star loro dietro», lancio con disprezzo il fascicolo Washington sul sedile di fronte e mi appresto a trasformare il mio in un letto. «Quella che se l’è passata peggio è Graziina. Le hanno rifilato una commissione di sette paesi, parlano tutti lingue diverse e nessuno ha un buon inglese. Inoltre, ci sono dei soggetti davvero incommentabili.»
«Sbaglio o i governi non prendono minimamente sul serio la situazione?» Maxine qui sottolinea l’ovvio.
«Siamo dovuti intervenire per forza, se avessi lasciato l’incarico sarebbe scoppiata una guerra», dico, mentre prendo dalla colonnetta le cose per fare la doccia. «Che palle, ero così felice quando mi sono laureato in scienze politiche. Odiavo quella robaccia, speravo di non doverla più toccare per il resto della mia vita. Ecco come è finita.»
«Per me è veramente difficile associare te a quella facoltà. Tanto meno alla tua tesi di laurea su Chernobyl. Ma perché…?»
«Mio padre», spiego, molto brevemente. «Mi ha lasciato recitare a patto che riuscissi a laurearmi, non si è smosso nemmeno quando ho vinto il primo Oscar. Ha sempre voluto che io lavorassi nei servizi segreti. Alla fine, ha ottenuto esattamente ciò che voleva.»
«E invece Graziina… ha scelto lei di laurearsi in relazioni internazionali?» cerca di farsi due conti.
«Sì, non sapeva che altro fare. Almeno ha una laurea a ventun anni, ci ha messo due anni e qualcosa. Io, invece, mi sono laureato a ventitré. Ha superato persino me, ti rendi conto?», devo ammettere che quando parlo dei suoi successi mi brillano un po’ gli occhi per lei, ma dall’altro lato c’è sempre quello spirito di competizione che non mi abbandona.
«Sembra di vivere in un manga», si lamenta Maxine. «Ma ti immagini? Io prima di qualche anno fa lavoravo su casi di frode, qualche omicidio, criminalità organizzata. Avevo a che fare con procuratori, studi legali… gente rispettabile! Ora ci sono gli Hunter. Per lavoro girano il mondo, si scazzottano e credono che il velluto a coste sia adatto ad una conferenza.»
«Il velluto a coste… Pariston!» quell’aneddoto mi fa sempre piangere dalle risate. «E se la sentiva anche!»
«Con le fantasie scozzesi!» Maxine per poco non si strozza dalle risate.
Pariston è il vicepresidente dell’associazione Hunter. Quando c’è stata la prima conferenza intercontinentale ad Anversa, Netero mandò lui. Si presentò con una giacca orrida e infeltrita davanti a tutti i delegati dei servizi segreti europei, presenziavano anche Trump e Putin (prima che la Russia venisse estromessa dalla missione). Un episodio che alla WCS ci raccontiamo ancora con shock.
Se non altro sono riuscito a far ridere Maxine, raffreddando un pochino gli animi.
«Ho bisogno di un altro drink», Graziina si materializza nella suite, assonnata, scioccata e distrutta. Ha appena letto le mail, glielo si legge in faccia. «Oggi, nella commissione internazionale, la rappresentante spagnola si è presentata con una maglietta con su scritto “Lunga vita a Franco e Salazar”.»
«No, non mi avevi detto che fosse pure franchista», mi cadono le braccia. «Devi assolutamente importi con i servizi segreti, non possono rifilarti i loro peggiori scarti.»
«Ovviamente ho scritto una lettera di lamentele. Non posso lavorare con una così!»
 
Dopo una cinquantina d’ore di studio, cocktail, musica, cocktail, film, cocktail, lavoro d’ufficio e cocktail, l’aereo inizia ad atterrare.
«Bene, l’ultima volta che questo aereo è atterrato…» Maxine va nel panico.
«Non dirlo nemmeno per scherzo.» La blocco subito. Non posso lasciare che si crei un’allerta basata sul niente. «Ma sei scema?»
L’atterraggio non è per nulla disastroso: l’aereo arriva sulla pista senza alcuna difficoltà e degli uomini armati ci scortano all’uscita dell’interporto.
«Ma… è tutto vero?» sento mormorare Graziina, la quale si è appena accorta di aver lasciato quello che per noi era il mondo conosciuto.
«Lo stiamo facendo sul serio?» dico io, colto da un’improvvisa ansia.
I nostri bagagli subiscono un rapido controllo da parte degli agenti governativi degli stati di Saherta e, nel frattempo, dei sottoposti dell’associazione Hunter arrivano senza presentarsi con lo scopo di scortarci all’edificio di Swardani City dove si trova la sede dell’associazione. Notiamo subito che il controllo dei bagagli stia richiedendo troppo tempo.
Il capo di questi uomini, che in realtà si chiama Tsezguerra, mormora cose con l’agente governativo guardando lo schermo dove ci sono i risultati dei controlli.
«Mi scusi, presidente Petracelli.» Tsezguerra si avvicina a me, con un modo di fare estremamente imbarazzato. «Lei ha portato droghe?»
«Che cosa?!» Questa è una cosa talmente ridicola che scoppio a ridere.
Di tutta risposta, mi conduce nella stanza dei controlli e fa vedere come nella scansione un determinato punto della mia valigia risulti completamente rosso.
«Quelli sono ormoni e antidepressivi.» Mi disturba non poco doverlo dire ad alta voce davanti a perfetti sconosciuti. «Non ha mai conosciuto qualcuno con la depressione maggiore e l’ipotiroidismo? Faccia qualcosa!» prendo Tsezguerra dal braccio e glielo sussurro aggressivamente.
«Mi dispiace», risponde lui. «Non possiamo lasciare passare né gli ormoni né le droghe. Sono illegali, c’è gente che li usa per… sa… drogarsi e fare altre cose strane.»
È ufficiale, sono all’inferno.
«Dai, Espedito, manderemo una lettera all’ufficio di Albany e si risolverà tutto», Maxine mi prende per un braccio, convincendomi a desistere dall’ammazzare qualcuno. Nel giro di tre giorni potrei ritrovarmi a impallidire, avere le occhiaie e strani punti in faccia. Non ci voglio pensare, è troppo brutto. «Devi solo attendere qualche settimana.»
«Senza pasticche, creme e vitamine sprofonderò di nuovo nella depressione e nell’orrida pubertà maschile», borbotto, sull’orlo di una crisi di nervi. «Quando tornerà a crescermi addirittura la barba perderò completamente la testa e ci saranno vittime.»
«Ti sconsiglio di usare questi termini durante una missione di pace quando dei funzionari governativi stranieri ci ascoltano», interviene subito Graziina. «Forza e coraggio. Pensa positivo. Pensa ai benefit.» Dice, indicandomi la Maybach con autista che ci aspetta di fronte a noi. Già, i benefit. Grazie a Dio ci sono sempre i benefit.
 
Mentre vengo trasportato a Swardani City, non posso che ammirare il paesaggio. Non credo nemmeno di aver capito che razza di bioma sia, dovrebbe essere una pianura ma con piante che ricordano quelle di una giungla. A guardare meglio, non credo nemmeno di riconoscere le specie vegetali che mi ritrovo davanti. Non posso fare a meno di sorridere e lasciarmi sorprendere dal nuovo.
L’edificio dell’associazione Hunter è enorme, lo vedo in lontananza e lo riconosco dalla gigantografia del logo riconoscibile in alto. Quando siamo nel cortile esterno, davanti alla fontana, ci riuniamo un attimo prima di entrare tutti e tre insieme. Abbiamo avuto modo di farci una doccia e cambiarci prima di scendere. Ci scambiamo delle occhiate per accertarci di essere a posto. Io indosso un completo blu scuro di Prada, Graziina va sul sicuro con Lady Dior in rosa e Maxine in rosso con Valentino. Ci guardiamo negli occhi ed entriamo nella sede dell’associazione a passo coordinato, ostentando sicurezza e classe.
Gli interni non sono male. Da fuori, la sede sembra un complesso di uffici comunissimo, mentre all’interno è tutto molto strano. Rimango particolarmente colpito dalla lampada gigante della hall a forma di grappolo d’uva rosso.
Un fagiolo antropomorfo, che dovrebbe essere il segretario, per qualche motivo ci riconosce subito e ci conduce all’ascensore. Finalmente, forse, avremo l’onore di incontrare il famigerato Netero.
Mentre attendiamo che si aprano le porte del suo ufficio, un inserviente ci porta del tè caldo fatto con una strana ricetta del posto.
«Lo preparano con acqua di rose e cumino», sottolinea Maxine, ovviamente preparatissima, mentre prendiamo una tazza ciascuno.
Nel berlo, la rossa strizza gli occhi e tira un gran sorriso facendo un verso di gradimento. «Molto interessante.»
Anche io ho modo di assaggiarlo. «Molto diverso», sorrido. È tremendo, voglio dell’acqua minerale.
Mi giro verso Graziina, immersa nel suo inferno personale perché è palese che le faccia schifo ma deve sforzarsi di essere gentile. «Da’ qua», glielo prendo, «non è il tuo tipo di tè».
Finalmente, le porte dell’ufficio si aprono. Tutti e tre ci chiediamo se sul serio vedremo in faccia quell’uomo tanto misterioso.
«Buongiorno!» ci saluta lui. Sembra un uomo anziano ma dal corpo molto tonico che potrebbe appartenere a un trentenne. Indossa un kimono con delle fantasie classiche e degli zoccoli. Beh, non il più pratico degli abbigliamenti da tenere in ufficio. La sua voce è rauca, mi domando se ce la faccia a parlare. «Che eleganza!» si complimenta. «Mi presento, sono Isaac Netero.»
«Io sono il presidente Espedito Petracelli», gli stringo la mano. «Dipartimento gestionale interno e servizi segreti.»
«Piacere, Graziina Petrovsky. Dipartimento pubbliche relazioni e servizi umanitari», si presenta la mora, facendo addirittura un inchino.
«Maxine Parker. Ufficio legale e squadra investigativa speciale», la rossa, la più tosta e autoritaria, resta a qualche metro di distanza.
«Intende farmi causa?» ride lui, guardando Maxine.
«Prego?» risponde quest’ultima, un po’ imbarazzata e sicuramente non in vena di scherzi.
«Lei è un avvocato, giusto? Nel caso queste trattative andassero male, sarà lei a fare causa a tutti.»
Il presidente Netero ha deciso di tirar fuori il suo senso dell’umorismo. Sfortunatamente per tutti in questa stanza, Maxine non è tipo da ridere e scherzare con chi non conosce. Men che meno in un contesto professionale. Però, quando deve, sa affermarsi.
«Esattamente. È così che si fa dalle nostre parti. Noi non vorremmo, ma se questo ci eviterà una guerra all’ultimo sangue, tanto vale fare una guerra all’ultima pratica.»
A quell’ultima battutina, il presidente ride di gusto e ci sediamo tutti.
Tutti e tre apriamo le nostre cartelle e tiriamo fuori l’intera documentazione che abbiamo preparato. Oltre mille e quattrocento pagine in un totale di trenta documenti diversi. Poniamo il tutto sulla scrivania, sistemato in un faldone diviso in buste catalogate in base al dipartimento. Ognuno presenterà il suo. Sembriamo i tre Re Magi che portano oro, incenso e mirra.
«Come può vedere, queste sono le disposizioni interne legate all’amministrazione generale», dico, aprendo gli anelli del faldone e tirando fuori la mia busta. «Qui può trovare tutte le informazioni utili legate al nostro modus operandi nella sottoclasse con la dicitura “trasparenza”, organigrammi e una descrizione sommaria di diciotto pagine del progetto.»
«Queste, invece», interviene timidamente Graziina con la sua busta, «descrivono la missione politico-umanitaria nel dettaglio, la nostra collaborazione con i servizi segreti attraverso l’istituzione di una commissione esterna e le intelligence che ci sostengono. CIA, AISE, DGSE… il tutto completo di indagini statistiche e, ovviamente, anche qui un’ottima trasparenza sul modus operandi.»
Graziina è dolce e cara, sicuramente avrà fatto una buona impressione. Ma sta omettendo che queste “collaborazioni” lo siano solo sulla carta, poiché la CIA ci sta addosso e sta facendo il possibile per beccarsi la missione al posto nostro e, in tal caso, anche i francesi della DGSE e l’Unione Europea banchetteranno sulla nostra sconfitta. Ha omesso anche che non abbiamo sostegno da parte dello stato di Israele, che il Mossad ci rema contro e che gli italiani dell’AISE – i nostri unici alleati – siano quelli meno importanti politicamente.
«Questa, invece, è tutta la documentazione legale. Segue il protocollo internazionale voluto dalle Nazioni Unite ed è firmato da centocinque paesi», spiega sempre lei, tutta concitata.
Ovviamente, anche il fatto che ottantotto paesi si siano rifiutati di firmare è stato omesso. Tanto, nessuno può dirci nulla: tutte queste informazioni che stiamo omettendo sono citate nelle sottoclassi “trasparenza” che nessuno legge. Qui dobbiamo solo fare bella figura, non stiamo imbrogliando nessuno. «Ci sono tutti i protocolli ordinati in ordine alfabetico. Seguono informative sul trattamento dei dati, casi di segretezza e procedimenti civili.»
Netero è un po’ a disagio con tutti quei fogli sul tavolo. Ma, esattamente, cosa si aspettava? Non è prassi qui tenere un archivio contabile e tracciare il lavoro tramite rapporti, verbali e circolari?
«Che noia», sbadiglia mentre a stento apre il fascicolo di Maxine, quello con meno pagine.
Nel silenzio tombale, io inizio ad infuriarmi e percepisco l’astio anche da parte delle altre. Ma come si permette? Ma ha capito il tipo di situazione in cui ci troviamo? Perché tutti al netto di noi tre stupide sembrano prendere sottogamba tutto ciò?
«Che noia? Ho sentito bene?» il tono di Graziina è sempre molto delicato, ma il suo disappunto è palese. Le persone scambiano spesso la sua buona educazione per stupidità. Le persone sono stupide.
«Questo non è affatto professionale», commenta Maxine, sprezzante.
«Non è per voi, davvero», si spiega Netero. «Ci sono tante cose che la nostra associazione ha sottomano, fidatevi che il vostro caso in confronto è una barzelletta.»
«Ma come si permette?» sbotto io, stranamente non abbandonando totalmente la compostezza. «Lei lo sa cosa significano questi documenti?»
«Un utilizzo pessimo degli alberi?» mi ridacchia in faccia. Questo non ha capito proprio un cazzo, se permettete. E si crede pure simpatico.
«Questi sono un anno di dibattiti e controversie politiche per mettere i governi d’accordo sulla salvezza della nostra gente», lo freddo sul posto. «Qui ci sono le speranze non solo dei governi ma anche di sette miliardi di persone che temono per le proprie vite. Sette miliardi di persone che non vogliono una guerra. Questi fogli sono tutto. Tutto ciò che abbiamo, tutte le nostre possibilità sono qui, catalogate e formattate alla perfezione perché lei ci prenda sul serio. E lei ha il coraggio di sbuffare e riderci in faccia? Ma chi si crede di essere!»
«Espedito!» mi rimprovera Graziina, cercando di calmarmi.
«No, va bene così. Mi piace», gongola Netero, mentre prende i fogli e li pone ordinatamente in un angolo della vostra scrivania. «Siete tre tipi interessanti.»
Ma pensa che sia una sorta di gioco? Ma che razza di modo di lavorare è questo?
«Quindi ha intenzione di prendere sul serio la cosa e permetterci di procedere?» gli fa Maxine, scocciata.
«Se mi aiutate un po’, sì. Con queste carte mi verrà il mal di testa», confessa con l’aria sorniona che ha da quando siamo entrati. «Cos’è che volete, esattamente?»
Quello che tutte e tre stiamo pensando è che quest’uomo non sappia minimamente come lavorare. Nonostante tutto, cogliamo quest’apertura per parlargli in maniera chiara.
«Vogliamo aprire un arbitrato con la vostra associazione per determinare i rapporti tra i due continenti», gli spiega Maxine, indicando con il dito i passaggi chiave presenti sui protocolli di Albany. Praticamente, lo sta imboccando spiegandogli le cose come si fa ad un bambino. «Lei sa cos’è un arbitrato, vero?»
«In realtà, no.»
Mi cadono le braccia.
«Non è difficile», interviene Graziina con un sorriso a trentadue denti che si alza e si mette accanto a lui dall’altra parte della scrivania. «Guardi questi modelli, rappresentano le varie possibilità. Si definisce controversia un contrasto di interessi od opinioni. Ci sono vari modi per risolverne una, generalmente si ricorre a un procedimento giudiziario. Ma noi non vogliamo questo.»
«Il procedimento giudiziario no. Non lo vogliamo», ripete lui cercando di fissare quell’informazione.
«Si apre così il grande campo dei “metodi alternativi di risoluzione delle controversie”», interviene Maxine, contagiata dalla bonarietà di Graziina. «Possiamo abbreviarli in ADR. La parte importante è che ce ne sono quattro tipi, ma togliendo quelli che riguardano il diritto privato e l’economia, quello che ci interessa è l’arbitrato. Un incontro con i nostri legali dove ognuna delle due parti discuterà le proprie esigenze, per poi giungere a un compromesso. Il lodo avrà la stessa valenza di una sentenza di tribunale, ma senza tribunale.»
«Quello che vogliamo è chiudere la controversia nella maniera più pacifica possibile. Al compromesso sarà associato un trattato di non aggressione tra continenti che istituirà una vera e propria legislatura ad hoc in modo che ogni minaccia alla pace sia ritenuta un illecito.» Alla fine, anche io mi scomodo a spiegargli le cose.
«Vede, è che abbiamo sbagliato», confessa Graziina, facendomi sussultare. «Siamo entrati in questo ufficio con le nostre idee e il nostro linguaggio, dando per scontato che il nostro sia la norma. Non è vero, perché anche noi facciamo una gran fatica a capire il mondo degli Hunter e non abbiamo considerato che dalla vostra prospettiva potesse essere lo stesso. Cambiando atteggiamento, speriamo di riuscire a collaborare.»
Dopo quell’azzardo enorme da parte di Polly Anna, il silenzio di Netero ci lascia in uno stato di forte nervosismo.
«Siete tre soggetti molto singolari», dice mentre si accarezza la barba. «Devo riconoscere le vostre valide argomentazioni e la vostra professionalità. Sarò lieto di fare ciò che posso per aiutarvi.»
Cerchiamo di congedarci con classe e distacco, ma internamente io sto esultando come non ho mai fatto in vita mia. Non posso credere che ce l’abbiamo fatta. Anche se non siamo nemmeno alla linea di partenza, abbiamo vinto la prima sfida e mi sento di celebrare questo piccolo grande progresso.
Quando siamo nel corridoio, tiro Graziina per un braccio. «Cosa ti è preso là dentro?» le faccio una piccola lavata di capo.
«Volevi quell’arbitrato o no?» mi fa la linguaccia. Effettivamente, non è che posso contestarla più di tanto.
«Abbiamo rischiato tanto per via della tua “intraprendenza”», mormoro fingendo di essere arrabbiato. «Ma ce l’hai fatta, complimenti.»
«Graziina è un’anima semplice, ha un approccio positivo alla vita e vede il buono in chiunque», interviene Maxine. «Anche se non lo condivido, è bello che ci siano ancora persone così.»
«Quoto tutto», quasi quasi mi commuovo. «Ma la prossima volta, concordiamole prima certe cose.»
 
Trenta ore senza dormire e sono ancora le quattro del pomeriggio. Abbiamo fatto scorta di Zolpidem, così questa notte bilanceremo nuovamente il nostro orologio biologico. Per quanto riguarda arrivare a stasera senza svenire per strada, c’è Caffè Borbone. L’autista ci porta a York Shin City, dove abbiamo un altro impegno e dove si trova il nostro albergo. Qualche mese prima della nostra partenza, abbiamo affittato un ufficio provvisorio in città. Contiamo, però, di avere una vera e propria ambasciata una volta finito l’arbitrato.
«Chi c’è nell’ufficio?» chiede Graziina, mentre siamo sedute al bar.
«Edna, la divisione dell’ufficio contabile e quella dell’ufficio archiviazioni», le risponde Maxine. Edna è la segretaria del mio dipartimento. «E speriamo di non dover mai convocare nessuna squadra operativa.»
«Penso che tu sia destinata ad essere delusa», sbuffo. «Non possiamo sapere cosa ci aspetta.»
«Ma io dico… pensate che dobbiamo… ehm… anche combattere per difenderci?» chiede timidamente la mora.
«No, l’addestramento serviva per la prova costume», ribatte la rossa, sarcastica. A quella battuta rido di gusto.
«Per essere una metropoli, questa città sembra un paesino di campagna dove hanno ficcato dei grattacieli a caso», commento io, guardandomi intorno.
«Ma infatti, è strana», borbotta Graziina. «Cosa dovevamo fare, oggi?»
«L’incontro col cacciatore di teste», le ricorda Maxine. «Se farà come il presidente, io giuro che mi metto a urlare.»
«Io ho sonno!» si lamenta l’altra.
«Posso vedermela io con il cacciatore, voi fate un pisolino così posso andare a letto due ore prima», mi prende un attacco di altruismo. In realtà, vorrei che l’incontro sia quanto più breve possibile. Un tête-à-tête è molto più scorrevole di una seduta di gruppo come quella con Netero.
«Sarebbe stupendo!» Graziina subito esulta per la cosa.
«Come fai con l’ufficio contabile?» mi domanda Maxine.
«Non farò nulla, a loro basta vedermi per spaventarsi. Se mi portano una documentazione fatta male, giuro che si dimezzeranno.»
«Vuoi licenziare mentre sei in missione?» ride lei.
«Avevamo detto niente violenza fisica», mi canzona l’altra.
«Infatti sto pensando al mobbing per indurli ad andarsene da soli», chiudo io.
 
 
 
Sono le cinque del pomeriggio quando arrivo all’ufficio provvisorio. L’edificio è abbastanza vecchio, l’ascensore sembra un pezzo d’antiquariato e la moquette dei corridoi andrebbe cambiata. Mi faccio il segno della croce prima di entrare perché, se queste sono le premesse, questo posto farà sicuramente schifo.
Oddio, non è che sia male, ma sembra più un call center nella fine degli anni Novanta. Se penso che ci servirà solo per depositare verbali e mandare fax ad Albany, non mi turba. Tanto non ci passerò più del tempo necessario di una firma e una fotocopia, sarà solo un problema dei dipendenti.
«Voglio sulla mia scrivania tutte le documentazioni di oggi. Adesso», non sono nemmeno entrato e già do ordini perché sì. «Edna», la chiamo. «Chiama l’intelligence e riportami i progressi sul nuovo sistema di cifratura. Se esce solo un’altra pagina su WikiLeaks, mi presento subito ad Albany e faccio una strage. Chiama anche l’ufficio legale e, nel caso, dì loro di procedere con querele e diffide. Quando la missione sarà finita, potranno aprire tutti i cablegate che vogliono.»
«Ricevuto», annuisce Edna, mentre sulla mia scrivania si è magicamente depositata una quantità assurda di fascicoli. «Mi consenta, presidente. Il blacklist hunter è già qui.»
«E dov’è?» le chiedo.
Lei mi indica la sala d’attesa e vedo un ragazzo dai capelli biondi e dall’orribile abbigliamento. Un po’ mi stranisce, dai lineamenti del volto deduco che arriverà a stento ai diciotto anni. Ma, dopo l’incontro con Netero che possiamo descrivere come un quadro di Grosz, non mi stupisce più nulla. Tra l’altro, sembra pure abbastanza annoiato e distaccato dalla situazione, visto che si è messo lì a leggere un libro come se nulla fosse. Ma in questo continente c’è qualcuno che abbia voglia di lavorare?
«Prego», dico appena arriva, facendogli cenno di sedersi sulla sedia disposta davanti alla scrivania. Tra i fascicoli sul tavolo, ci sono le informazioni raccolte dall’ufficio risorse umane su di lui. Cioè, il nulla cosmico. Mi toccherà andare a mietere vittime anche da loro. «L’ho fatto contattare dalla mia segretaria perché so che si occupa di taglie.»
«È giusto», differisce rapidamente. È un tipo di poche parole, ma sembra abbastanza educato.
«Bene, Kurapika», dico, leggendo il nome. «Qui non c’è il cognome», noto controllando tutte le pagine del fascicolo.
«Non ce l’ho.»
Vorrei fare domande ma non ne ho voglia. «Io penso che sia stato già adeguatamente informato della situazione. So che ha avuto un canonico colloquio per via telefonica con la signora Biete del dipartimento pubbliche relazioni.» Mentre gli parlo, a stento lo vedo negli occhi, sono assorto a leggere le documentazioni. «Nel caso, ripeterò brevemente. Lei sarà come una guardia del corpo, ma in una maniera particolare. Dovrà fare da radar individuando taglie e ogni tipo di rischio per chi lavora alla WCS. Lei dispone di una regolare licenza da Hunter, con la quale può ottenere informazioni specifiche alle quali noi non abbiamo accesso. È disposto a farlo?»
«Credo di potermene occupare», dice con poca modestia pur non sembrando arrogante.
«Per quanto riguarda il pagamento, viene elargito mensilmente attraverso un assegno circolare presso la banca nazionale di York Shin City. Sono fondi governativi, non se ne occupa la WCS, quindi dovrà vedersela con la banca», quando mi accerto di aver detto tutto il necessario, mi appresto a chiudere la conversazione. «Bene, se non ha altre domande possiamo passare alla firma. Mi dia la sua PEC[1]
«La mia cosa?» mi domanda, stranito.
«Posta elettronica certificata. Deve pur averne una.»
«Mi dispiace, ma non dispongo di nulla di simile», alza le braccia al vento. «Posso lasciarle il mio cellulare.»
Questa cosa non ha senso. Non c’è un campo per il numero di telefono sul portale dell’organizzazione. Per queste cose si usa la PEC, è una questione di professionalità e affidabilità. Ma non ho voglia di affrontare un’altra mediazione, ci perderei definitivamente la testa. E anche se rifiutassi lui, probabilmente non troverei comunque nessun Hunter con una PEC. E meno male che sul discorso “tasse” non mi ci addentro nemmeno.
«Va bene. Risolviamo così», gli dico. «Il numero di cellulare lo tengo io, per le comunicazioni strettamente importanti. Ma, purtroppo, non posso procedere senza un indirizzo di posta elettronica certificata. Se non è di troppo disturbo, posso chiedere alla segreteria di fargliene una ad hoc.»
«Non ho problemi in merito», dice con fare un po’ stranito. È un tipo a cui non piace perdere tempo, su questo siamo più che in sintonia.
«C’è da firmare il contratto e diverse liberatorie a cui prestare il consenso informato», gli porgo il fascicolo. «Questo è il contratto, poi c’è l’informativa sul trattamento dei dati, quella sulla crittografia, quella sulla sicurezza e l’accordo biunivoco di segretezza», gli spiego, indicandogli ognuno dei documenti, mentre chiamo Edna con la linea interna.
Kurapika sembra molto sorpreso da tutte queste scartoffie che ci sono di mezzo. Beh, non l’ho inventata io la burocrazia.
«Non ho mai visto un operato così… qui ci sono descritte una marea di casistiche…» commenta.
«So che è un po’ pesante. Vede, mi piace fare le cose in maniera trasparente e pulita. Per questo sono molto esigente con la burocrazia», gli spiego. In qualche modo si è guadagnato la mia simpatia. Quando il biondo consegna tutta la documentazione compilata, la passo subito ad Edna per farla archiviare. «Se ha tempo, possiamo vederci domani a pranzo per discutere del da farsi. Sarà un appuntamento di lavoro, ma almeno non saremo immersi nelle carte.»
 
 
 
Mentre sono in camera d’albergo, non riesco a non pensare a quel ragazzo. Come sarà finito a fare un lavoro del genere? Non c’è nulla di lui che non mi sia rimasto impresso, dallo sguardo al suono quasi robotico della sua voce. Decido di incontrare le ragazze nella camera di Maxine.
«Che tipo era?» mi domanda Graziina che sta morendo dalla curiosità.
«La sua voce è così alienante. Mi dà l’impressione di… Al Qaida», lo descrivo mentre sono ancora in stato di shock. «Chissà che avrà passato.»
«Cosa ti aspetti da chi fa un lavoro simile?» interviene Maxine. E ha pure ragione.
«Vero. Però è giovanissimo, non so nemmeno se sia maggiorenne», questo dettaglio, invece, sorprende le ragazze. «Domani lo incontro a pranzo. Voi ci siete?»
«Io vorrei farmi avanti con il lavoro, che ne dici se vengo alla fine? Per il caffè?» dice Maxine, mentre lancia e inghiottisce una pasticca di Zolpidem.
«Penso che farò così anche io. Vorrei fare un giro di telefonate», dice Graziina.
Tornato in camera mia, tiro su le persiane e resto piacevolmente sorpreso dalla luminosità del cielo. È pieno di stelle e la luna sembra più grande di come la vedo a New York. Mi infilo il completo da notte e ingoio anche io una pasticca.
 
Vengo svegliato dall’alba che, a quanto pare, qui arriva molto prima. Sfrutto l’ora che precede il suono della sveglia per farmi una doccia e prepararmi al meglio. Anche oggi sono tutto un Dior e, avvolto nel mio completo azzurro, cammino per le strade ancora fredde di York Shin City per ammazzare il tempo.
Forse mi merito una mattinata libera e potrei rimandare di qualche ora il lavoro. Forse, se oggi quei fascicoli restano ancora un po’ sulla scrivania, non scoppierà la Terra.
Quando si fanno le dodici, fermo un taxi dall’altra parte della strada. O, almeno, ci provo. Mentre sono a pochi metri da esso un tizio mi spinge via ed entra al posto mio. Ha pure l’ardire di esclamare: «Scusami, caro!». Ma scusami tu un paio di palle. È un uomo alto con gli occhiali, vestito da ufficio e con tanto di ventiquattrore in mano. Insomma, un Clark Kent dei poveri. Roba che non si vedeva dagli anni Settanta.
E no, eh! Ci sono diverse cose che, se non si vuole compromettere il mio quieto vivere e quello di chi mi sta intorno, non devono essere mai – e dico mai – fatte. Posso passare sull’ammazzare mio padre o, peggio, copiarmi un look per il red carpet. Ma soffiarmi un taxi è decisamente sopra tutto.
Così, vedendo che il veicolo si ferma al semaforo rosso dopo pochissimi metri, mi avvicino con nonchalance e apro furiosamente la portiera.
«Vedo che qui la classe sia un optional», dico mentre mi siedo prepotentemente accanto a lui. Oggi mi sento così dispettoso da aprire il finestrino e accendermi una sigaretta.
«Le dispiacerebbe non fumare in auto? Per cortesia, eh», Clark Kent ha l’ardire di sentenziare sulla mia sigaretta. Dopo l’atto immondo che ha appena commesso, questo si permette pure di giudicare.
«È già tanto che non te la spengo in un occhio o su per il culo», oggi mi sento anche un gran poeta.
«Non hai nemmeno detto dove devi andare, cretino», mi ride in faccia.
«Akihabara Place», urlo al tassista.
A sentire quella frase, Clark Kent sbianca in viso. Oh, cazzo. Stiamo andando nello stesso posto. Il rischio imminente di trovarmi dinanzi a Superman con il Nen mi secca non poco.
 
Appena entro nel ristorante, Kurapika mi vede e mi fa un cenno. Pochi attimi dopo, anche Clark Kent fa il suo ingresso e si dirige proprio verso il nostro tavolo. Oggi stanno tutti cercando di far uscire la mia cattiveria. Perché non accontentarli? Accolgo il tizio occhialuto con un sorriso glaciale e cattivo, mentre lui è visibilmente in imbarazzo.
«Io sono Leorio», si presenta. «Perdonami se siamo partiti col piede sbagliato.»
Così non vale! Avevo voglia di bullizzarlo subdolamente per tutta la durata del pranzo. Gli rispondo con un cenno di accondiscendenza.
«Visto che con Leorio abbiamo già parlato in maniera… confidenziale», dico, mentre lui si volta dall’altra parte. «Possiamo darci tutti del tu, se a voi va bene. Fuori dal contesto lavorativo, si intende.»
«Per me non c’è problema, Espedito», risponde il biondino in maniera amichevole.
Okay, cosa è successo? Ieri somigliava a Bin Laden, oggi sembra un ragazzo normale. Possibile che la presenza di una figura amica lo abbia modificato così? Può essere che la presenza di un amico stretto e fidato lo porti ad allentare le difese?
«Abbiamo chiamato anche due nostri amici», dice Leorio. «Quando hanno saputo di tutta la faccenda, si sono interessati parecchio e volevano dare un’occhiata. Se a te va bene, ovviamente.»
«Certo, da un punto di vista personale sì. Mi piacerebbe capire un paio di cose. Per il caffè, invece, arriveranno le altre due direttrici», rispondo fantasticando su quante cose potrei scoprire facendo amicizia.
«Direttrici?» fa l’occhialuto, non nascondendo uno sguardo compiaciuto. Vorrei rispondergli malissimo, ma facciamo che rimando l’astio a dopo l’antipasto.
«Mi sento come se fossi in una sorta di mondo alieno», mi confesso. «A volte mi sembra di star sognando.»
«Mi sono sentito così ieri, quando mi hai dato tutte quelle carte», ironizza Kurapika, facendomi ridere di gusto.
«Sono molto preciso», mi pavoneggio. «Oggi devo leggere mille e novantuno pagine di verbali.»
A quella frase entrambi mi guardano straniti. Onestamente, non so come riuscire a farmi capire su questa cosa. Non è facile spiegare perché la burocrazia sia così complicata. Effettivamente, a volte fatico a capirlo anche io.
Il pranzo procede in maniera limpida. Fino al caffè, non ci siamo ancora fatti alcuna domanda diretta. Mi sono limitato a scherzare un po’ e a tenere la conversazione su argomenti neutri, preferisco aspettare che la tensione si sciolga di più.
«Quindi il tuo lavoro è questo?» domanda Leorio, all’improvviso. «Cioè, era il tuo sogno presiedere a un’organizzazione umanitaria?»
Che modo strano di fare questa domanda.
«In verità no», dico con onestà. «E questo non è il mio lavoro.»
Non vedo l’ora di vedere le loro facce quando glielo dirò.
«E qual è?» domanda Kurapika.
«Sono un attore.»
Entrambi rimangono a bocca aperta. Io li guardo e rido di gusto.
«Scherzi?»
«No, Huldrych Petracelli era mio padre», anche questa è un’informazione abbastanza scioccante. Infatti, Kurapika mi guarda ancora più scioccato. Evidentemente sa dell’omicidio di mio padre.
«Oh, io... mi dispiace», dice quest’ultimo.
«A me no», rido. «Mio padre era un essere spregevole e, da quando se ne è andato, questa fogna di mondo è diventata un posto migliore.»
Bingo, sono devastati.
Proprio in quel momento, entrano Graziina e Maxine nel ristorante e si dirigono subito verso il tavolo. Appena si accomodano, si presentano subito agli altri. Maxine se ne sta ferma e si limita a una stretta di mano, Graziina è più sciolta e sorride.
«E per voi? Essere hunter è il vostro primo lavoro?» chiedo io, per riprendere la conversazione.
Kurapika annuisce.
«Io sto cercando di diventare medico», dice Leorio.
«Medico? Sembri più un venditore di aspirapolveri», gli rispondo, ricevendo già un’occhiataccia da parte di Graziina che però se la ride sotto i baffi.
Mentre conversiamo animatamente, due bambini si avvicinano al tavolo e salutano i due Hunter.
«Oh!» esclama la mora, intenerita. «Avete dei figli!»
Kurapika è rosso come un peperone e Leorio ride di gusto.
«No», dice l’occhialuto, ancora soffocando dalle risate. «Sono hunter anche loro. Sono nostri amici.» 
Okay. Questo, invece, è inquietante. In che senso dei bambini che potrebbero essere miei figli fanno un lavoro del genere? Questa deve essere una presa in giro.
«Ma sono bambini…» mormora Maxine, un po’ sconvolta.
«Non so, ho capito bene? Loro sarebbero degli hunter?» anche Graziina sembra molto dispiaciuta.
«Io sono Gon!» si presenta all’improvviso il bambino vestito di verde. Ha i capelli neri rizzati a 90 gradi che formano delle punte.
In risposta alla sua presentazione poco formale, io mantengo il mio atteggiamento stringendogli la mano e dicendo il mio nome. Mentre fa la conoscenza delle altre, mi viene da fissare l’altro bambino. Ha i capelli bianchi e morbidi, occhi azzurri enormi e un atteggiamento distaccato associato a uno sguardo fragile.
«Come ti chiami?» gli chiedo dal nulla.
«Killua», risponde senza guardarmi negli occhi.
Che conversazione interessante.
Graziina, invece, sta chiacchierando animatamente con Gon. I due sono già molto in sintonia.
«E cosa hai intenzione di fare con questo Greed Island?» gli chiede lei. Stanno parlando di uno strano videogioco che ha un prezzo schifosamente alto all’asta.
«Cerco mio padre», risponde sorridente. Eh?
«L’ha rapito qualcuno?» chiede Maxine spaventata portandosi una mano al petto.
«No!» il piccolo moro ride a crepapelle. «Lo sto cercando per incontrarlo!»
La cosa inizia a suonare strana. «E perché devi cercarlo per incontrarti con lui?» gli chiedo. Non avrei dovuto.
«Mio padre se ne è andato quando ero ancora in fasce per diventare un hunter. Così ho deciso di diventarlo anche io per trovarlo!» Gon sgancia questa bomba che fa sussultare tutte e tre.
E la cosa peggiore è che ne parla con il sorriso, come se fosse una roba divertente. Cala un silenzio imbarazzante perché nessuna di noi tre sa cosa rispondere, è quasi un minuto che ci guardiamo in vistoso imbarazzo.
«Ho detto qualcosa che non va?» chiede, fissandomi preoccupato.
«Chi glielo dice?» mormora Maxine con fare cinico.
«Non ora, Maxine», sussurra Graziina.
«Gon, ma perché?» alla fine non resisto e glielo chiedo.
«Se la professione di Hunter è così appassionante per lui da spingerlo ad abbandonare suo figlio, deve essere qualcosa di sensazionale!» E fa quel sorriso ebete che ha costantemente.
«Ma sei deficiente?» in preda a un impeto di rabbia, mi scappa l’insulto. «Ma che trauma hai?»
«Per piacere, moderiamoci», mi sgrida Kurapika.
«Santo cielo, qualcuno lo aiuti!» anche Maxine è partita. C’è puro orrore nel suo sguardo, così come nel mio. «Dio, ma che schifo.»
«Sono così angosciata», interviene Graziina, prendendo la mano di Gon. «Mi dispiace tanto. Ti assicuro che andrà meglio e che la vita, un giorno, ti sorriderà.»
Io a questo nel giro di un annetto lo vedo sottoterra, altroché.
«Smettetela di parlare senza sapere», interviene Killua con tono di sdegno. «Non capite nulla. Gon sta bene.»
«Das ist wirklich peinlich», Graziina mi parla in tedesco per non farsi capire.
«Sie müssen nur die Sozialarbeiter anrufen. Tatsächlich der Internationale Gerichtshof für Menschenrechte», le rispondo.
«Scusate!» sbotta Leorio. «Non è appropriato mettersi a parlare in una lingua diversa per non farsi capire.»
«Credo che il discorso che è appena stato fatto non sia appropriato», gli rispondo a tono. È che proprio non riesco a passarci sopra.
«Mi ha lasciato una cassetta. Mi ha sfidato a trovarlo, vuole solo mettermi alla prova», Gon continua a parlare non capendo che sta solo peggiorando la situazione.
«E continui?» esclamo, mettendomi le mani nei capelli. No, non ce la posso proprio fare. «Ma che brutta cosa. Non ti fa onore! Perché tu stai distruggendo la tua vita a quest’età per una persona che non ti vuole!»
«Hai mai considerato l’eventualità di vedere un’analista?» anche Maxine non va troppo per il sottile.
«Okay, un bel break ragazze!» ci ferma Graziina. «Sono inorridita esattamente quanto voi, ma questo assalto è controproducente.»
«Oh, finalmente!» esclama Leorio.
«Avete detto delle cose molto pesanti, dovreste fare delle scuse», sentenzia Kurapika.
Vorrei polemizzare perché io certo non ritiro la mia versione, ma capisco che la situazione sia stata un macigno.
«Mi scuso per la mia irruenza. Non ritratto ciò che ho detto perché non sono ipocrita, sono una persona schietta e onesta e, costi quel che costi, dico sempre la verità. In ogni caso, non avrei dovuto dirtela in questo modo», questo è il massimo che riesco a fare.
«Quoto ciò che ha detto Espedito», si accoda Maxine.
«Non c’è problema, davvero», ci rassicura Gon. La cosa folle è che non sembra minimamente scalfito dalle nostre parole. «Non l’avevo mai pensata da questo punto di vista.»
Ed eccoci qua. Direi che… lasciamo perdere.
«Le nostre culture sono molto diverse», interviene Graziina nel suo solito ruolo di mediatrice. «Per persone come noi, le parole di Gon sono follia pura, perché siamo cresciuti con modelli completamente diversi e in contesti che non hanno nulla a che vedere con questo. Il vostro mondo è completamente diverso.»
Gli sguardi di Kurapika e Leorio si inteneriscono alle parole di Graziina.
«Aspetta, posso capire tutto ma questo è relativismo morale», voglio farle notare.
«Puoi girarla come ti pare, ma non è difendibile e tu lo sai», rincara la dose la rossa. «Un conto è essere educate, un altro è dire che il re è vestito. Allora per le bambine in Yemen che vengono date in spose a uomini adulti va tutto bene perché è la loro cultura? E i crimini di guerra?»
«Maxine, per favore, non c’è bisogno di metterla così in scala», devo fermarla persino io perché sta proprio partendo per la tangente.
«Voglio dire, abbiamo fatto più che presente la nostra disapprovazione», continua la mora. «Adesso possiamo passare oltre e non turbare i presenti ulteriormente.»
«Maxine», richiamo preventivamente la rossa perché so che vorrebbe polemizzare ancora. E lo vorrei fare anch’io, ma mi rendo conto che non avrebbe alcuna utilità se non peggiorare le cose.
Riusciamo miracolosamente a far proseguire la cena senza intoppi. L’ansia generale è calata e la situazione è che Graziina piace a Kurapika e Leorio, io pure ma sono ancora un punto interrogativo per loro, mentre con Maxine immagino si farà molta fatica. L’unico che finora è stato in disparte è Killua. Non capisco che opinioni abbia, ma suppongo che sia ancora un po’ restio ad aprirsi con noi. Direi che il siparietto di prima non abbia aiutato.
«Killua, tu che ci racconti? Sei così silenzioso!» gli dà a parlare Graziina.
«Non ho nulla da raccontare», borbotta girandosi dall’altra parte.
«Perché hai scelto di diventare un hunter?» gli chiede lei, che non si arrende.
«Non avevo voglia di portare avanti l’attività di famiglia. I miei genitori mi hanno imposto fin da piccolo di fare quello che volevano loro», finalmente si apre un po’.
«Ti capisco tanto», gli dico con sguardo compassionevole. «Che cosa fanno i tuoi genitori?»
«Sono degli assassini», dice con naturalezza.
«Ritiro tutto.»
«Kurapika!» Graziina, per non far vedere il suo secondo shock di fila, cambia subito discorso.
«Madre di Dio, smettetela», Maxine ci implora di non fare altre domande. Lo so, ma io ormai sono troppo curioso.
«Ho scelto di diventare un hunter per recuperare gli occhi dei miei compagni. Il mio clan è stato sterminato da un’organizzazione criminale. Il motivo sono i nostri occhi scarlatti, considerati una rarità.»
All’ennesima storia allucinante, in quella situazione orribile, mi esce una lunghissima risata isterica mentre mi accascio sul tavolo.
«Ma quindi… mentre erano ancora vivi li hanno… oh, mio Dio!» Graziina, naturalmente, ci è arrivata dopo.
«Scusate!» chiedo genuinamente scusa. «Non sto dormendo decentemente, sono sconvolto e mi hanno pure bloccato i farmaci in dogana. Ho un enorme peso addosso. Non ce la faccio, non ce la posso fare.»
«Io posso assicurarvi che voglio solo diventare un medico», Leorio cerca di sdrammatizzare, strappandoci una risata.
 
Alla fine di quel pranzo infinito, io e le ragazze siamo nell’area comune del bagno per sistemarci allo specchio. La luce blu del bagno crea uno stranissimo effetto, mi ricorda il periodo in cui mi facevo di ecstasy.
«Non so cosa dire», rompe il ghiaccio Maxine. «Mi sento come se stessi giocando a un videogioco con un visore spaventosamente realistico. È da un po’ che ho questa sensazione di realtà aumentata.»
«Io me la sto vivendo bene. Credo di essere impazzita e che tutto questo sia solo un mio delirio. È così divertente, è come guardare una serie TV!» scoppia a ridere l’altra, facendo una stranissima risata nasale. Secondo me è impazzita sul serio, ma chi sono io per giudicare.
«Io credo di essere in coma», dico scioccando le altre. «Tutto questo non può essere vero. Avrò fatto un’incidente ed eccomi qui. Chissà se voi due esistete nella vita reale. Devo fare un reality check.»
Così, mi guardo l’orologio, poi distolgo lo sguardo e poi lo guardo di nuovo. Fa due volte lo stesso orario, quindi il primo test è superato. Poi cerco l’interruttore per spegnere e accendere la luce. Ci riesco, secondo test superato. Poi mi guardo le mani e sono normali, se provo a passare con un dito attraverso il palmo dell’altra mano non ci riesco. Terzo test superato. Nello specchio mi vedo normale, quarto test superato.
«Oh», dico. «Siamo proprio qui.»
«Mi viene da piangere», all’improvviso Graziina ritratta la sua versione.
«Io sto pensando cose deontologicamente aberranti», dice Maxine.
Tutte e tre ci abbracciamo, facendoci forza a vicenda prima di uscire. A un certo punto tutto questo diventerà routine. E pensare che non è ancora cominciato nulla. Devo essere più forte di così, devo corazzarmi bene psicologicamente.
La verità è che ho solo bisogno di alcol.
Le ragazze vanno poi in bagno mentre io faccio per tornare a tavola. Gli altri sono ancora nel ristorante, ma mi trovo di fronte Kurapika. Non capisco se sia arrabbiato o altro. Non capisco e basta.
«Avevo bisogno di darmi una rinfrescata», gli sorrido.
«Hai un po’ perso il controllo, vero?» mi dice. E adesso cosa vuole?
«Non te lo negherò, sto ancora metabolizzando il fatto di essere qui.»
«Deve essere stato uno shock», si avvicina con aria dolce. «Sei una persona…»
«Basta così!» lo interrompo. Conosco già il cliché. «Non ho voglia del classico teatrino dove mi si legge dentro o cose del genere. Non sei tu, sono io.»
«Va bene!» Kurapika scoppia a ridere, accompagnandomi di nuovo al tavolo.
Finalmente io e le ragazze mettiamo le mani su una tazza di caffè.
Fa schifo. È imbevibile, acqua sporca.
Muore mio padre, e va bene. Devo farmi carico di un’organizzazione, e va bene. Devo venire qui e rischiare la morte, e va bene. Ma un caffè scadente dopo un pranzo così estenuante? Questo è davvero oltre il mio limite di sopportazione.  
«Nonostante sia stato difficile mettersi sulla stessa lunghezza d’onda, ho adorato questo pranzo», dico, così da ben disporre i presenti. «Ma io ho davvero bisogno di un Amaro del Capo in questo momento.»
Confido che almeno il liquore sia buono.
«Che?» domanda Leorio.
«Liquore, digestivo, grappa, sakè, ammazzacaffè…» le sparo a caso nella speranza che ne riconosca almeno una.
«Oh, sì sì!» esulta lui, entusiasta all’idea di bere. Finalmente su una cosa ci capiamo. «Ovviamente voi due non potete», indica Gon e Killua.
Io credo che l’alcol sia l’ultimo dei loro problemi. Ma chi sono io per giudicare? In fondo, non sono nemmeno affari miei.
«Io passo, detesto il sapore dell’alcol», dice il biondo.
 
 
Quando si fa sera, devo fare delle ricerche specifiche. Maxine mi aveva già informato del fatto che, senza una regolare licenza di Hunter, la stragrande maggioranza delle informazioni che servono sono inaccessibili. Kurapika e Leorio sono già rincasati e Killua si è chiuso nella sua camera d’albergo a guardare la TV. Gon, stranamente, si offre di aiutarmi. È strano, dopo che l’ho insultato in quel modo ha deciso di aiutarmi.
«Oh!» mi avvisa, mentre lo guido verso il mio albergo. «Non è il caso di usare il tuo computer, dovremmo andare in un internet cafè. Ce ne è uno qui vicino, ci vado sempre con Killua.»
«Perché dovremmo? Ho un contratto satellitare, la mia connessione è veloce.»
Non sentivo parlare di “internet cafè” dal 2001. Da quando scaricavo le canzoni delle Destiny’s Child illegalmente e avevo paura di ritrovarmi virus o materiale pedopornografico sul mio hard disk personale.
«Potrebbero tracciarci per mirare alla licenza. L’ha detto Killua», insiste.
Ed è sempre Killua e mai “il mio analista”.
Queste persone hanno mai sentito parlare di una cosa chiamata “firewall”? Non insisto oltre, ho capito che è tutto inutile. E poi, la licenza è sua e mi sta facendo un grande favore, non mi pare il caso di fare storie. Lo seguo fino all’internet cafè.
All’inserimento della licenza, una marea di schede si aprono. Tiro fuori il mio registro e inizio a scrivere.
«Cosa fai?» si avvicina a pochi centimetri dalla mia faccia e mi ritrovo i suoi enormi occhi color ambra ad occupare il mio intero campo visivo. D’istinto mi allontano.
«Ogni giorno devo trascrivere tutte le mie scoperte su un verbale e mandarlo via fax.»
Non so nemmeno se Gon sappia cosa sia un fax. Nel frattempo, ha digitato delle parole chiave e sono uscite cose. In cima alla lista, c’è il nome di mio padre e la data del volo.
Lo interrompo prima che apra qualsiasi cosa e decido di prepararmi psicologicamente. Scorgo un narghilè posato per qualche motivo su un tavolo vuoto vicino alla parete. È mezzo pieno e ci sono ancora i carboncini un po’ consumati, come se fosse stato utilizzato da poco. Non essendoci nessun altro in sala, lo prendo e lo porto accanto al nostro computer. Faccio partire dalle casse del computer un po’ di Bossa Nova e faccio un tiro, sa di cocco. Noto lo sguardo confuso di Gon mentre suona Tin Tin por Tin Tin di João Gilberto, la cosa mi fa sorridere.
«Apriamo insieme?» mi sorride, capendo che sono abbastanza stressato. Il che è molto strano visto che io non ho dato alcun segno di sconforto. Lo so perché ho il massimo controllo sulle mie microespressioni facciali e sul tono di voce. Se avessi tradito qualche emozione, come ad esempio è capitato a pranzo, me ne sarei accorto.
E poi, perché è così gentile con me? Anche se non è arrabbiato, comunque ci conosciamo da poche ore.
Ma non è il momento adatto per farsi domande. Non sono sicuro di voler sapere cosa abbia trovato Gon cercando su quello strano motore di ricerca. Consapevole del fatto che i dubbi non mi abbandoneranno mai, decido di afferrare il toro per le corna e premo subito il tasto destro del mouse.
C’è un video di quella che sembra una riunione, dove si stava discutendo il caso di mio padre. Ho capito cos’è, si tratta della conferenza in seguito alla sparizione. Quando l’ex legale di mio padre ha cercato di mettersi in contatto con la Azur Corporation (quella che ha fornito la pista di atterraggio per il volo WCS001, nonché il luogo dove sono morti tutti i passeggeri).
All’inizio si è pensato ad un incidente aereo o attentato terroristico, ma sono tutti morti dopo l’atterraggio. L’aereo è stato lasciato intatto, la scatola nera compariva sui radar e il transponder non è mai stato spento. Addirittura, siamo riusciti a farlo rientrare e i controlli non hanno rilevato nulla di anomalo. Anche i corpi sono spariti.
Giro il video per e-mail a Maxine, va catalogato come reperto e depositato in archivio. Metto tutto a verbale, questa è roba grossa. Poi scarico tutto ciò che trovo senza aprirlo e faccio altrettanto. Durante le indagini non è stato rinvenuto nulla di simile, il video della riunione è andato perduto col cambio di gestione e non capisco chi e perché lo abbia pubblicato qui. 
«Come era tuo padre?» mi domanda Gon a bruciapelo, distraendomi da ciò che sto facendo. Ha un tono di voce talmente innocente da non far apparire nemmeno quella domanda come indiscreta. Mi piace questo lato di lui, senza tabù. È quel bambino che urla “il re è nudo”, ma non per metterlo in imbarazzo come farei io, ma perché nella sua ingenuità non ha filtri.
«Problematico», gli rispondo. «Non ho nemmeno pianto al funerale. Questo fa di me una cattiva persona?»
«E allora perché sei qui?»
Nessuna risposta indignata, nessun imbarazzo e nessuna reazione. Semplicemente una domanda legittima. I suoi ragionamenti sono semplici, vanno da A verso B in maniera automatica e fluida.
«Devo chiudere questo cerchio e devo farlo io. Voglio poter tornare a recitare e non saperne più nulla.»
Mi sorride. Ho detto una frase molto egoista, potevo parlare del mondo in pericolo o del senso del dovere, ma ho detto la verità. Eppure, lui, così innocente, mi ha sorriso.
«Ti capisco. Per me è lo stesso con Ging», dice. Quando lo guardo con sguardo interrogativo, specifica. «Ging è mio padre. Lo chiamo per nome, non mi sento a mio agio nel chiamarlo “papà”.»
«Mi sembra il minimo della decenza», gli dico con tono divertito, fingendo di asciugarmi la fronte.
E ride di nuovo, come se ne fosse consapevole anche lui.
«È così strano incontrare persone che vengono da un altro mondo…» commenta.
«Lo stesso vale per me! O siete voi quattro ad essere strani, o siamo completamente diversi e basta. Quando ho saputo di Killua, ero intenzionato a inviare una lettera di lamentele all’ufficio delle Risorse Umane.»
«Com’è il posto in cui vivi?»
«Dici New York? È l’amore della mia vita. Una città splendida dove c’è tutto ed è anche molto bella. È grande almeno dieci volte York Shin City. Piuttosto, tu abiti qui?»
«No. Casa mia è sull’Isola Balena», dice, con un po’ meno trasporto verso la sua terra natale. Ma l’Isola Balena quella che sta in Nuova Zelanda? O è un caso di omonimia? Penso più la seconda. «Ci si fermano dei pescherecci, ha proprio la forma di una balena. Per questo si chiama così.»
Mentre chiacchieriamo devo proprio ringraziarlo, ha alleggerito di molto la tensione. Dalla porta del locale, vedo entrare Killua. Gon lo chiama rompendomi un timpano.
«Come ti chiamavi, tu?» mi fa con tono arrogante. Questo moccioso, invece, è proprio insopportabile.
«Espedito.»
«Troppo difficile, meglio Speedy», ridacchia come per provocarmi.
Vorrei dirgli “ti uccido” ma, sai com’è, non sono propriamente nella posizione di farlo. Mi limito a fargli una smorfia.
«Non farci caso, sbaglia persino il nome di Leorio!»
Vengo distratto dalla notifica sul mio cellulare. Mi è arrivata una mail dalla divisione investigativa. È un verbale sulle ricerche fatte dall’ufficio legale.
«Cos’è la Brigata Fantasma?» chiedo, mentre leggo la mail. Lo dico con noncuranza, il termine “brigata” non mi suscita particolare timore. Questa non l’avevo mai sentita nominare.
«Ti conviene non invischiarti con quella gente», mi avvisa Killua. «Sono pericolosi anche per dei pro-hunter come noi.»
«Sono quelli che hanno ucciso il clan di Kurapika», aggiunge Gon.
«E che ci fanno questi sul mio verbale?!»
Okay, niente panico! È solo un verbale, sono sicuro che in sede legale sarà smentito ogni coinvolgimento.

 


[1] Il circuito PEC, nello specifico, è utilizzato solamente in Italia. Negli USA, invece, esiste la “certified mail” che è su per giù la stessa cosa. Per questo ho pensato fosse giusto “tradurlo” così.

   
 
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