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Autore: darkangelII    02/05/2023    1 recensioni
- Lui non parlava mai senza motivo o convinzione e quel che aveva appena detto era un chiaro richiamo ai miei pensieri.
A Lui nulla poteva sfuggire o nascondersi.
«Quindi andiamo?» E mi prese. -
Qui trattiamo di un'altra divinità, di un altro incontro fugace che lascia tutto e niente.
Un'altra rivisitazione molto generale di ciò che per me rappresenta lui, Apollo. Di come vorrei che fosse e che ruolo potrebbe avere nella mia vita se fosse presente.
Spero piaccia.
Perdonate eventuali errori, ma non abbiate paura di riferirli. Purtroppo i miei tempi di scrittura sono tardivi, veloci e rari.
Buona lettura.
Genere: Fantasy, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Si credeva che Apollo, dio della medicina, fosse anche quello che mandava le malattie. In origine i due mestieri ne formavano uno solo; è ancora così.”


Volevo uscire da quella casa. Ero arrabbiata, turbata, accaldata, stanca e avevo bisogno di svagare la mente, di vedere il mondo e non pensare. Non volevo provare nulla.
La frustrazione mi aveva fatto lanciare i cuscini più di una volta, la rabbia e mi aveva fatto sbattere le porte invece di chiuderle, il turbamento mi aveva fatto creare solchi nel marmo della mia casa mentre mi spostavo da un punto all’altro delle mura aspettando, pensando, maledicendo l’attesa e il nulla che mi circondava. Le finestre erano diventate i miei più grandi nemici perché vedere quel cielo terso nel suo tumulto di colori e sapere che lei era là da qualche parte, in un punto non definito, mi faceva impazzire.
Lei, il suo amore per me e io, il con il mio amore per lei tra le mani come se fosse un frutto maturo o un figlio appena nato. Lei, che poteva vedere tutto quando voleva e che riusciva a rimanere distante, lei che sentiva quello che io non sentivo, lei che poteva sfiorarmi e sapere con chiarezza ciò che io nascondevo.. Lei, lei, lei. Tutto era suo ed anche io lo ero.
Era frustrante, soffocante. Mi sentivo legata all’invisibile e impossibilitata a sfuggirle anche se non volevo davvero farlo.
Eppure in quella sera in quell’ennesimo tramonto, tutto era divenuto troppo.
Con la mia rabbia e la mia noia, con le mie scuse e la mia voglia di rivalsa sui sentimenti assillanti, camminai fino alla camera e spalancai le ante dell’armadio con un sonoro schiocco. Qualcosa cigolò nel legno ma anche se fossero cadute non mi sarebbe importato.
Scelsi con nervosismo un abito bianco con un lungo spacco, qualcosa di leggero e bello che sapevo mi rendeva felice indossare e me lo misi notando come il tessuto arrivasse alle mie caviglie. Ero troppo bassa, troppo morbida di fianchi per non sembrare ridicola in quella veste, perciò con peggiore risentimento indossai dei sandali alti per rendermi più slanciata, più bella. Camminai fino allo specchio e mi sistemai i capelli che erano diventati un po’ più lunghi sulle spalle, indossai poi i miei occhiali e uscì sentendomi una divinità.
Era così che volevo sentirmi, come una di Loro. Ero io che sceglievo di essere tale.
L’aria calda dell’estate mi schiaffeggiò invece di accogliermi.
Camminai per la strada e raggiunsi il lungomare ignorando la mente che mi portava immagini lontane di attimi passati in compagnia e mentre ondeggiavo i fianchi e mi incupivo, mi convincevo di sentirmi bene. Finsi di non sentire la pesante nube di nostalgia accelerarmi il battito del cuore mentre riconoscevo il punto preciso in cui avevo sfiorato Afrodite per l’ultima volta.
Ne sentii il sapore, la morbidezza e il profumo mischiato alla salsedine.
Pensarci mi fece sentire il richiamo del mare che si spezzava con le sue onde sugli scogli e sulla sabbia, ma io andai avanti e ignorai quel brillare del sole sull’acqua. Il mio mare quella notte sarebbero state le persone, non sarebbe stata una massa di liquido colorato e salato, morbido e caldo. Le persone sarebbero state la mia fonte di vita, il mio oceano e io mi sarei infranta contro di loro.
Fu così che camminai e riconobbi gli sguardi lusinghieri e attratti di uomini e donne che mi guardavano e allora mi chiesi se era così che si sentiva Afrodite ogni giorno, così appetibile, potente, perfetta. Io avevo l’illusione di avere nelle mani il potere su quelle persone, ma lei ne aveva la certezza.. Eppure mi piaceva e mi sentivo soddisfatta, quasi incattivita e folle, felice di aver indossato quell’abito bianco perché qualcuno mi ammirava da lontano, qualcuno che mi considerava di più di un soprammobile dimenticato alle spalle.
Per questo e per molto altro rallentai il passo senza esagerare, senza rendermi troppo ridicola. Volevo sentirmi desiderata e distante, ma non volevo fastidi.
Volevo essere Afrodite nel mio piccolo gioco stupido, volevo avere il controllo sulla mia libertà d’agire come meglio desideravo e andare dove meglio credevo di poter stare. In quel momento non mi paragonai a lei, ma desiderai disperatamente di poter essere lei.
La rabbia venne accompagnata dal risentimento, da un lontano senso di invidia.
Volevo ferirla, volevo rimanere e poi andarmene, volevo che vedesse quanto sapevo stare bene e che non mi mancava come lei poteva pensare. Io ero bella, potente, avevo delle possibilità e non esisteva niente più di questo.. Volevo essere egoista, volevo essere disgraziata per una notte.
Volevo che lei provasse quel che provavo io.
Furono pensiero sfuggevoli come fumo tra le dita eppure lasciarono l’amaro sulla mia lingua come se fosse stata bile.
Il sangue da caldo si fece freddo, mi fecero male le ossa e la pelle si increspò per i brividi perché mi conoscevo e la verità salì verso la mia anima con dolorosa cristallina chiarezza.
Capì che era il momento prima della fine delle mie bugie: da lì a poco sarebbe arrivato il dolore, una fitta dopo l’altra, sarebbe arrivata la mancanza e la nostalgia, la sofferenza della lontananza.
Era una corsa contro il tempo tra me e la mia mente che voleva sfuggire alla realtà.
No, non ci sarebbe stata pace lì nel mondo dei mortali.

«E’ stato difficile raggiungerti camminando. Nulla di impossibile, ma difficile. E fastidioso.»
Quella voce. Quella voce improvvisa come un lampo nel cielo terso era calda, morbida e bella come il peccato, ed arrivò alle spalle increspando in superficie la tensione che sentivo in precedenza. Quella voce mi accolse più dolce del miele e mi abbracciò senza toccarmi, mi scaldò l’anima fredda e mi riempì il corpo torbido.
Fu tutta questione di un singolo, leggero attimo ma io lo ringraziai in silenzio per questo.
« Mi rincuora sapere che ti ho reso la vita difficile.. Almeno per questa volta, si intende.» gli risposi sorridendo ma non mi voltai.
« Si intende, certo. Non farmi pentire, poi dovrei farti soffrire. Che supplizio sarebbe e tu non riusciresti a sopravvivere.»
Conosceva i miei limiti, sapeva che io non potevo reggere a lungo al dolore.
Diceva così perché più di una leggenda raccontava di come la sua ira avesse fatto cadere in disgrazia uomini e donne che avevano voluto sfidarlo oppure in alcuni casi, non assecondarlo nei suoi desideri. Quel Dio era qualcosa di troppo complesso per poterlo definire perfetto anche se la sua apparenza lo faceva sembrare tale. Era saggio, pazzo, iracondo, poeta e astro nascente, maestro d'arte e della bellezza, viveva nel peccato eppure la filosofia era una delle sue ragioni di vita.
Quanto aveva amato, quanto aveva odiato, quanto aveva pianto e riso, quanta saggezza sapeva dare e quanta pazzia poteva colpirlo negli attimi più estremi..
Tutti lo desideravano, tutti lo volevano per se’ che fossero questi uomini o donne. Tutti tranne me.
E questo era ragione di odio e di amore in ugual misura.
Era ragione di meraviglia e rancore, di vittoria e perdita nella nostra piccola sceneggiata quotidiana.
Lui rimaneva se stesso, io mi limitavo a viverlo.
«Cose già viste?»
«Esatto.»
«Perché sei qui?»
«Perché lo voglio. Ti ho visto sorridere al tramonto e non ho resistito. Avevo voglia di nuotare in questo mare di gente e assaggiarne i frutti.»
Dannato. Lui non parlava mai senza motivo o convinzione e quel che aveva appena detto era un chiaro richiamo ai miei pensieri. A Lui nulla poteva sfuggire o nascondersi.
«Quindi andiamo?» E mi prese con se’.

Eravamo seduti uno accanto all’altra su una terrazza che svettava sul fiume di persone che si muovevano in ogni direzione. A dividerci c’era solo un tavolino dove tenevamo sopra i nostri bicchieri: lui vino dolce, leggermente speziato di chissà quale origine ed io qualcosa di aspro e veloce, un gin lemon crudo e amaro, intenso. Meravigliosamente freddo.
«Un tempo i mortali erano più belli..»
Osservava le persone camminare con un cipiglio critico che incupiva i suoi occhi ambrati e caldi come il sole ed io sapevo che non stava giudicando con cattiveria ma piuttosto rimaneva attento studiando e scegliendo il prossimo corpo che avrebbe potuto sfiorare da vicino. Una specie di scelta giudiziosa e precisa perché lui non avrebbe mai sprecato i proprio eterni attimi per qualcosa che non riteneva degno, curioso, unico.
«..Non come Giacinto.» Aggiunsi io guardandolo.
Appoggiai il mento sulle nocche e gli sorrisi voltandomi verso di lui.
«Un tempo per aver detto il suo nome avrei potuto darti la caccia.»
Si chinò verso di me e con le dita mi strinse la bocca quasi a volermi baciare, ma non lo fece e mi sfiorò solamente. Conosceva l’ira di Afrodite e conosceva chi insieme a lei sarebbe potuto arrivare e per questo io sapevo si sarebbe trattenuto: si limitò a toccarmi, ad infastidirmi, a sfiorarmi le labbra con un dito per poi allontanarsi..
Lui era fugace, intenso, senza limiti.
«Balli con me?» chiese.
«No.» risposi.
E mi ritrovai a danzare.

Non ricordai se mi fossi alzata di mia spontanea volontà o se mi fossi ritrovata in piedi tra le braccia di un corpo troppo caldo a causa di una magia, eppure ero lì a muovermi. Anzi, a seguirlo.
Per quanto avessimo potuto inventarmi storie e leggende a riguardo, sapevo con infinita e crudele chiarezza che Apollo mi stava guidando in una danza che lui conosceva bene e in cui eccelleva mentre io, tra l’imbarazzo attutito dall’alcool e incantata dalla brezza d’estate, tentavo goffamente e con falsa sicurezza di inseguirlo nei movimenti. Io come mortale avrei sempre seguito gli Dei.
Con una mano sui fianchi mi fece spostare di un passo e la sua gamba scivolò tra le mie divaricandole, poi la sua mano libera afferrò la mia e mi condusse spostando il peso da un piede all’altro, fianco contro fianco, petto contro petto ed anche se non eravamo sulla riva del mare, ondeggiavamo, danzavamo, ci muovevamo insieme come le onde.
Lui guidava, io seguivo, lui sfiorava e io toccavo, lui mi fissava lontano, perfetto ed io piccola, fragile come una mortale sa essere, lo ricambiavo.
Non potevo essere come lui, non avrei mai potuto.
Non mi accorsi del cielo che cambiava colore, non mi accorsi dello sguardo della gente che ci osservava e sussurrava frasi impietose, mi accorsi solo di Apollo che danzava con me su una musica che solo noi sentivamo.
Mi accolse benedicendomi e io lo accolsi stringendolo, riempiendomi il naso del suo profumo di oli delicati e terra cotta dal sole. Era un buon odore, era casa, era la sicurezza di una mano che mi proteggeva.
«Non sei più triste.»
Non lo ero. Mi ero dimenticata di esserlo perché quando si sta’ così tanto vicino al sole era impossibile non sentirsi scaldati nell’anima.
«Non pensi più ad Afrodite?»
No, quello era impossibile. Lei era con me sotto la pelle, nella mia mente e negli strati del mio cuore. Lei era quella divinità che entrava di soppiatto nei miei sogni e si dimenticava di chiudere le porte quando al mattino scivolava via tra una visione e l’altra. Era la creatura che rimiravo da lontano e che faceva più male di tutte quando si allontanava e a volte, anche quando era vicino.
Lei era Afrodite.
Lei rimaneva dentro di me sopita ma sempre presente, per sempre reale.
«No.. Tu hai scelto di amare uno di noi, una creatura immortale. Ti sei scelta la tua maledizione, innamorandoti dell’amore stesso.. Ed io rimango a guardarti non sapendo se voglio salvarti o condannarti al tuo destino.»
Alle volte si convinceva di poter parlare in nome del fato essendo colui che aveva detenuto l’oracolo, ma io non ci volevo credere e continuavo a pensare che le cose fossero mutevoli e inspiegabili, in una maniera così intricata e grande da poter essere più difficile del previsto prevedere cosa poteva o non poteva essere.
Doveva essere difficile anche per gli Dei sapere cosa condannare, salvare, disprezzare o distruggere.
Apollo era un tramite, un mezzo, un avvertimento dato a noi esseri umani in tempi molto antichi, troppo lontani da poter considerare, ed ora in questo mondo il destino era troppo oscuro e complicato per essere gestito tramite semplici fili. Non importava quante volte lui, Artemide, Afrodite o Ares avessero tentato di distogliermi da questa idea dicendomi che tutto già era scritto, io credevo fermamente all’idea che il fato, il destino o il caso, era fatto di scelte che noi prendevamo: anche gli Dei potevano scegliere e come noi mortali, perdersi.
Troppe fila. Troppe vite. Troppe esistenze intrecciate. Troppe strade.
Aveva però ragione nel dire che io mi ero condannata con le mie mani: io avevo scelto di rimanere vicino ad Afrodite e sempre io, avevo scelto di farla entrare nella mia esistenza.
Io avevo scelto di innamorarmi di lei e di accettare di essere ricambiata.
Una dolce condanna, un supplizio terribile da dover portare in una vita così breve.
Ma Afrodite.. Oh Afrodite, lei mi avrebbe ricordato per sempre perché per lei la vita non aveva fine.
«Mi hai già salvato, non è vero?»
Mi sorrise e gli occhi ambrati si illuminarono. La bocca perfetta si increspò e così rimase mentre il tempo si fermava insieme alla musica, mentre una mano scendeva dai miei fianchi e l’altra continuava a tenermi per mano, stringendola piano.
Si, mi aveva salvato dai miei pensieri e mi aveva acquietato l’anima turbata con tocchi e attenzioni gentili.
Da Dio cocciuto, perfetto, lontano e intransigente era divenuto fanciullo, buono e gentile.
Apollo. Indescrivibile, duplice.

E non appena io provai a dire altro, lui scomparve.
Come era arrivato se ne era andato.
Il sole era sceso e la notte era calata prendendone il posto. Apollo, il dio dell’Astro era apparso alle mie spalle per poi andarsene guardandomi, lasciando dietro di se’ il ricordo di un sorriso gentile, attimi irreali e un animo più quieto.
Afrodite sorride.
Apollo mi parlò in silenzio nella mente e questo mi fece ridere piano, sommessamente, perché erano segreti che non dovevano essere svelati a chi non avrebbe mai potuto credere. Erano segreti miei, bisbigliati su echi di leggende passate che camminavano ancora tra noi come ombre antiche, intoccabili e intangibili. Reali come un sogno.
Risi ancora un poco e terminai andandomene da quel posto, da quel piccolo spettacolo di vita.
Si, Apollo mi aveva salvato dalla solitudine, dalla rabbia, dal dolore ma non dalla mancanza, dalla nostalgia, dal desiderio e dalla paura. Erano lì, le sentivo vivere in me nella stessa maniera in cui viveva l’affetto sincero, il bel ricordo e il sogno.
Ritornai sulla mia strada con passo lento e piedi doloranti, guardando punti precisi che mi fecero tornare in mente il ricordo di attimi passati e sorrisi davanti al mare che mi salutava, invitandomi a bagnarmi nelle sue acque. Ma questa volta non potevo fermarmi gli dissi, non potevo affatto. Dovevo tornare.

Apollo senza dire nulla aveva compiuto la sua scelta: mi aveva salvato.
Ed io, senza dire nulla presi la mia decisione e fu la stessa di anni prima: mi condannai all’attesa perché stranamente, per quella notte, stavo bene così. Mi condannai con un sorriso e il cuore aperto, mi condannai ad aspettare quello che poteva essere un attimo eterno.
Dille che aspetterò anche questa notte. E anche domani.
Pensai e credetti di essere udita. E così feci. Aspettai.




 

  
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