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Autore: Cladzky    29/04/2023    1 recensioni
Leggendo l'Eneide l'autore si addormenta e finisce in un terribile oltretomba scritto in terzine ma anti-Dantesco, dove non sono i morti a essere puniti, ma i suoi peccati letterari. Il buon Virgilio, come al solito, recupera la sua funzione di guida in questo inferno laico, traghettandolo da un'anima furiosa all'altra, pronta a randellarlo. Un'opera per ridere, ma anche di riflessione interiore e soprattutto di insulti, piena di personaggi storici.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Parodia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CANTO IX - Ove Vergilio ascolta le suppliche dell’autore che torna alla sua infanzia.

 

In quelle tenebre, sì tanto fitte,

Perdemci quasi di vista a un passo,

Eppur quel lettre, in fronte scritte,

 

Che rendean l'altier poeta lasso,

Erano un faro con quel luccichio.

Seduto su papiri, me guardava basso

 

E dicia "Agogno pur'io quest'oblio

Piuttosto ch'essere beffato in eterno.

Sei qui per lui, che lasciatti di mio?"

 

Tremavo al vederlo soffrire lo scherno.

Al suo trono mi getto, ai piedi mi prostro,

singhiozzando un pianto che più non governo

 

E vo farlo partecipe all'amore nostro:

 

"Vergilio, rallegra, io sono qui solo per te!"

Ma lui, distogliendo il capo, copre il viso e dice:

"Niente ti vale lusingare in esametri e pure mal fatti.

Tu solo mi vuoi per scampare al periglio che t'attende all'Averno,

Tu solo mi vuoi perché segui l'orme del maledetto poeta,

Tu solo mi vuoi eppur non riuscisti a finire la mia opera

Pur avendo tutta una vita a disposizione.

Sparisci" Disse e tacque, abbandonandosi al trono de carta.

Al che debbo radunarmi per non fuggire nell'ombra

E infine dico "Sic vos, non vobis, scribis, poetae!

È destino che tutti prendan qualcosa dai passati maestri.

E tu sei un esempio o niuno avrebbe da te preso!"

"Magra consolazione" mugugna e si gratta le guance

"Sono obsoleto. Sono contesto storico d'altri.

Nessuno mi legge se non indirettamente atttraverso lui.

Fui tanto celebrato in vita da credere d'essere immortale:

Oh, Mecenate, tu che dicevi di circondarti dei migliori;

Oh, Vario, tu più grande che mi reputavi più grande,

Che a lui mi introducesti, che a te mi ispirai, or dove sei?

Perché sei sparito tu e non io che da te rubai?

Ottaviano, tu che piansi per il sesto mio libro a ricordar Marcello,

Tu ch'incaricasti gli amici di pubblicare il poema incompleto,

Tu Plozio, Orazio, Ovidio, Livio, Tibullo e Melisso,

Che fine han fatto le vostre parole nei miei riguardi?

Dicevate che i miei lavori sarebbero sempre stati celebrati 

Che i miei versi sempre sospinto avrebbero l'umano,

Chi muovono ora? Chi ancora è investito dalla Giunonica tempesta?

Chi sbalordisce al vedere slittare Mercurio sui venti

Sollecitando l'eroe, adagiato in grotte col nemico venturo?

Chi ancora piange alla morte di Dido, immolata a Nemesis?

Chi ancora ha paura di Kerberos, bestia tridentata e straziante?

I gusti son cambiati, il senso si è evoluto, questo ho sentito.

Ho fallito dunque. Ho fallito a veder l'imperfezione del testo,

Eppur lo sentivo. Sentivo che dovevo bruciare lo scritto!

Arderlo in fiamme più fisiche delle bugie di cui è fatto!

Ma mi sono lasciato abbindolare dalla breve fama terrena

E ora, in eterno, ho causato il mio male con quello

Che tutti trovano una nota interessante, un potenziale,

Un apocrifo alla letteratura greca, una mera curiosità e nulla più.

Omero! Oh, cosa dovevo fare per raggiungerti lassù?

Tutti ti citano, tutti ti adattano, tutti ti leggono

E io pure lo fui, fino a quando fui spodestato da lui.

 

-Cedite Romani scriptores, cedite Grai: Nescio quid maius nascitur Iliade!-

 

Properzio, le tue parole cadono nel grande vuoto della storia,

Quanto m'elogiasti altri lo dissero prima e poi.

Lucano! Tu che mertasti le laude del fiero Nerone,

Che componesti il tuo poema sulla guerra civile,

Che hai detto tu di te stesso davanti alla storia? 

 

-Pharsalia nostra vivet, et a nullo tenebris damnabimur aevo-

 

E or che sei? Nella settima bolgia, dal fiorentino,

Sei stato paragonato e beffato, mero metro del suo ingegno.

Ho forse diversa pena?" E tacque di nuovo, mesto,

Calò gli occhi, il sospiro fe lieve, gli scolorì la faccia

E io idarno lo scuotevo per le vesti porpora e le lettre

Sempre più accese parevano d'abbagliarmi che non lo vedevo.

Oh com'era patetico vederlo abbandonato, col braccio pendente

A imitare il marmoreo decoro al sarcofago del cacciatore Meleagro.

"Vate" Povai ancora, ma lui a me "Che lasciatti di mio?"

"Vate" Ripresi "Tu fosti il primo a commuovermi con l'epica.

Non fu il fiorentino e il suo amor cortese per Beatrice,

Nè l'ira d'Achille per chi osò togliergli Patroclo,

Né Odisseo sperduto dieci'anni fuor l'Egeo.

Ma tu fosti nel narrare la caduta del regno Teucro!

Studiavati la mia germana in quel periodo già detto

Quando precoce ignoravo la scrittura ma precoce, attraeva

E mi narrava delle crude guerre d'Omeriche memorie.

Dei dieci anni di scontri, delle morti di molti eroi:

Asteropeo, sventrato in riva al fiume suo padre;

Demoleonte, stempiato sul cocchio da una lancia;

L'Alastoride Troo, dissanguato implorando in abbraccio pietà;

Ettore, per sette volte strascicato attorno le mura pei tendini;

A lei io lamentai -Non più voglio sentire, taglia corto

E dimmi se questa meschina gente trovò mai la pace-

Ed ella -Non Omero narrò quest'episodio o non ci pervenne

E a ben altro autore dovrai tu rivolgerti per saperlo-

-Non sire crudele- Pregai -Saper debb'ora che fu

D'Ilio e gli achei e i complotti divini che li tormentano.

Si ravvedrà l’avido Agamennone? E la volontà d’Elena

Sarà tenuta in considerazione? Attendere non posso.

Ella m'accontentò -Sappi tu allora, che ottocento anni dopo,

Dopo l'Egeo e l'Adriatico, Omero era letto già

Come noi lo leggiamo oggi ed è familiare a tutti.

Da maestro a studente e da studente il maestro, fu trasmesso fino

A che non divenne comune credenza che loro,

I romani, fossero la discendenza di Troia dall’alte mura,

Marittima regina dell’Ellesponto, chiave alla Marmara,

Com’essi eran divenuti padroni dei latini, poi gli etruschi

I sanniti, i veneti e le greche colonie, in breve l’Italia

E pur non s’arrestarono, pure continuarono a cingere il mare

Fino a che non lo chiamarono il loro, fino all’Iberia

Da dove potevano vedere il sole sorgere dall’Oceano.

E si dicevano, superbi, certo per queste conquiste

Noi non possiamo che essere figli di dei alla lontana,

Ma chi? Non d’Achille, della Ftia fertile,

Odisseo d’Itaca, Perseo di Tirinto o Giasone di Iolco,

Chi degli eroi non aveva patria che potesse vantarsi?

E la risposta venne: quella che fu colto e immortalato

In un canto che divenne il verso dell'aquila stessa di Roma,

Tanto grande da spandersi dalla Tunisa a Tiro e Trapani,

Tanto profonda da scendere all’inferno e descriverne il Tartaro,

Tanta alta da salire all’Olimpo e mostrare i sospiri di Venere,

L’ira di Giunone, l’obbedienza di Eolo e la saggezza di Giove.

L’Aenē̆is è questa, una composizione di viaggio, di guerra

Ma soprattutto di pietà verso gli dei e verso gli uomini-

E proseguì, la mia sorella, nell’illustrare il destino di Troia ingannata

Da Sinone, l’attore che gli abitanti aveva dissimulato

Coi suoi pianti, con la sua storia e l’aperte braccia.

Ma da tutto questo ammasso levava un uomo canuto in pelo

Ma dalle forti membra, il sempre cupo Laokóōn,

Dalle visa stancate da dieci anni di assedio che sgolava:

Quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentis!

Laokóōn, come amavi la tua patria, la tua gente,

Il suo bel mare inquinato dall’attracco delle mille navi argive,

Le spiagge bianche lucenti del sole dell’Asia minore,

D’Apollo, dio in cui mai crollò la fedeltà tua in guerra

Che pur girò il viso al momento estremo per te, uomo.

Laokóōn, dai due bei figlioletti ancora impuberi padre,

Sacerdote unico ascoltatore di Cassandra profeta inaudita.

Laokóōn, dal vindice scaglio d’asta al cavallo funesto,

Fu ritenuto, benché pietoso agli dèi, avverso

A quel fato cui neppure loro possono appellarsi

Che aveva già dichiarato Ilio caduta da anni,

Quel fato crudele contro cui nessuno può lottare,

Quel fato crudele della morte a cui nessuno scampa.

Laokóōn, tu fosti il simbolo dell’uomo atterrito dalla morte,

Da dio, dalla natura, a tutto ciò ch’è ineluttabile:

Laokóōn, contro dio, il destino, contro Thánatos

Tu scagliasti la tua lancia, spirito dell’uomo irriducibile

Pure di fronte al limite delle sue spoglie mortali.

Per questo sei punito, senza alcuna ragione, senza odio,

Da Poseidone cui tu stesso officiasti il sacrificio la mattina.

Ecce autem gemini a Tenedo tranquilla per alta

(horresco referens) immensis orbibus angues!

Ma ecco che da Ténedo, sopra la calma marina

(Ho raccapriccio nel dirlo) due serpenti dalle spire immense!

Ed essi schiacciano il tuo tentativo, la tua ribellione al divino,

Senza alcun torto che mai facesti nella tua vita giusta,

Pedina soltanto d’un universo che va in un’altra direzione.

A che pensasti quando la luce si spense nei tuoi occhi?

Ti pentisti della tua lotta fallita in partenza o valse il gioco?

Laokóōn, valevi forse qualcosa? Potevi salvare i tuoi figli?

La realtà è una soltanto. Esiste comunque un libero arbitrio

Quando non vedremo mai le alternative possibili, più felici?

Com’è ingiusta la tua morte! Ma è possibile, per gli dei, essere iniqui?

Obbediscono loro a una moralità o sono loro stessi la morale?

Giocano seguendo le nostre stesse regole là in alto?

Laokóōn, la tua era superbia nello scontrarti al fato o puro amore

Per la casa, gli amici, la terra che non volevi brulla e deserta?

Laokóōn, la tua storia mi ha atterrito, mi ha fatto rivalutare dio,

Mise in discussione il mio concetto d’onnipotenza

Se fossi io il problema nel trovarla illegittima e crudele.

Può un uomo denunciare dio? E nel farlo, tu,

La tua storia cosa ci insegna? Che esempio funge a noi?

Che non è consono scontrarsi alla volontà superiore, inchinarsi

Arrendersi dunque, lasciarsi spingere, non affezionarsi,

Eppure, Laokóōn, mi facesti sentire meno solo,

Fosti il primo nel quale m’immedesimai, nel suo sacrificio estremo,

Non nel furto di Giasone o il volo di Perseo in Etiopia,

Ma in te, anziano sacerdote, eroe delle cause perse

E appunto le più giuste, per te io piansi quel giorno com’ora

Piango te, divino poeta, precettore mirabile,

Aeda delle armi e dell’uomo valoroso, pietoso con tutti,

Tu mi hai mostrato la pietà che neppure Omero riuscì.

Tu mi mostrasti, allora, cosa avrei fatto

Col mio tempo su questa terra e cantare pietà.”

Così tacqui, con la gola riarsa e alzai lo sguardo.

Lui sorrideva e si rialzò, aiutando me pure,

Sì giocondo e raggiante, come un sole invitto, disse:

“Qualcosa lasciatti di mio, cantatoti com’era d’uso

Presso i miei tempi, per voce di una colta sorella, fortunato.

Allora vieni. Sic vos, non vobis, mirerai ciò

Che poi ad altri, come fu per te, canterai, aeda.”

 
   
 
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