CANTO V - L'autore discorre sulla perduta letteratura semitica e si perde. Viene ritrovato da due altri poeti.
È sì gran cosa il don della memoria
Che chi lo tiene ha ben donde onore
Nel sfilacciare, con arte oratoria,
Ogni istoria letta e sentito rumore,
Cogliendo nella curiositade rete
Ogni orecchio che n'è auscultatore.
L'omo, del sapere, sempre ha la sete
Ma spesso ozia o tempo non ha alcuno,
In tal ragion nacque la stirpe di Talete:
Da cervelli profondi come il regno di Nettuno
Altri meglior pesca, con meno affanno, fano.
Così c'illustra l'illustre Giordan Bruno.
Cum iustitia la rogò, quel filosofo nolano,
In un suo gran tomo, che n'ispiega il segreto.
Perché mai non lessi un poeta sì soprano?
Or rimembrerei quel sempre perso ceto!
Saltellavo su argillose tavole semite
Stilate in un mai tradotto alfabeto:
Queste narravan de genti sentite
Sol ne la Bibbia, chiamatevi pagani
Che contra i figli d'Abramo furno ite
Con più dignitade di quanto ferno i cristiani:
Di Moab, Kedar, Akkad e Ammòn
E ancora Edom, Amurru e i Nabatani
Coi loro dei, il sumero e fertile Dagòn,
Cui ad Ashdod fecero magna magione
E fé gran vendetta con Hagad-Rimmòn
Quando a Neko su Giosia diè ragione,
Spezzando chi spezzò sua madre Ashera.
Poscia Marduk, Bel di Babilim, padrone
Assieme ad Ištar, lapislazzula portiera;
Ba'al Zebul, dio di Ekrom e taumaturgo
E iroso Kamos, dio di Mesha condottiera.
Millemil nomi, in mezzo a lo spurgo,
Scovai del ferro, bronzo e rame etade
Che ad oggi non hanno più in terra teurgo.
Ahi, Canaan, vituperata da le genti,
Dove son li scritti de tu razza?
Le steli spezzate, i templi cadenti,
I papiri bruciati con gli idoli in piazza,
Il vitello di Bethel fu fuso per tesoro
D’un dio israelita privo d’ogne fazza.
E voi il cui nome istesso è disdoro,
Voi, che da Kaftōr, varcaste il mare,
Portando seco, da Cnosso, il dio toro.
Filistei, nel giudaico archivio secolare,
I commerci, i canti e l’arte non ha plaza
Perché sempre nimici sarete al ricordare,
Voi popol di Gat, Ashkelon e Gaza
E della pentapoli verde e prosperosa,
Sospesa sul mare come tuorla calaza.
A chi cale che spacciaste porporosa?
O che vostre menadi danzasser ne la seta?
A chi che velaste fin l’isla de Pianosa?
Voi che la gente sol vi moneta
Perché antagonisti foste a quel Sansone
Che brucia i campi se l’amore vieta.
Fra inni, cronache e miti di creazione
Io mi son perso che più non ritrovo
E lo mio duca non è di tal zone.
M’imprincipia ne lo petto un rinnovo
Di quel moto d’angoscia, or che soletto
Me givo per deserto d’ombra covo,
Quando un’ombra, d’umano aspetto,
Me si palesa voltata di spalle.
Diversa era ma in ven di diletto
A lei mi congiongo in fondo la valle.
Questa, incappucciata di un saio scuro,
Se gira e mi scruta con infiamme gialle
Che rifossi da solo me sentia più securo.
Ma ormai è tardi e dico “Mei omaggi!
Appena son gionto d’esperienza puro
E cercavo chi s’intendesse dei paraggi.
Siate cortese pietando un’alma stanca
Il di cui duca s’è rifiutato ostaggi.”
Questo risponde “Alma, sii tu franca
E accio non sire, giura sulla vita
Si tu se’ christiano o de mala branca.”
“A onor del vero” Dico a bocca basita
E sudando “Mistero son per me li cieli
Pur molto ho studiato la fe’ gesuita,
Eppur non ritrovo, sfogliando i vangeli,
Alcuno ardore per il figlio del padre.
Né giudeo, di cristo o de Macon siam fedeli,
Ma seguitiamo alle virtù leggiadre.”
Quando udì ciò, gli montò su un foco
Che tutt'intorno scoppiò la terra a ladre
De magma e lapilli, eruttò in poco
L’intero Stromboli formato d’asporti.
“Ahi, cieca umana mente” infernò pel loco
“Come i giudícj tuoi son vani e torti,
Il meglio veggi e al peggior t’appigli!
Se li orecchi al Logos stesso sono morti
E non colgon clavicembali di gigli
Ben seria che tu morto sia sul serio,
Perché idarno alle virtù ti scapigli!
Ciò che cerchi, fuor de lo imperio
De cristo nostro, salvatore immane,
Non t’è concesso, per il tuo desiderio
Dentro si trova all’eucaristico pane.
Mente chi afferma, che fuor de religio,
La bontade è insita al cor dell’umane:
Noi figli d’Eva, dobbiam seguir ligio
La legge divina e non la nostra stima
Perché tutto ei sa e creossi a servigio
Come artigiano incide e poi lima.
Non punta il signore a esser virtuosso
Bensì la virtude è frutto de su cima!”
Così, con gravi parole ha discosso
E alfin, dal mantello, tirò una catena,
Ch’era spessa d’un bue il femore osso,
E in un secondo, dall’abissal carena,
Surge un secondo, con balzo da leone,
E lo asseconda pur nel farmi pena!
Questo è armato de ferrigno bastone
E occhi ha bianchi, come latte fresco
Privi de iride, pupilla o alcun perdone.
Parlò quel tale in anglo-tedesco.
“Whose deceitful words have awoken mee?
Who, without virtue, dared to speak of it?
Who, of the Shepherd, so lowly talk
As if they could live without His glorious light?
Who thus has challenged mee into a fight
To which I must concede with more than due right?
Thou seems new and yet fearless are pasturing
For a land that do not belongs to thee.
Does thou even feel any shame for thine horrid condition?
So be it then! Have at thee!
You had your chance to live and died within.”
Ecco alfine che i lor visi ricordaro.
L’uno era il Tasso, Torquato ad onore
La cui Gerusalemme Liber non ha paro
E quell’altro, Milton, spiegò con rigore
“De l’om disobbedienza prima ed il frutto
Dell’arbor proibito, cui mortal sapore
Portaro morte al mondo e ogni ributto.”