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Autore: Orso Scrive    10/05/2023    1 recensioni
Alberto Manfredi e Aurora Bresciani ricevono l’incarico di gestire la sicurezza di una mostra dedicata alla storia della frontiera americana. Fare la guardia a vecchi cimeli privi di valore non sembrerebbe essere un incarico molto gratificante, per i due carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale. Ma dovranno presto ricredersi, quando la mostra verrà sconvolta da uno strano furto, che sembra collegato a un’antica maledizione degli indiani d’America e alla scoperta, ai tempi della frontiera, di una miniera misteriosa…
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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8.

 

 

Roma, Italia, marzo 2022

 

 

Il tenente Manfredi deglutì l’ultimo boccone del panino alla mortadella che era stato il suo pasto serale e si sciacquò la bocca con l’ultimo sorso di Coca-Cola rimasto nella bottiglia. Si alzò dal tavolino e si avvicinò al bancone, infilando la mano in tasca alla ricerca del portafogli. L’uomo dietro la cassa gli fece cenno di no.

«Ai carabinieri è tutto offerto dalla casa», disse, con fare sornione.

Alberto ammiccò e mormorò un ringraziamento. Cercò di non apparire imbarazzato per quella situazione che si ripeteva ogni volta che indossava l’uniforme e che non gli era mai andata a genio.

Tanto per cambiare, si disse.

A passo lento, barcollando un poco – l’emicrania, invece che affievolirsi, sembrava essere persino cresciuta di intensità – si avvicinò alla porta a vetri e la aprì. Lo accolse l’aria tiepida della primavera romana, in netto contrasto con l’odore di tabacco, di caffè e di chiuso del bar tabaccheria in cui aveva cenato. Davanti agli occhi, dall’altro lato della strada, gli si offerse la vista di Fontana di Trevi, illuminata dalle luci a led.

Per alcuni istanti, si perse a contemplare l’opera in cui acqua e pietra si mischiavano a creare un connubio unico; e, come spesso gli accadeva in occasioni simili, si trovò a domandarsi fino a che punto l’ingegno umano fosse capace di spingersi nel dare vita e forma alla bellezza.

O alla bruttezza, meditò, ripensando alla bruttura della mostra da fiera di quartiere a cui doveva fare la guardia.

Rassegnato, cominciò a risalire la salita che conduceva in cima al colle del Quirinale.

A metà strada, appoggiata a una balaustra, la sigaretta tra le labbra e lo sguardo verde perso a contemplare il panorama dei tetti di Roma illuminati dalla luce lunare, c’era Aurora.

«Non dovresti essere alla scuderie a montare la guardia, sottotenente?» sbottò Alberto, con un sogghigno.

Lei gli lanciò un breve sguardo velenoso, prima di tornare a fissare Roma.

«Questa città è l’emblema stesso della cultura», mormorò. «Il patrimonio che è racchiuso tra questi colli, è qualcosa di unico. Nessun altro luogo al mondo vi è paragonabile. Qui si trovano testimonianze antichissime e moderne di una sapienza millenaria. Testimonianze che, in ogni momento, andrebbero vigilate e protette, per preservarle dall’incuria e dall’inciviltà a cui sono sottoposte di continuo.»

Si girò a guardare Manfredi. Il suo sguardo, nel buio, parve brillare come quello di un felino.

«E noi, invece, dovremmo preoccuparci di robaccia da stallieri?» commentò, con il tono aspro che riservava sempre a tutto ciò che non le andava a genio. Il che, a ben vedere, equivaleva a parecchie cose. «Suvvia, Manfredino, qui c’è da mettersi a ridere…»

Alberto si stropicciò le tempie doloranti.

«Da ridere o da piangere, noi dobbiamo fare quello che ci è stato ordinato», brontolò. «Il colonnello Iannaccone ci tiene molto. Prendila un po’ come una prova: se avrai dimostrato la corretta obbedienza, quel sotto davanti al tenente ti verrà finalmente tolto e io e te saremo parigrado.»

Il sorriso sinistro di Aurora fu qualcosa di molto pericoloso.

«Io ti sono già superiore, Manfredino bello», sottolineò. «Non pensare che mi faccia spaventare da qualche insulsa gerarchia.»

Alberto non replicò nulla. Sapeva riconoscere quando non ne valeva la pena.

A passo lento, fianco a fianco, si avviarono di nuovo verso la cima del colle. Aurora finì di fumare la sua sigaretta e gettò via il mozzicone. Manfredi lo fissò emettere qualche scintilla arancione, prima di scomparire chissà dove.

«Non credere che io sia tanto entusiasta di fare la guardia a quelle cianfrusaglie, comunque», disse, a un certo punto. «Per quello che mi riguarda, preferirei andare di pattuglia su qualche sito archeologico, per evitare che i tombaroli si mettano all’opera. Quei ladroni sono sempre in agguato. Scommetto che, anche in questo momento, per esempio nell’antica Etruria, qualcuno di loro si sta accingendo a violare qualche tomba sopravvissuta intatta fino ai giorni nostri.»

Aurora, malgrado tutto, sorrise.

«Io sono disposta ad appoggiarti, Manfredino mio, nel caso decidessi di mettere in atto un colpo di stato e…»

Si interruppe di colpo, quando un’ombra cominciò a correre loro incontro dalla direzione opposta. In breve, il maresciallo De Crescenzo fu davanti a loro, con il fiatone e piegato per lo sforzo della corsa.

Tanto Aurora quanto Alberto annusarono puzza di guai.

«Che succede, maresciallo?» domandò Manfredi, circospetto.

De Crescenzo arrancò nel cercare di dire qualcosa. Riprese fiato e riprovò a parlare. Questa volta ci riuscì.

«Tenente, venga di corsa», borbottò. «Temo che sia successo un guaio…»

 

* * *

 

Il professor Shelton si girava e rigirava tra le mani il cappellone bianco. Sembrava molto più in pensiero per l’ammaccatura che aveva rovinato il feltro, che per il livido bluastro che gli solcava la fronte.

Alberto, che aveva ascoltato per cinque minuti buoni le sue ciance in un inglese strettissimo in cui l’accento texano, se possibile, si era marcato ancora più del consueto, si arrese e cercò aiuto in De Crescenzo per capire che cosa fosse accaduto.

«Il professor Shelton stava passeggiando tra le teche, visionando le collezioni per accertarsi che tutto quanto fosse in ordine, quando è stato aggredito alle spalle. Con un randello, probabilmente. Il cappello ha attutito l’impatto, ma quando si è voltato per affrontare il suo aggressore, è stato colpito di nuovo, questa volta in fronte.»

Alberto si girò in fretta verso Aurora, in attesa di un suo intervento. La ragazza, però, parve disinteressarsi alla loro conversazione, tutta intenta a controllare la teca il cui vetro era stato infranto.

Per fortuna, quella con gli speroni del presidente Roosevelt non è stata toccata, rifletté con sollievo Manfredi, che l’aveva vista intatta e ancora occupata dal suo prezioso reperto quando era passato di corsa al seguito del maresciallo.

Ma la cosa non cambiava: speroni o meno, il professore americano era stato assalito, e qualcosa era stato comunque rubato. E lui, come responsabile della sicurezza, ci sarebbe andato di mezzo con tutte le scarpe. Già immaginava la sfuriata di Iannaccone.

E questo dannato mal di testa non mi dà tregua.

Preso un veloce e profondo respiro, tornò a girarsi verso il maresciallo.

«E com’è possibile che qualcuno sia entrato?!» abbaiò.

Era il momento di scaricare altrove un po’ di responsabilità. Era un ufficiale, e ogni tanto gli faceva bene ricordarsene.

«Non avevo dato ordine di vigilare le entrare?!» proseguì. Cercò di imprimere al proprio tono tutta l’autorità di cui sapesse essere capace.

Da come De Crescenzo rimase imperturbabile, non dovette risultare granché autoritario. Del resto, trenta e passa anni nell’Arma avevano reso il maresciallo immune alla strafottenza di certi ufficiali, specialmente dei carrieristi. Non che ritenesse Manfredi tale, comunque. E lo dimostrò rivolgendogli uno sguardo quasi paterno.

«Noi, infatti, mentre lei era a mangiare, non abbiamo fatto entrare nessuno», garantì il maresciallo. Parlò in maniera calma e tranquilla, eppure non mancò di marcare il fatto che Manfredi, tra tutti, fosse l’unico a non essere al suo posto.

Be’, io avrò pur diritto di mangiare, no?, pensò il tenente. E poi, vogliamo parlare di Aurora, che era a fumare invece di stare di guardia…?

Quest’ultima cosa si guardò bene dal dirla. Dall’occhiataccia assassina che lei gli lanciò, fu sicuro che Aurora gli avesse letto nel pensiero.

Come sempre.

«Nessuno è entrato», intervenne Shelton, finalmente rassegnato al fatto che il suo cappello fosse ammaccato. Adesso che era maggiormente calmo, riuscì a rendersi comprensibile parlando in italiano, pur senza abbandonare il suo accento nasale da americano. «Non è stato un ladro venuto da fuori, tenente. So benissimo chi è il colpevole di tutto questo. È stato il mio assistente ad aggredirmi.»

Per Alberto, fu come precipitare da una nube. Allo stesso tempo, comunque, si sentì invadere da un senso di appagamento.

Noi dovevamo stare attenti a che nessuno entrasse, Iannaccone non ha mai parlato di aggressioni dall’interno, si disse, sollevato. Forse, alla fine, sarebbe riuscito a cavarsela, evitando la sfuriata del colonnello. O, almeno, avrebbe avuto un’intensità meno aspra del previsto.

«Intende dire…» borbottò poi, «che è stato quell’indiano… come si chiama…»

L’archeologo e Aurora risposero contemporaneamente.

«Paul Ward», disse Shelton.

«Black Eagle», disse il sottotenente Bresciani.

Alberto fece un breve cenno d’assenso, palleggiando lo sguardo dall’uno all’altra, per poi riportarlo su Shelton.

«Sì, lui… è stato lui?» domandò. «Ma perché?»

Shelton si massaggiò la fronte.

«Io e Paul lavoriamo insieme da cinque anni», spiegò. «Mi fido di lui. Ha una grande conoscenza della storia americana, e in special modo delle culture dei nativi. Abbiamo organizzato insieme questa mostra itinerante sul Far West, e l’abbiamo portata in giro per il mondo. È sempre andato tutto molto bene. Ma, questa volta, Paul ha avuto parecchio da recriminare.»

L’archeologo si bloccò, per massaggiarsi ancora la fronte indolenzita.

Almeno non sono il solo ad avere mal di testa, stasera, si consolò Manfredi.

«…molto da recriminare…» mugugnò ancora Shelton.

Alberto e De Crescenzo si scambiarono uno sguardo incuriosito. Aurora, di nuovo, parve del tutto disinteressata ai loro discorsi.

«Ed è possibile sapere che cosa avesse da recriminare, il suo assistente?» domandò il maresciallo.

L’americano annuì.

«Certo», disse. «Non era d’accordo su una modifica fatta alla mostra.»

Accennò alla teca infranta e proseguì: «Ho voluto aggiungere un elemento che mi sembrava potesse stare bene nell’insieme della raccolta. Si tratta di un vaso che ho recuperato un paio di mesi fa dagli archivi del museo universitario, dove era rinchiuso a impolverarsi da interi decenni, forse persino da più di un secolo. Dall’etichetta, risultava essere stato venduto al museo da un tale di origine tedesca, o olandese, non so bene. Mi sembrava un vero peccato lasciare fuori dalla collezione un simile esempio di arte indiana antica. Di certo, avrebbe impreziosito questa raccolta di… come dire… junk? Capito cosa intendo?»

Alberto e De Crescenzo fecero un cenno di diniego, insicuri di che cosa significasse quella parola. Aurora, al contrario, sollevò lo sguardo e, per la prima volta, rivolse un sorriso di complicità all’archeologo.

Suo malgrado, Manfredi si sentì scuotere da un fremito.

Ma io non sono geloso, figurarsi…

Shelton, incoraggiato da quel sorriso, riprese il discorso.

«Lui sosteneva che fosse una scelta sbagliata, che esporre il vaso avrebbe attirato su tutti noi chissà quale sciagura orripilante… ma a me sembrava che il suo fosse solo un fanatismo senza senso. Ho cercato di richiamarlo alla realtà, rammentandogli che siamo uomini di scienza e che, per noi, un artefatto archeologico non è altro che la testimonianza di civiltà del passato. Gli ho detto, chiaro e tondo, che non possiamo lasciarci suggestionare da leggende e dicerie, perché altrimenti la metà dei musei dovrebbe restare vuota. E pensavo di averlo persuaso, alla fine.»

Alberto guardò di nuovo da Shelton ad Aurora, che non aveva ancora detto una sola parola al di fuori del nome dell’indiano, e da lei alla teca infranta.

«Oggi pomeriggio, il signor Ward sembrava molto interessato a un vaso, ce ne stava raccontando la storia leggendaria: a suo dire, conterrebbe lo spirito di una strega, o qualcosa di simile…»

«È il vaso che non voleva fosse esposto», confermò Shelton.

«Ed è quello che ha rubato», intervenne Aurora.

«Proprio così», disse ancora l’archeologo. «Il vaso indiano in cui, secondo la leggenda, sarebbe conservata l’essenza di Skudakumooch, la strega.»

I tre carabinieri lo ascoltarono con attenzione. De Crescenzo non seppe celare la propria incredulità. Aurora, questa volta, si mostrò parecchio interessata. Alberto, da parte sua, cercò il più possibile di restare con i piedi per terra.

«È un’antica leggenda, diffusa in varie forme in tutto il sud-ovest degli Stati Uniti e in parte del Messico settentrionale. Comunque, grossomodo, si dice che, qualora uno stregone si sia comportato in maniera empia, alla sua morte egli emani un fluido che si tramuta poi nello spirito di Skudakumooch, la strega-fantasma, mangiatrice di uomini. Nell’antichità, uno sciamano avrebbe affrontato la strega che stava massacrando il suo popolo, e dopo un’aspra lotta l’avrebbe intrappolata nel vaso rubato.»

Alberto non pensò al come né al perché. Non gli interessava sapere se, il vaso maledetto, celasse davvero lo spirito di una strega o meno. Ultimamente, tra fantasmi e demoni, ne aveva avuto abbastanza per tutta la vita. A lui, adesso, interessava la parte pratica dell’intera faccenda: recuperare il vaso e ricollocarlo al suo posto nella mostra.

Magari, con un pizzico di fortuna, prima che Iannaccone fosse informato del furto.

Fece un paio di rapidi calcoli. L’aggressione era avvenuta meno di mezz’ora prima. Se anche fosse fuggito in macchina, allontanandosi dal Quirinale, Ward – che doveva avere scarsa dimestichezza con l’intrico di strade della capitale – non poteva essere andato troppo lontano. Ma ogni minuto sarebbe stato prezioso.

Sapeva di non avere tempo per pensare.

Bisognava agire.

Subito.

«Dobbiamo inseguirlo, prima che si dilegui in mezzo a Roma», annunciò, con fare secco. «Non abbiamo un minuto da perdere.»

De Crescenzo si allarmò.

«Non possiamo lasciare sguarnita la mostra…» tentennò.

Prima che Manfredi avesse avuto modo di dire qualcos’altro, fu Aurora a intervenire.

«Lei resti qui con gli altri militi di guardia, maresciallo», ordinò, con fare perentorio. «Andremo io e il tenente. Basteremo noi a inseguire il ladro, se non è già troppo tardi. Lei provveda a diramare un comunicato a tutte le pattuglie, con la descrizione del signor Ward e l’ordine di fermarlo qualora lo vedessero.»

Shelton si levò in tutta l’imponenza dei suoi quasi due metri di puro americano e infilò il cappellone.

«Vengo con voi», mugghiò. «Sono responsabile dei reperti qui esposti e non intendo restarmene con le mani in mano mentre quel ladrone cerca di trafugarne uno per chissà quale scopo!»

Aurora parve sul punto di sputargli in faccia un “non se ne parla nemmeno”.

Stavolta, fu Alberto a prevenirla.

«Molto bene, professore», rispose.

Almeno, se non dovessimo recuperare il vaso, o se accidentalmente dovesse rompersi, Iannaccone non potrà addossarmi tutte le colpe.

Aveva imparato molto presto che, in Italia, tutto funziona a scaricabarile. Se voleva avere qualche opportunità di diventare vecchio e felice, doveva ricordarsene in ogni occasione.

«Ma faccia attenzione a non esporsi a inutili pericoli», sottolineò.

L’archeologo americano fece un sogghigno.

«Nel Texas», dichiarò, «nessun pericolo è inutile. Lì il pericolo è di casa. Siamo abituati a batterci fin da quando siamo piccoli, tenente. Noi, pistole, fucili e simili gingilli, ce li portiamo dappertutto, persino a scuola. Lei, piuttosto, ponga attenzione: il signor Paul Ward può essere un semplice assistente universitario abituato a maneggiare vecchi reperti… ma Black Eagle è un apache, conosce tutte le tecniche per scomparire e rendersi insidioso.»

Sistemò meglio il cappello, con un gesto plateale.

«Ma non si allarmi: provvederò io a stanare quel muso rosso!» concluse.

Ed eccoci in un film con i cow-boy e gli indiani, pensò Alberto mentre, tutti e tre, si avviavano sotto lo sguardo esterrefatto del maresciallo De Crescenzo.

 
   
 
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