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Autore: Herondale66    11/04/2023    0 recensioni
Un rigurgito del cervello per mantenere a freno i pensieri. Una realtà distopica e una storia di sopravvivenza. Giorno per giorno, quello che bisogna fare è andare avanti, sempre. E allora andiamoci insieme.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le mie palpebre si schiudono lentamente. Per la prima volta in due giorni riesco a tenerle aperte per più di qualche minuto. Osservo un ragno passeggiare nel soffitto sopra di me. Fa avanti e indietro in modo frenetico, intento a tessere la sua tela con perizia. La testa mi fa ancora molto male. Evidentemente ho camminato troppo negli ultimi giorni. E mangiato troppo poco. Sopporto a fatica l'odore acre del mio corpo malato, ma non ho le forze di lavarmi ora. Prima delle priorità. Sento il bisogno di mangiare qualcosa di solido e succoso. Potrei cercare qualche ghiro. So che dietro ai mobili potrebbero nascondersi delle cavallette. Mentre pondero le mie opzioni, rabbrividisco. La malattia non è ancora passata, ho sicuramente la febbre. Ma devo reagire, altrimenti il corpo potrebbe finire a non rispondere più. Già ora stando distesə non mi sento più le gambe e le braccia. Stando immobile posso perfino dimenticare per un attimo dove sono.
Faccio prima una lista mentale di tutte le cose che devo fare, con un calcolo energetico di ciascuna.

Alzarmi e accendere il fuoco.
Andare a prendere dell'acqua.
Trovare qualcosa da ammazzare e mangiare.
Togliermi di dosso questa puzza di putrefazione.

Prendo un respiro e procedo a svolgere tutti questi compiti. I polmoni bruciano, le gambe tremano e il naso continua a sgocciolare. Uso le foglie per po' pulirmi dal moccio ma finisco solo per irritarmi il viso.
Quando termino tutti i compiti che mi ero prefissatə di fare sono sfinitə. Sono riuscitə a trovare e prendere delle rane nel piccolo stagno poco lontano. Ne ho approfittato anche per lavarmi un po'. Mi sento meglio e peggio allo stesso tempo. Ho una forte nausea addosso, quindi devo riposarmi un po' prima di mettermi a cucinare le rane. Le pulisco appena, per poi infilzarle con del fil di ferro e arrostirle. Iniziano subito a sfrigolare e a sprigionare un profumo per tutta la stanza. La nausea aumenta, e capisco che è fame. Il mio stomaco si torce in modo disgustoso. Quando addento la prima coscia, la mia lingua prima viene invasa da un'esplosione di sapori, poi si sovraccarica e non sento più niente. Mangio lentamente, masticando bene i pochi bocconi. Penso a come un tempo tutto questo mi avrebbe fatto schifo. A come le rane le avevo solo assaggiate per curiosità, per poi decretare che non le avrei più toccate. Una vita fa. Adesso mi sembra di stare a un banchetto. Mentre mastico con piacere gli ossicini scricchiolanti, una ciocca di capelli mi scende lungo il viso, ricordandomi che dovrei tagliarli. È più semplice tenerli corti, soprattutto con questo caldo. Durante la stagione più fredda è un buon modo per tenere le orecchie al caldo, ma ora che non servono più li posso tagliare. Forse sono abbastanza lunghi perché li possa intrecciare e usare come lacci.
Sento la stanchezza assalirmi, decido di lasciare una rana per la colazione di domani, e torno a stendermi sul mio giaciglio.

“Shhh fai piano oppure le spaventi”, una grossa mano mi prende per la spalla, sicura. Siamo entrambi accovacciati sul bordo dello stagno, aspettando il momento giusto per acchiappare qualche rana. Io mi sporgo a guardare la superficie increspata dell’acqua e rido. Una grossa ranocchia mi guarda con i suoi occhietti inespressivi. “Crak”. Quella continua a fissarmi. Tento di infilare le mie manine dentro e afferro il corpicino viscido. Mi fa troppa impressione, quindi mollo la presa. “Dai che ce l’avevi! Che stupida…” La mano lascia la mia spalla, dandomi una leggera spinta. Io barcollo e mi sbilancio in avanti, appoggio le mani nell’acqua fangosa per non cadere di faccia. Sento dei passi allontanarsi, attutiti dalla morbidezza dell’erba nuova di primavera. La mia faccia inizia a contorcersi, e una lacrima solitaria mi solca la guancia. La lascio cadere nell’acqua, rimanendo a fissare i cerchi allargarsi attorno al punto in cui è caduta.

Tra il sonno e la veglia mi ritrovo di nuovo a fissare il soffitto, immaginando riflessi d’acqua pulita e conversazioni mai fatte.
   
 
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