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Autore: Europa91    25/04/2023    2 recensioni
Otto anni dopo l’incidente di Suribachi, Verlaine viene informato della morte di Rimbaud.
“Arthur era morto. Il partner che lo aveva salvato dal laboratorio del Fauno e la persona che aveva tradito. (…)
Lo avrebbe salvato, avrebbe trovato un modo per riaverlo nella sua vita.”

Qualche stagione prima di Dazai e Odasaku, c’era stato qualcun altro che aveva provato a cambiare il corso del destino.
[Spin off di “In Order to Save You”]
[Contiene Spoiler della Novel Stormbringer]
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Arthur Rimbaud, Chuuya Nakahara, Nuovo personaggio, Paul Verlaine
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'People Exist To Save Themselves'
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VI Stagione - Alchimie du Verbe


 






 

«À moi. L’histoire d’une de mes folies.»*

 

Une Saison en Enfer – Alchimie du verbe


 


 


 

Francia

- Da qualche parte in campagna -


 

«Vorrei non aver mai tradito Rimbaud. Vorrei che quella missione fosse andata diversamente»

Era stato questo il primo pensiero che aveva attraversato la mente di Paul Verlaine, quando Lewis Carroll gli aveva domandato quale potesse essere la sua idea di mondo ideale.

Semplicemente, una realtà in cui Arthur avesse accolto la sua richiesta. In cui il compagno avesse capito la sofferenza che lo dilaniava di fronte alla prospettiva che un essere simile a lui potesse andare incontro alla stessa sorte.

Rimbaud non era mai riuscito a comprendere quali turbamenti si agitassero nelle profondità dell'animo di Verlaine. La spia gli aveva ripetuto un milione di volte che anche lui era umano, che erano uguali, eppure non aveva battuto ciglio quando gli avevano ordinato di consegnare il progetto Arahabaki al Governo.

Il più grande difetto di Arthur era sempre stato la lealtà verso i propri superiori.

Quello che a quel tempo Verlaine non poteva sapere, erano le motivazioni che si celavano dietro un simile comportamento. L’unica e ultima volta in cui Arthur Rimbaud aveva disobbedito alle regole della propria organizzazione aveva perso la persona per lui più importante. Non avrebbe rischiato di commettere il medesimo errore.

Non ne aveva mai parlato con Paul. Era una questione che apparteneva al passato. Rimbaud, aveva preferito custodire quella storia nel proprio cuore. Da questa decisione erano nati i primi fraintendimenti tra loro, che sarebbero sfociati nel litigio avvenuto al laboratorio di Suribachi. Quella fu la classica goccia che fece traboccare il vaso.

«Allora ti mostrerò una realtà in cui il tuo partner ha ascoltato questo tuo desiderio»

La voce di Carroll fu l’ultima cosa che Verlaine udì prima di chiudere gli occhi.

Questa volta le cose sarebbero andate diversamente.


 

***


 

Wonderland


 

Yokohama

- Distretto di Suribachi – laboratorio di ricerca – qualche anno prima


 

Sapevano entrambi che quella non sarebbe stata una missione semplice. Lo avevano intuito ancor prima di partire per il Giappone. Anni e anni di esperienza avevano insegnato ad Arthur Rimbaud come giudicare un’operazione dopo solo un’occhiata. Alla spia francese era sufficiente leggere una pagina di rapporto per riuscirne a stabilire il grado di pericolosità. Quella volta, lui e Paul avrebbero dovuto infiltrarsi in una base militare di un Paese straniero. Era una missione in cui non avrebbero goduto di nessun supporto logistico. In parole povere, non avrebbero avuto collaboratori interni, nessun backup. Questo perché quell’operazione non doveva figurare in nessun documento ufficiale. In caso di fallimento non ci sarebbe stata nessuna prova dell’intromissione del loro Governo. Erano questi i giochi di potere delle grandi potenze. Le sorti delle persone comuni venivano sempre decisi in eleganti salotti, lontani dal resto del mondo e dalla vera realtà delle cose. Era successo lo stesso con la guerra che aveva dilaniato il vecchio continente.

Arthur aveva sempre odiato quell'atteggiamento. Aveva perso la propria famiglia, Charles, ogni cosa per servire il proprio Paese, inseguendo sogni e promesse infantili. I Poètes lo avevano fatto sentire per la prima volta speciale, importante, diverso da tutti. Era stato ammaliato dal suono di dolci promesse, ma era bastato che giungesse all’età adulta per capire come lo avessero solo usato, di essere una delle tante pedine sacrificabili su di una scacchiera più ampia. L’aveva scoperto nel peggiore dei modi, quando aveva perso il suo primo amore per colpa della propria ingenuità. Per questo si era impegnato ad essere il migliore, a non sgarrare. Era diventato un Trascendentale, era entrato nell’Élite, aveva fatto ogni cosa gli avessero ordinato. Il freddo che provava si era intensificato e solo da qualche anno quella sensazione si era affievolita.

Fissò intensamente l’uomo biondo seduto su di un sedile accanto a lui. In cambio di quella fedeltà aveva ricevuto in dono più di quanto si sarebbe mai aspettato. Se solo Paul avesse capito la propria importanza, se fosse riuscito ad andare oltre al fatto di essere un essere artificiale, si sarebbe accorto di quanto preziosa fosse la propria vita. Arthur avrebbe conquistato volentieri l’inferno per il bene del proprio compagno. Si sarebbe battuto fino all’ultimo respiro per lui.

L'obiettivo di quella missione era un dotato, una nuova anima artificiale creata sulla base degli appunti del Fauno. Se tutto fosse andato secondo i piani si sarebbero trovati di fronte ad un'imitazione di Verlaine. Nel verbale che Rimbaud aveva ricevuto poco prima della partenza, veniva descritto come un’arma in grado di distruggere il mondo, dalle sembianze di un ragazzino.

In realtà quell’essere sembrava più che altro un bambino. Arthur non ebbe modo di soffermarsi troppo sui dettagli ma a prima vista quello scricciolo non dimostrava nemmeno dieci anni. Lo liberarono dalla teca di vetro in cui era imprigionato. Non notò subito lo sguardo di Paul, ma poteva benissimo immaginare i pensieri che si agitavano nell’animo del proprio partner. In fondo, per la prima volta si trovava di fronte a qualcuno di simile a lui. Un essere che poteva condividere i suoi sentimenti, la sua visione del mondo. Arthur non era uno stupido, sapeva che non sarebbe mai stato in grado di comprendere a fondo ciò che turbava l’animo del biondo. C’era una sorta di muro tra di loro che Verlaine aveva creato, decidendo arbitrariamente di rifugiarsi dietro di esso. Lui lo aveva lasciato fare preferendo non forzarlo, nella convinzione che prima o poi quelle difese sarebbero crollate.

Rimbaud si limitò ad afferrare quello scricciolo tra le braccia porgendolo al proprio compagno dopo averlo avvolto in una coperta. Quel bambino era l’incarnazione di Arahabaki, una divinità portatrice di distruzione ma ad Arthur sembrò tutto all’infuori di quello. Se non fosse stato certo delle proprie fonti avrebbe pensato di trovarsi nel posto sbagliato.

«Che stai facendo?» Alzò la testa per incontrare lo sguardo allarmato di Paul di fronte al proprio gesto. Non aveva fatto nulla, solo estratto una siringa dalla tasca del proprio cappotto;

«Devo sedarlo. Non possiamo correre il rischio che si svegli. Non conosciamo ancora la portata del suo potere» solo in quel momento Verlaine sembrò capire e tranquillizzarsi.

«Pensi che possa scatenare una bestia come quella nascosta dentro di me?» chiese con una punta di malinconia che il suo compagno non poté fare a meno di notare.

«Non possiamo escluderlo. Dobbiamo essere pronti ad ogni evenienza» concluse afferrando una delle braccia del bambino. Era davvero esile, gli sarebbe bastato utilizzare un minimo di forza ed era certo che avrebbe potuto spezzarlo. Come poteva una simile creatura essere il contenitore di una calamità come Arahabaki?

Tornò a fissare il proprio compagno. Paul era totalmente assorbito da quel ragazzino, tanto da non sembrare capace di staccargli gli occhi di dosso, anche lui era un essere di straordinaria bellezza che nascondeva dentro di sé una belva. Non poteva permettersi di dimenticarlo o evitare di pensarlo.

«Va tutto bene?» provò a domandare incerto.

Un’esplosione poco distante li costrinse ad interrompere sul nascere quella conversazione.


 

La loro infiltrazione nella base nemica era proseguita senza intoppi, dovevano solo trovare una via di fuga e la missione poteva dirsi conclusa. Stavano percorrendo per l’ennesimo asettico corridoio quando improvvisamente Verlaine arrestò i propri passi. Arthur lo osservò confuso e allo stesso tempo preoccupato, non capendo quale fosse il problema.

«Dobbiamo sbrigarci, le guardie saranno qui tra poco» furono le sole parole che riuscì a dire cercando di trovare una risposta ai propri interrogativi sul viso inespressivo di Paul.

«Non posso lasciare alla Francia questo bambino. Non lo voglio consegnare a nessuno, posso crescerlo in campagna, senza che arrivi mai a conoscere la verità sulle proprie origini»

Arthur rimase interdetto per qualche secondo, anche se si era preparato ad una simile eventualità. Paul aveva trovato un essere simile a lui. Quel bambino condivideva lo stesso codice genetico del biondo, si poteva tranquillamente definire la versione della bête de Guive successiva a Verlaine. Rimbaud provò ad essere il più comprensivo possibile, ma non era né il momento né il luogo per assecondare i capricci del proprio partner.

«Questo ragazzino è come te. Per questo deve venire con noi, solo in questo modo possiamo proteggerlo» sperò di essere stato abbastanza convincente ma dall’espressione comparsa sul viso di Paul comprese come non avesse funzionato. Il biondo sembrò ferito da quelle parole.

«Non riesci ad immaginare come il sapere di non essere umano potrebbe influenzare la tua vita? Le tue scelte? Sapere che la propria esistenza non è opera di Dio ma solo il risultato di calcoli e formule matematiche. Che la nostra anima come il nostro corpo è fredda, artificiale. È la stessa sensazione che si può provare a stare sul fondo di un burrone, talmente oscuro che nemmeno la luce della luna riesce ad illuminarlo»

No. Arthur non lo sapeva, non avrebbe mai potuto capire come ci si sentiva. Era il suo limite, non sarebbe mai riuscito a comprendere i più intimi pensieri dell’animo di Paul.

«Tu sei umano…» Non sapeva che altro dire. Lui credeva veramente a quelle parole. Quando osservava il proprio partner vedeva solo il suo bellissimo viso, quei capelli lunghi e setosi, lo sguardo magnetico. Non la bestia portatrice di distruzione che aveva calpestato il proprio creatore e che il governo gli aveva affidato. Lo vide alzare un braccio ed impugnare una pistola. Doveva averla rubata durante l’incursione. Non se ne era accorto.

Hai intenzione di sparare, Paul?

Restò in silenzio ad attendere il rumore di un colpo che non arrivò mai. Quando aprì gli occhi, che non si era nemmeno accorto di aver chiuso, trovò il proprio partner inginocchiato a terra con entrambe le mani a coprirsi il volto.

«Non posso farlo» furono le sue uniche parole;

«Io ti odio Arthur ma non posso spararti» continuò. La spia dai lunghi capelli corvini si avvicinò a lui, chinandosi per cercare di vedere quel volto di solito sempre freddo e impassibile distorto per la prima volta da emozioni umane.

«Va tutto bene» tentò di calmarlo, controllando nel frattempo che il suo potere restasse sotto controllo. Cercò anche di prendere il bambino dalle spalle del biondo, ma l’occhiata che ricevette lo fece desistere; in quel momento Verlaine sembrava una leonessa pronta a sbranare chiunque si fosse avvicinato troppo al proprio cucciolo.

«Non ho intenzione di fargli nulla» cercò di giustificarsi.

«Vuoi consegnarlo alla Francia. Vuoi che cresca come me. Farne un’arma»

«Mon Dieu. Paul, sto cercando di aiutarti. Cosa vuoi che faccia? Che tradisca il mio Paese? Va bene lo farò se servirà a qualcosa. Scapperemo con questo bambino e lo cresceremo in campagna esattamente come vuoi tu. Ti domando solo una cosa: hai pensato alle conseguenze?» bastò che Verlaine incrociasse il suo sguardo per capire che no, non lo aveva fatto, ma anche che non sarebbe riuscito a fargli cambiare idea. Rimbaud si abbandonò ad un sospiro stanco appoggiandosi ad una delle pareti del corridoio.

Dovevano andarsene, presto li avrebbero raggiunti.

«Va bene Paul. Hai vinto» esclamò alzando per l’ennesima volta lo sguardo verso l’alto. Solo in quel momento il biondo sembrò rilassarsi. Prese il bambino tra le braccia sistemandogli una ciocca di capelli ramati dietro ad un orecchio. Esattamente come Arthur faceva con lui.

«Grazie» fu tutto ciò che disse.


 

***


 

Erano appena usciti dall’edificio. Una nuova alba stava sorgendo su Yohokama. La città si stava risvegliando completamente ignara che in una base militare segreta, quella notte, fosse stata trafugata un’arma di distruzione di massa. Paul osservò nuovamente l’arma in questione, placidamente addormentata tra le proprie braccia. Fu il compagno il primo a parlare, dopo essersi perso a contemplare quell’immagine forse più del dovuto, con un’aria sognante. Quei due insieme erano una meraviglia, tanto belli quanto pericolosi. Arthur si chiese se sarebbe mai riuscito a proteggere quelle creature anche da loro stesse, dalla distruzione che caratterizzava le profondità del loro animo. Sperò che quel bambino non avesse ereditato troppo da Paul, che potesse vivere serenamente. Si sarebbe impegnato per renderlo possibile.

«Dovremmo dargli un nome non credi?» Fu la prima cosa che riuscì a dire continuando a contemplare l’orizzonte e i giochi di colore che il sole creava sulla superficie dell’oceano. Era stata la prima cosa a cui Rimbaud aveva pensato. In fondo aveva fatto lo stesso quando gli era stato affidato Paul. Il biondo si voltò ma solo per fissarlo confuso;

«Ok. Pensaci tu» rispose quasi annoiato per poi tornare a prestare tutta la propria attenzione al piccolo ancora addormentato.

«Mi hai dato un nome, puoi trovarne uno anche per lui» aggiunse dopo qualche minuto, intuendo come le proprie parole potessero essere state fraintese. Non era ancora abituato ad esprimersi correttamente ma Rimbaud era sempre riuscito a comprenderlo.

«Charles» nel udire quel nome, Verlaine alzò il capo per cercare il suo sguardo. Arthur sapeva cosa il proprio compagno gli stava domandando, non servivano parole. Anche se non ne avevano mai parlato apertamente era certo che Paul sapesse di Charles, di cosa fosse stato per lui, cosa aveva rappresentato.

Era una stagione della sua vita ormai passata. Charles Baudelaire restava solo un fantasma, un ricordo che conservava ancora, nonostante tutto, il potere di ferirlo.

C’era stato un tempo, in un piccolo paesino delle Ardenne, in cui un giovane Paul Verlaine aveva amato Charles Baudelaire. Ora però non restava più nulla di quel sentimento infantile che li aveva legati. Erano morti entrambi, di loro rimaneva solo l’eco di ricordi sbiaditi tra le pieghe del tempo. E una promessa, che non si era mai realizzata, distrutta dalla realtà del loro mondo.

Forse era stata una scelta dettata dal proprio egoismo, ma di fronte all'insolita richiesta di Paul, solo un nome aveva sfiorato la mente di Arthur.

«Charles» ripeté con voce ferma specchiandosi nel ghiaccio delle iridi del proprio compagno. Verlaine dopo qualche istante d’incertezza gli sorrise;

«Come vuoi» concesse allungando una mano per accarezzare il viso del bambino ancora rannicchiato tra le proprie braccia.

«Ti somiglia» era davvero un’affermazione banale ma Arthur non era riuscito a trattenersi. Vedere Paul e il piccolo Charles insieme gli aveva ricordato il calore di una famiglia. Un’emozione che credeva di aver dimenticato.

«Charles» continuò a sussurrare Verlaine, cullando il bambino;

«Charles Marie Rimbaud Verlaine, non suona male»

Entrambi sorrisero tornando a contemplare l’alba. Le loro mani si sfiorarono per poi andare ad intrecciarsi.

Era un nuovo inizio.


 

***


 

Un anno dopo

Dintorni di Parigi


 

«Quando torna Paul?» Arthur intento a cucinare, aveva osservato il piccolo Charles per qualche minuto prima di alzare gli occhi al cielo.

Aveva accolto, seppur con qualche riserva, il desiderio del proprio compagno. Stavano crescendo Charles in campagna. A Rimbaud quel posto ricordava molto il luogo che aveva abbandonato per inseguire i propri sogni di gloria. Per servire quello stesso Paese che lo aveva solo sfruttato e che ora lo reputava un traditore. Ad uno sguardo distratto potevano sembrare una famiglia come tante. Per il mondo, Charles “Charlie” Marie Verlaine era il fratello minore di Paul, che entrambi avevano deciso di crescere dopo la scomparsa improvvisa dei genitori.

Nonostante tutto, Rimbaud e Verlaine avevano continuato a lavorare come assassini su commissione. Paul sosteneva che uccidere fosse in qualche modo il proprio unico talento e lui, come sempre, lo aveva assecondato.

Non capiva come mai non riuscisse a negare nulla al biondo. Era stato così sin dal primo momento in cui se l’era caricato sulle proprie spalle. Quando aveva visto per la prima volta quel mostro da vicino, era stato allora che aveva firmato letteralmente la propria condanna. C’era qualcosa di invisibile che lo legava a quell’essere e nemmeno lui riusciva a spiegarsi a parole cosa fosse. Era impossibile da definire, come lo era l’affetto che aveva in poco tempo, sviluppato per quel bambino.

«Sta lavorando» rispose tranquillamente iniziando ad affettare della verdura. Il piccolo incrociò le braccia al petto e lo fissò con lo stesso sguardo di sfida che era solito riservargli il biondo. Era in quei momenti che dimostravano di essere fatti della stessa pasta. Due gocce d’acqua.

«Sta sempre lavorando» si lamentò puntando i piedi.

«Se vogliamo sopravvivere dobbiamo lavorare. Il cibo non cresce sugli alberi e le bollette non si pagano da sole» Arthur sapeva che era inutile intavolare quel tipo di conversazione con un bambino di otto anni, ma non sapeva che altro fare. Charles sapeva essere testardo. Preferì non chiedersi da chi mai avesse preso, visto che sia lui che Verlaine avevano caratteri difficili.

«Paul dice che una volta non avevate tutti questi problemi» Arthur si appuntò mentalmente di fare un discorso al proprio compagno. Soprattutto su cosa fosse giusto dire e cosa meno al bambino. Vedendo che non stava ricevendo alcuna risposta Charlie continuò;

«È forse per causa mia?» Rimbaud smise immediatamente di respirare, voltandosi per la prima volta a fissare il figlio;

«Questo non devi pensarlo mai più» disse abbassandosi quel tanto che bastava per poterlo guardare negli occhi. Si specchiò in quelle iridi identiche a quelle dell'uomo per il quale era giunto a tradire il proprio Paese.

«Non so cosa ti abbia detto Paul ma non devi più pensare ad una cosa simile va bene?»

«Mi ha detto che siete diventati dei criminali per colpa mia» il moro imprecò sottovoce.

«Non mi sembra di aver usato quelle parole» Entrambi si voltarono verso quella voce. Verlaine era tornato e si trovava sulla soglia di casa. Il piccolo Charlie gli corse incontro saltandogli letteralmente tra le braccia. Arthur invece mantenne un’espressione seria e leggermente irritata; restando in attesa di una spiegazione che non tardò ad arrivare,

«Gli ho solo raccontato di come la nostra vita fosse diversa prima del suo arrivo» si scambiarono l’ennesima occhiata prima che l’attenzione del Re degli Assassini venisse richiesta dal figlio.


 

Quella stessa sera, quando furono finalmente soli, Rimbaud decise di riprendere il discorso. Non voleva turbare il bambino, stava facendo l’impossibile perché dimenticasse il proprio passato, anche se gli incubi ogni tanto tornavano a tormentarlo.

«Devi fare attenzione a ciò che racconti al piccolo» lo ammonì prima di raggiungerlo in soggiorno. Paul lo fissò confuso.

«Perché?»

«Hai voluto a tutti i costi salvarlo dal Governo per crescerlo come un normale essere umano. Non puoi svelare troppo sul nostro passato, come sui dettagli della sua ehm nascita» non era certo di aver trovato le parole adatte per esprimere al meglio le proprie preoccupazioni. La pace che si erano ritagliati era effimera, bastava solo un passo falso per far svanire l'illusione nella quale si erano rifugiati. Rimbaud avrebbe difeso Paul e Charles fino al suo ultimo respiro. Era la sola certezza della quale al momento disponeva.

«Inizia a fare domande» Arthur non poté evitare di sorridere, ripensando ai primi mesi trascorsi con il biondo

«È un bambino, è normale che sia curioso» Verlaine storse il naso;

«Non è un bambino è un’anima artificiale esattamente come il sottoscritto» Rimbaud gli tirò un cuscino;

«Se non la smetti con questi discorsi questa notte dormirai sul divano, e non sto affatto scherzando»

«Era da tanto che non mi minacciavi» gli fece notare dopo essersi avvicinato

«Disse quello che mi puntò addosso una pistola»

«Non ti avrei mai sparato» rispose offeso

«Ma se lo avessi fatto? Pensi mai a cosa sarebbe successo?»

«Avremmo combattuto. Io ti avrei ucciso e sarei fuggito con Charlie» Arthur lo spinse via, facendo leva con entrambe le braccia;

«Sei veramente sicuro che le cose sarebbero andate in questo modo?» Non aveva mai voluto soffermarsi troppo sull’idea di dover affrontare il proprio compagno, ma era certo che non sarebbe stato così semplice, gli avrebbe dato del filo da torcere.

«Per fortuna non dovremo mai scoprirlo» concluse Verlaine dirigendosi verso la cucina per poi afferrare una bottiglia di vino e un paio di bicchieri. Arthur lo fissò confuso per qualche secondo;

«Cosa si festeggia?» Paul scoppiò a ridere;

«Esattamente un anno fa, ti sei presentato nel nostro nascondiglio con un budino e del vino sostenendo di voler festeggiare la mia nascita e ora manco te la ricordi» Rimbaud si diede mentalmente dello stupido, si era dimenticato il compleanno del proprio compagno. Verlaine non si lasciò scappare l’occasione;

«Quali erano state le tue parole? Ah sì: vale la pena festeggiare la tua nascita» annunciò con fare solenne porgendogli del vino.

«Perdonami. Non so davvero dove io abbia la testa» ammise accettando il bicchiere.

«Passi le giornate a destreggiarti tra il lavoro, me e Charlie» Arthur si stupì di quanto in poco tempo il biondo fosse maturato. Il piccolo Charles aveva fatto crescere entrambi, ma quelle parole lo avevano sorpreso.

«Grazie» fu tutto ciò che riuscì a dire.

Paul intanto si era fatto più vicino. L’ex spia chiuse gli occhi aspettando un bacio che non arrivò mai.


 

***


 

Realtà originale


 

Charles Baudelaire decise di prendersi qualche minuto di pausa da quella visione.

Aveva pensato di utilizzare la propria Abilità per osservare Verlaine e la sua idea di mondo ideale, ma quello che aveva visto era decisamente troppo. Non si sarebbe mai aspettato una cosa del genere.

Per prima cosa, aveva rivisto la missione Arahabaki e l’esatto momento in cui Rimbaud aveva deciso di assecondare il proprio compagno.

Poi era comparso il famoso Nakahara Chuuya, l’essere così simile a Black, che in quella fantasia le due spie avevano ribattezzato Charles.

Quella era un’altra delle cose che non si sarebbe mai aspettato di vedere. Era un’ulteriore prova del fatto, che nonostante tutto, Paul lo amasse ancora.

Forse, la cosa più difficile da sopportare, era stato vedere quei due così affiatati. Se Rimbaud avesse assecondato il desiderio di quel mostro avrebbero potuto vivere come una famiglia felice.

L’Abilità di Carroll era spaventosa. Permetteva davvero di vedere i propri sogni realizzati.

«C’è qualche possibilità che si trasformi in un incubo?» domandò dopo essere andato a sciacquarsi il volto. Non voleva mostrare il proprio turbamento di fronte a quanto aveva visto. Carroll gli sorrise, tornando a fissare Verlaine ancora profondamente addormentato a qualche metro da loro.

«Arthur Rimbaud è morto. Ciò significa che prima o poi anche in quel sogno accadrà lo stesso. È il destino»

«Ne sei sicuro? Non hai forse detto che in Inghilterra hai ancora gente abbandonata alle proprie fantasie?»

«Ci sono delle persone che preferiscono vivere in un incubo piuttosto che affrontare la realtà. Perché non mi hai mai chiesto di utilizzare la mia Abilità su di te, Charles?» erano giorni che quella domanda lo tormentava.

Baudelaire e Verlaine erano molto simili, allora perché la spia non aveva mai menzionato una simile possibilità?

«Contrariamente a questo essere io so che i morti non possono tornare in vita. Nessuna Abilità può restituire ciò che è stato perso. Perché quindi ferirsi con un’illusione? Non ha senso»

«Hai forse visto qualcosa di terribile?» Baudelaire scosse il capo senza rispondere.

Aveva visto lo sguardo innamorato del suo Paul, le sue mani intrecciate con quelle di quel mostro senz’anima. Faceva male, ma sapeva che un simile scenario non era destinato a durare.

Attivò nuovamente la propria Abilità.


 

***


 

Wonderland



 

«Tu e Arthur avete combattuto durante la guerra, vero?» Paul Verlaine aveva pigramente alzato gli occhi dal quotidiano che stava leggendo per osservare meglio il figlio. Charlie stava facendo i compiti seduto alla propria scrivania, quando all’improvviso, se ne era uscito con una simile domanda.

«Eravamo due spie» si limitò a rispondere. Non sapeva perché, ma non amava ripensare a quella particolare stagione della propria vita. Gli appariva così lontana, distante. Quasi si fosse trattato di un sogno.

«Eravate dei Poètes Maudits» il biondo storse il naso nell’udire quel termine.

«Se lo sai allora perché lo chiedi?»

«I genitori di Clarisse lavoravano in banca, ma dopo la guerra sono diventati semplici operai. Quelli di Jacques invece hanno sempre fatto i dottori» Verlaine stava iniziando a comprendere cosa avesse scatenato la curiosità del bambino e dove volesse andare a parare con tutte quelle domande;

«State forse studiando gli anni della guerra?» domandò ripiegando il quotidiano

«Si. La nostra insegnante ha detto che anche se si è conclusa da poco è importante che le nuove generazioni imparino dagli errori del passato per non poterli commettere di nuovo in futuro. Io trovo che abbia senso» il Re degli Assassini abbozzò un sorriso;

«Si, ne ha. La tua insegnante è molto saggia»

«Quindi cosa facevate come spie durante la guerra? Dove eravate quando è scoppiata? Stavate già insieme?» Verlaine ci mise qualche secondo prima di rispondere, soprattutto all’ultima domanda.

Era vero che il suo rapporto con Rimbaud era cambiato dal giorno in cui avevano deciso di allevare Charlie, ma non riusciva a comprendere cosa il bambino intendesse con quel “stare insieme”.

Lui e Arthur erano sempre stati insieme.

Decise di rispondere con ordine ad ogni domanda sperando che la curiosità di quella piccola furia rossa si placasse.

«Lavoravamo per l’intelligence francese. Arthur era uno degli agenti migliori. Aveva svolto con successo molte missioni anche all’estero. Ricordo che andava spesso a Londra e conosceva molti esponenti della Torre dell’Orologio, un’altra organizzazione inglese»

«Tu invece che facevi?» lo incalzò il bambino, sempre più curioso.

Ero un’arma da tenere sotto controllo. Un pericoloso essere artificiale. Un mostro. Ero la sua missione.

«Facevo ciò che mi veniva ordinato.» Charlie non parve soddisfatto della risposta.

«Mi avevano affidato a Rimbaud. È stato lui ad insegnarmi ogni cosa» a quelle parole, il bambino parve illuminarsi;

«Come tu stai facendo con me, mostrandomi come utilizzare la mia Abilità?»

«Qualcosa del genere» concesse il biondo, ripensando a quel periodo. Sembrava essere passata un’eternità da quei giorni.

«E quando è scoppiata la guerra invece dove eravate?» nemmeno il tempo di prendere fiato che il piccolo era tornato all’attacco. Paul soffocò una risata. Sebbene non avessero legami di sangue quel bambino somigliava sempre più a loro. Era un fatto innegabile, come lo sguardo che in quel momento gli stava rivolgendo.

Un’imitazione perfetta dell’espressione di Arthur.

«Ricordo che eravamo a Parigi. C’era un Cafè dove eravamo soliti a darci appuntamento»

«Vorrei tanto visitare quella città. Ne parlate sempre» Verlaine storse il naso. Erano ancora ricercati dal Governo. Andare nella capitale era fuori discussione, ma come poteva farlo capire al figlio?

«Un giorno ti prometto che ci andremo tutti insieme» sperò di essere stato abbastanza convincente. Mentire a Charlie gli risultava sempre difficile.

«Quindi era scoppiata la guerra?»

«Già e il giorno dopo Arthur mi disse che sarebbe partito per la Germania»

«Ma non potevi andare con lui?»

«Non era possibile»

«Il lavoro di spia non mi piace» decretò incrociando le braccia. Il sorriso sul viso di Verlaine si allargò,

«Per questo l’abbiamo cambiato» non serviva che Charlie conoscesse altri dettagli.

«Allora tu sei rimasto a Parigi e Arthur in Germania e poi?» la curiosità dei bambini era senza freni. L’ex spia si arrese, posando il quotidiano sul tavolo per poi avvicinarsi al figlio.

«Ci siamo rivisti durante la Battaglia di Parigi» il rosso sgranò gli occhi per la sorpresa.


 

***


 

Qualche stagione prima


 

- Battaglia di Parigi -


 

Dopo mesi di lontananza aveva rivisto Rimbaud nel bel mezzo dello scontro, mentre entrambi stavano utilizzando le proprie Abilità Speciali per evacuare i feriti. Verlaine era arrabbiato con il compagno per non averlo mai contattato in quei mesi ma anche felice di saperlo vivo.

«Allora, come era il clima a Berlino?» Arthur gli aveva rivolto uno sguardo assassino, dopo averlo raggiunto dall’altra parte della strada. Dopo mesi, quelle erano le prime parole che il biondo gli rivolgeva. Non riuscì a nascondere la propria delusione.

«Non mi sembrava di averti insegnato il sarcasmo»

«Ma io sono davvero curioso di saperlo, in fondo non ho mai lasciato questo Paese» Rimbaud alzò gli occhi al cielo, nonostante la lontananza il partner non era affatto cambiato.

«Se avessi potuto sarei rimasto, ma dovevo obbedire agli ordini. Lo sai»

«E allora l’ordine di badare a me?»

«Non fare il bambino capriccioso Paul. L’intero continente è in guerra, la mia presenza era richiesta altrove»

«Ora anche io sono diventato un Trascendentale» ammise abbassando il capo. Rimbaud sorrise.

«Lo sei sempre stato fin dalla tua creazione. A quanto pare la Francia ha un disperato bisogno di uomini» concluse affondando il viso nella propria sciarpa, scosso dall’ennesimo brivido di freddo.

«Come pensi che andrà a finire?» Avevano già affrontato un discorso simile, era stato il giorno in cui quel conflitto era iniziato.

«Perderemo la guerra. Se ancora non te ne fossi accorto, Parigi è caduta»

«Perché non posso usare la mia Abilità?» si lamentò Verlaine calciando via una delle macerie ai propri piedi;

«Non conosciamo ancora la portata del tuo potere. È vero, io so come controllarlo, ma se oltrepassassi il limite? C’è la possibilità che tu ti auto-distrugga e io non voglio rischiare, non posso permetterlo» Non appena si accorse di quanto detto, Rimbaud si affrettò a nascondere nuovamente il viso dentro la propria sciarpa; il biondo fece ancora qualche passo in avanti.

«Hai freddo?» il moro annuì cercando di evitare quello sguardo di ghiaccio che non sembrava intenzionato a lasciarlo. C’era però ancora una cosa che Verlaine non gli aveva domandato;

«Perché sei tornato? Anzi quando?» Tutto era racchiuso in quelle due frasi. Arthur se le aspettava dal momento stesso in cui si erano rivisti. Conosceva il proprio partner meglio di chiunque altro.

«Da un paio di giorni» si trovò ad ammettere. Non aveva senso mentire.

«Perché non hai mai risposto ai miei messaggi?»

«Siamo in guerra, potevano trovarmi. Non ti ho insegnato nulla?» il moro stava iniziando ad averne abbastanza di quel comportamento infantile;

«Pensavo fossi morto» Arthur finalmente si decise ad alzare il capo per poter incontrare gli occhi del biondo.

Era stato uno stupido.

Paul si era sentito abbandonato. Rimbaud era così abituato a pensare solo a sé stesso che non aveva realizzato quanto il suo comportamento avesse potuto ferire il partner.

«Credi che basti così poco per uccidermi? Mi ferisci» tentò di scherzare, allungando una mano accarezzandogli il capo. Di colpo, era come se non fosse mai partito.

«Ti sono cresciuti i capelli» gli fece notare, passandosi quei fili biondi tra le dita; erano setosi come li ricordava.

«Non ho avuto modo di tagliarli» si giustificò, strappandogli un sorriso. C’erano delle volte in cui Verlaine sembrava davvero un bambino.

«Ti stanno bene» aggiunse, prima di iniziare a intrecciare tra loro quelle ciocche dorate.

«Che stai facendo?»

«Zitto e vieni più vicino» l’essere artificiale fece quanto detto.

«Voilà» Arthur gli aveva semplicemente spostato i capelli dal volto acconciandoli in una treccia che ricadeva di lato, legandoli in una coda bassa.

«Così quando combatti non avrai nulla davanti agli occhi» rispose mettendogli entrambe le mani sulle spalle. Paul non si mosse, fissando la propria figura e quella di Rimbaud riflesse in uno vetro rotto.

«Alla prossima missione verrò con te. Non mi importa di cosa diranno i nostri superiori» Arthur sorrise, il freddo che provava aveva lasciato il posto ad un’altra sensazione che solo la presenza del proprio partner sapeva donargli.

Non poteva dire se fosse un caso o meno, ma Verlaine aveva ereditato anche la sua testardaggine. A volte gli ricordava se stesso. Il vecchio Paul, l’uomo che aveva finito con il condannare a morte il proprio migliore amico.

Scosse la testa. Non era il momento per lasciarsi andare a simili pensieri.

«Hai un posto dove passare la notte?» Arthur venne riportato alla realtà dalle parole del biondo.

«Penso che il mio nascondiglio sia stato distrutto questo pomeriggio» si trovò ad ammettere. Verlaine accennò ad un sorriso;

«Credo che il nostro vecchio appartamento esista ancora»

«Allora non ci resta che andare a controllare non credi?»


 

***


 

Wonderland


 

«Secondo questo libro, la Battaglia di Parigi è durata ben tre giorni»

Verlaine annuì alle parole del figlio.

«Gran parte della città era stata distrutta» continuò il bambino;

«Diciamo che i nostri nemici non si erano risparmiati. Quasi tutta la rive gauche era irriconoscibile» proseguì l’uomo, accavallando le gambe pensieroso. Sembrava passata un’eternità da quei giorni, eppure poteva ancora udire il suono delle sirene, le urla della popolazione mentre fuggiva tra le macerie dei palazzi. Il volto addormentato di Arthur illuminato dalle prime luci del mattino.

«Stavate già insieme durante la guerra?» Come tutti i bambini anche Charles era solito passare da un argomento all’altro. A quella domanda però Verlaine non sapeva davvero come rispondere;

«Io e Arthur siamo sempre stati insieme mi sembra di avertelo già detto» il rosso scosse il capo;

«Insieme insieme come ora» finalmente Paul sembrò afferrare il concetto.

«Dopo che sei arrivato tu» ammise.

Era vero. Dopo che Arthur aveva acconsentito a crescere Charlie qualcosa nel loro rapporto era mutato. Non erano stati che tanti piccoli cambiamenti, avvenuti in modo graduale e spontaneo. Un primo avvicinamento era avvenuto prima della partenza per il Giappone, quando Rimbaud aveva insistito per celebrare il suo compleanno, ma era stato solo dopo il ritorno in patria che qualcosa era scattato.

Dopo Suribachi erano tornati a Parigi. Nonostante entrambi sapessero come la capitale non fosse affatto un luogo sicuro, avevano deciso di ricostruire le loro vite proprio da lì. Arthur doveva recuperare armi e documenti che li avrebbero aiutati a crearsi delle nuove identità.

In quei giorni caotici, Verlaine non aveva mai abbandonato il bambino. Il piccolo Charlie aveva dormito per quarantotto ore dopo la fuga dal laboratorio. Dopo il suo risveglio non aveva detto una parola. Rimbaud aveva provato a rivolgersi a lui in giapponese ma il rosso aveva scelto di barricarsi dietro ad un muro fatto di silenzio.

«Tu sei il mio fratellino» Aveva esordito il biondo parlando in francese. Charlie lo aveva guardato confuso.

«Arthur sta preparando i nostri nuovi documenti. Secondo quei pezzi di carta tu ora sei mio fratello. Se ci pensi noi siamo simili, anche io sono nato in un laboratorio come quello in cui ti abbiamo trovato» vedendo che non stava ottenendo nessuna risposta proseguì.

«È stato Arthur a trovarmi. Quattro anni fa. Mi ha dato un nome esattamente come ha fatto con te. Mi ha anche insegnato ad utilizzare il mio potere» il bambino sembrò confuso.

«Noi siamo speciali Charlie» aggiunse utilizzando la gravità per far volare dei piccoli oggetti nella stanza. Il più piccolo, dopo il timore iniziale prese ad osservarli emozionato.

«Ti porteremo al sicuro, in campagna e una volta lì ti insegnerò come fare. Non tornerai mai più in quel posto»

«Non mi riporterete al laboratorio?» Per un secondo Verlaine pensò di esserselo immaginato. Charlie non solo aveva parlato ma si era espresso in un francese perfetto.

«No, resterai con noi» rispose. Fu allora che il piccolo si sporse in avanti per abbracciarlo.

Quando Rimbaud tornò nel piccolo appartamento che utilizzavano come rifugio, trovò Charlie addormentato tra le braccia del biondo che lo guardava incantato.

«Ha parlato» lo informò sottovoce. Arthur sorrise;

«Non ne avevo dubbi. Aveva solo bisogno di tempo. Andrà tutto bene»

«Abbiamo solo il Governo sulle nostre tracce e un’accusa di tradimento che pende sulle nostre teste» gli fece notare il biondo con sarcasmo.

«Finché saremo insieme andrà tutto bene. Non permetterò che vi facciano del male»

«Senza offesa, ma tu sei umano. Sarò io a proteggerti»

Rimbaud gli scoppiò a ridere in faccia prima di chinarsi quel tanto che bastava per far collidere le loro labbra. Si guardarlo negli occhi per poi sorridere entrambi mentre le loro mani andavano ad intrecciarsi.

Da quel momento in poi niente sarebbe più stato come prima.
















 

*«A me. La storia di una delle mie follie»

  
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