CANTO VII - Le truppe dardane e quelle crociate si scontrano prima a parole, poi coi fatti. Infine l'autore è di nuovo in fuga.
Perdonami o Musa, mi secca la gola
A narrar d'uno scontro che mai si fu visto
Più alto di quanto il sogno si vola
Fra bronzo e fero, fra Venere e Cristo.
Mai si fu visto e seria mai veduto:
Irripetibile fu quest'esercito misto
Dello ardimento audace e canuto,
Antique gesta, ben rade oggigiorno
In tempi cui lunga gittata è istituto
E feral pugna de corpo è da scorno.
Avanti agli spettri, Torquato li sprona
Con sembiante rampante, impettito unicorno,
A Enea, per l'aere, grida e rituona:
"Pio tu fosti, ma agli dei fallaci;
Mira cosa porno le mie di preghiere:
Sol la in Lui fede ci fa bonifaci
E rende legioni di angeliche schiere
Qual voi vedete e non sono più umane
Benché furno esse in lor vite sincere
E perciò sono ciò che noi un dì saremo
Se schiacceremo ogni moto blasfemo.
Urge, al dunque, che tu te ne vada
Abbandonando il proposito e ingegno
De noi sottrarre cotale masnada
Che de morte neppure dimostrossi ei degno.
Tu fosti bono per la mia contrada,
Dico l'Italia, ne feci un gran regno!
Retto, leale e di cavalleresco onore,
Dio mi scampi se ti nego l'amore:
Acciò ti dico, lesto t'invola!
Già troppo avante tu ti sei fatto.
Ritorna alla landa de la gente sola
Priva dello male e del divin patto.
Il limbo ti chiama, suona la nola,
Perché non segui il divin ordine ratto?
Tu, prematuro, al Figlio fui desto
Ma il Dio vivente non t'è or manifesto?"
L'anchisiade non porta indietro d'un passo
Anci, un altro lo porta a disfida
E gli occhi appena, contro lo Tasso,
Fra scudo e cimiero, serpico, annida.
Acàte, accanto, approssima e ripara,
Che fusi ognuno il moto all'altro guida.
Un turbine di luce è quel muro d'oro
Di rame, stagno, infucinata lega
Pur meno dura del legame loro:
Un viaggio, da secoli, che ancora si spiega,
Tanto ha commosso l'umanistica idea,
Li saldò così tanto che più niente li nega
E sanza alcun dubbio seguono Enea.
"Amici, troiani e concittadini, udite il parlare?
È sì passionato che pare mercede, ma se, perché?
Perché dar mercede a chi si ama tanto e pur minacciare?
Che noi facemmo di male da mertare questa indulgenza
Se non soccorrere chi vedemmo solo e da lor impregionato?
Crudo supplizio è justo pei suoi passati misfatti?
Achemenide pur fu compare dello scaltro itacense Odisseo
Che patria nostra arse, strusse, deprese e uccise
Ma lo lasciammo in Sicilia, alle ciclopiche brame selvagge?
Or è dei nostri, così fu per lui e per molti ancora,
Fino ai Latini, che Turno addosso ci volse e furno
Nemici, ma pietade cicatrizzò insieme ancora.
È sempre meglio, io dico, aiutare chi non può nuocere;
Sempre meglio è trattenere la violenza se non quando
Al momento presente e concreto è il male nostro in atto.
A che pro ferire una vita dopo la ferita e mancar perdono
Che un nemico in meno rimuovesse e un amico di più donasse?
E loro, che si autoproclamano unici judici ideali,
Ha lui forse fatto tanto da mertare d'esser sacrifizio umano?
Certo, non crede negli dei, come gli omoni l'avessero creati
E non il contrario e questo è disgustoso, ma che fare?
Tortura non è d'uopo, si tortura già da solo l'animo sordo
E torturato mai nessuno altro per il suo credo ha, ch'io sappia,
E non v'istilla compassione come di mendicante sanza cibo chi è senz'anima?
Orsù dunque, liberiamolo alfine da quelle catene spietate!
Diamogli mostra di ciò ch'è pietade e servilismo agli dei
Affinché possa anche lui non essere incredulo all'Olimpo!"
E con tali parole, con tal sentimento,
Caricava sopra terreno sabbioso
Lancia in testa, pennachio al vento
E menava contr'al di Dio timoroso.
Goffredo si porge avanti e flemme
Con viso che splende di beato riposo
E tutti il seguon com'istella a Bethlemme.
"Guerrier di Dio, ch'a ristorare i danni
Della sua fede il Re del Cielo elesse:
E securi fra l'arme, e fra gl'inganni
Della terra e del mar, vi scorse e resse;
Sicch'abbiam tanti e tanti, troppi anni
Ribellante genti a lui sommesse:
Non osiati creder d'aver fatto abbastanza
Giacché di peccato al mondo n'avanza
Seppur morti semo, la lotta ci aspetta.
Ha forse il Christo smesso il lottare
Quando la croce per lui fu eretta
E straziato fu da genti già amare
Per maturare come semenza eletta?
Ancor ci appoggia, egli è l'altare;
Tutto ei puote e noi ne consegue.
Non date già a vil parol tregue!
Ei vonno sviarvi con la gentil mano
Desistendo alla legge crudele ma justa
De punir chi col corpo l'alma morta fano,
Proponendo una pace cod'odora de usta
Di non perseguir chi non crede al Soprano
Che scelta è sua, ma ciò mi disgusta!
Come si pote restare incrètuli
Anzi l'universo, vittor dei Rùtuli?
È più benefico per lui morire ancora
Che come se pote viver sanza Dio?
Sanza una voce che sempre lo rincora
Pur nel dolore, febbre e nell'addio?
Ei soffre molto e ragion non lo ristora
E non è forse offesa a lui, voi ed io
Veder la natura, cielo, mare e terra
Sanza un briciol di grazia che t'aserra?
Disperdiamo cotesti sobillini e rei;
Crociati a me! ricordate il Galileo
Che come disse ai maliziosi sadducei
"Simil agli angeli s'è come al vitar neo".
E non fu Michaele, de l'angelici cortei,
Lo duce che recise, con colpo achilleo
L'inter destro lato de Lucifer per lungo?
Così conviensi, qui taccio e pungo!"
Che strano scontro, che feral fatiga!
Io sol rimango e vedo l'incrocio
Come furia fiumana contr'a diga,
De duo mura e ognuna cerca sfocio.
Davanti vedevomi vivere li poemi
Che in antique corti erano il socio
Il diletto, i pianti e maraviglia i premi.
Capite adunque quanto atterrisce
Chi s'emoziona a sol leggerne i proemi?
Dacché rigorose erano le strisce
E sfregavano ognuno contro il davante
Presto si spezzano e liber colpisce
Chi il caso pone a ciaschedun fante.
Corebo Migdone, al vedermi sì preso
S'accesse si fossi Cassandra l'amante
Strappata da Ajace al Palladio e offeso,
Spumante si porta, grifagno nell'occhi,
Con ben poca cura di farsi difeso.
Chi lo intercetta per primo ha gran possa
Gardo è nomato, franco di prestigio
Ma non già tal ch'a lui resister possa.
L'asta gli vira il giovinetto frigio,
Quello lo scudo tosto ha levato
Che para ma paga questo litigio
Quando la spada gli fora il costato.
In altri paraggi, Dudon di ventura,
Un fendete para e ricambia d'un fiato,
Scostando la lama e a disinvoltura
Affonda nel collo del povero Ipane,
Svuotando la vena de su mortal natura.
E avanza con labbro alzato da cane,
Quel duce che acquise in Siria e la Persia,
Guardandosi attorno a chi fare stane;
Paura proietta nell'alme e controversia.
Procedettegli addosso un omo taurino
Sergesto era, che de rughe se tersia
Quando vide, fra la polvere il meschino,
Compare caduto e remò come pochi
Più de Centauro, nel Drèpanon bacino
Potè remare per vincere i giochi.
E levando una piccozza sovra lo capo
S'appresta a piantarla in encefali lochi.
Più svelto, Dudone, sbucciò il suo mapo
Con un affondo al ventre troiano
Ma l'altro quasi non cala e con sciapo
Pianta lo cranio del cavalier cristiano.
Ma tutti li scontri ch'io posso contare
Nulla son pari a chi fa men baccano
Girandosi intorno senza colpo sprecare,
Tancredi il Normanno e Ascanio lo Dàrdano,
Vanno le mosse l'un l'altro a studiare.
Attendon ma colpi presto non tardano
Da parte del giovine figlio di Troia
Che scatta a rovescio, ma il vano sperano
Che è come toccar tramontana boria:
Già s'è levato su un lato Tancredi
E un dritto gli porta a decollar vittoria
M'Ascanio s'abasa pria che tu credi
E mille scintille attizzan l'elmetto
Da parver Vesuvio si sol tu il vedi.
Scampato periglio, il futuro prefetto,
Pentarion spinse contro al Normanno.
Ancor prodigiose, e gli faccio difetto,
Fur de Rinaldo le imprese che al danno
De Dardane schiere, vindice, saetta
Quando Dudone ha colto in affanno
E del suo capitano è Nemesi vendetta.
Coglie un bronzo a lui troppo anelo
Lo devia col scudo e niente più aspetta
Cala un fendente contro a Stenèlo
Sì vindice che spicca in due sol tronconi
La dipylon difesa e volto come velo
Lasciandolo scisso sin li polmoni.
"Or qual indugio è questo? E chè s'aspetta?
Poich'è morto il Signor che mi fu padroni
Chè non corriamo a vendicarlo in fretta?"
Questo dicea lagrimando fin al mento
Giù per il collo arrossato de stretta.
Conviensi però lasciarlo un momento
Perché più avante, saccagnano altieri
Gente di tale possanza e ardimento
Che si narra quasi non furno vertieri:
Enea, coperto de Vulcaniche armi
E Goffredo con ispida mazza, i guerrieri
Non si dan pace, dolci come marmi,
Rompono l'aria ad ogni loro assalto
Che inver duo pianeti a collidere parmi!
Il Pio, con un'ascia, gli toglie lo smalto
Da uno spallaccio e tutto lo ammacca
Che se lo pigliava appena più in alto
Clavicola tutta finia che gli spacca.
Risponde impavido l'Advocatus Sepùlchri
Che, con la mazza, dal manico stacca
L'ascia al principe dei restanti Teùcri
Che solo rimane col manico ligneo.
Tosto continua in vena di lucri
Il marchese di Anversa e irto de igneo
Addosso si lancia e aprir vol la fronte
Ma quando sta per lasciargli il signeo
Le di lui visa ricevono un onte
Quando il manico, disperato il caccia
Enea sul naso all'onorevol conte.
Il colpo di mazza è sviato ma straccia
Un sonoro clamore sul petto del divo
Ch'arretra d'un metro e fa rosso in faccia
Che tutto il fiato gli è reso schivo.
Disarmata la manca, alza la castra
Frapposta a un colpo più vindice e vivo,
La mazza fende, scuote e innastra,
Manda faville e rivibra lo scudo,
Anco non piega la divin foggia piastra
Pur braccio foco sentìa benchè crudo
Tanto è il calor generato all'impatto!
Enea, de possanza, oramai è nudo,
Già sente il quarto, impunente attacco
Mirato a finire ciò che pria fallì
E sa che giace nel crociato ricatto
Che braccio iscutato, a movere sì
E fargli difesa, non glie riuscìa;
Già mazza oscurava il suo ultimo dì
Che svelto avanza, de balda follia,
Troppo vicino per l'arnese Marzio.
Se libra Goffredo de l'armenteria
E accetta la sfida a questo Pancrazio.
"Teco m'appiglio come mai strinsi alcuno,
In Cupidico gesto io te fo strazio!"
Grida e, col braccio, fe collo raduno,
Come già strinse la torre di Davide,
Ma indo impotette d'Argante ogni tribuno
Riuscì il vassallo del principe Paride:
Con pugno mirabile gli scosse le reni
Che tanto il lasciatte e gambe sue rapide
Arretra all''avverse che cadono leni
Quando perno le fanno contro il ginocchio.
Il duce ruzzola e pria che se sistemi
Librata è la spada che taglierebbe un rocchio
Contro gli si cala, ma deviati sono,
Che un'altra lama ha abbacinato l'occhio.
"Goffredo, su s'alza! Perché giaci stono?"
Urla Rinaldo e sulla bocca ha il sorriso,
"Perdetti un capo e a un altro il mio dono!"
Così dicendo, col ferro diviso
Da più alta spada forgiata al Profondo,
Rinaldo è tagliato all'altezza del viso,
Fin sovra il labro, ancora jocondo.
Goffredo, ululando d'immodesto svampo,
Tempesta con colpi ch'illumano il mondo
Sì chrederesti che sia de Giove il lampo!
Oh lettor, non pensar che sia un codardo
Se ancor miro un diverso loco al campo:
Guarda là infatti, è il prode Odoardo
E seco sua moglie, Gildippe guerriera,
Movono come un androgino dardo
De Aristofanica primordial schiera.
Milton e Tasso, dimentichi me ribelle,
Corrono in mezzo lo spettrale rivo
E lì pugnano allegri quell'anime felle
Che sempre contenti son de novitate
Ed epiche risse per loro son belle
Che poeti si è e poemi si ha date.
Di fronte a un tale scontro mortale
Io finitti tutte le mie fiate.
E inver son confuso e il mio dubbio sale.
Ma non ho il tempo d'esser titubante
Che le braccia librate furnomi da un tale.
"Vergilio!" Io grido e man mette avante
Per zittire ogni grido e via me trascina
Fuor da portata d'ogne guer sante.
"Sol ne la mente" ripete e cammina
"Può l'ombra del mito atterrir chi vi crede."
"Che cosa è reale?" Chiedo e avvicina.
Lui non risponde ed io volto il piede.
Laddove sorgeva una zuffa tremenda,
L'occhio duo vecchi che giocano vede.
Epica eroica, di serietade fai tenda
Eppur che resta ai cor che perfori
Se non escapiste illusioni ci renda
E accendi stolti giovenil furori?