Storie originali > Introspettivo
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Autore: Rose Heiner    12/05/2023    0 recensioni
Mi è stato detto che catturare l’attenzione del lettore fin dalle prima righe è un’impresa più che complicata. E’ un lavoro di seduzione, questo. Si tratta di me e dalla voracità con cui voi sarete capaci di strappare i miei segreti, disegnarmi e immaginarmi così come sono. Proprio per gli insegnamenti che mi sono stati impartiti sull’arte intricata dello scrivere io rinuncio a priori: eppure, se siete ancora qui, ci lega un destino comune di cui dovete sapere. Io parlo d'amore. Parlo della folle smania che brucia nelle vene e raggiunge il cuore. Parlo della nostalgia per una terra che rimbomba di tamburi, della separazione moderna di un Ulisse teatrante e di una Penelope filosofa. Prendetemi per mano e salpiamo: Itaca ci attende. Ci ha sempre atteso.
Ερχόμαστε, Ιθάκη.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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I capitolo
 
I miei pensieri vanno alla maniera del mare. Si rincorrono senza sosta e grattano impazientemente i ciottoli di ogni fondale. Quando qualche raggio timido e distratto li raggiunge, brillano di blu in una danza scoordinata di onde, perfino d’argento talvolta.
Reclino lentamente il capo e un brivido mi scivola come una goccia lungo la schiena. La canzone del fondale è ovatta per le mie orecchie e mi pare di sentire il rumore di aliscafi lontani, di paguri sparuti che filano fuori dai loro gusci, di montagne che secolo dopo secolo si sgretolano, cedendo alla volontà paziente della marea. Ho gli occhi chiusi, ma ad Itaca è bastato poco per farsi riconoscere. E’ sempre stata così viva, così vera quest’isola? O sono stata io morta, indifferente alle sue indicazioni?
Allargo dolcemente le braccia e allungo le gambe, lascio che quest’acqua salvifica mi sostenga e curi ciò che può, la prego di prendersi tutti i dolori che ho taciuto. Quando grida distanti risuonano morbide tra le onde, mi tiro su, le ginocchia puntellate dai sassolini colorati del fondo. Due pescatori anziani e grigi stanno trascinando una barca a remi verso riva. Hanno voci roche e basse, voci che raccontano storie che non posso ancora fermarmi ad ascoltare. Il guizzo di un ricordo da tempo dimenticato accende una luce fioca nella mia mente, poi svanisce in breve: forse conosco uno dei due uomini, quello con la barba rada e le mani callose, forse mi ha visto correre scalza da bambina per le strade del porto.
Arranco in quei pochi metri di distanza dal bagnasciuga e mi abbandono sulla sabbia, con le ginocchia tirate al petto. Eukaristò, grazie, sussurro e non so a chi, se al mare che mi ha cullata abbastanza a lungo da cancellare la paura o se a questa terra benedetta che, appena avvertito il mio tocco, mi ha restituito il greco come un dono di madre natura, così, come con un “Tieni, adesso custodiscila bene, la lingua più dolce dell’universo, la lingua di casa.”.
Con lo sguardo fisso all’orizzonte, avverto vicini i due pescatori: parlano di quel kokoras spennato che stamattina non ha cantato, non ha svegliato il padrone in tempo.
Uno dei due ride.  -Forse è stanco anche lui.- dice.
L’altro fa un verso scocciato. -Tempèles kokoràs.- “Gallo pigro”. Non fa altro che mangiare.
Sorrido. Immagino il pennuto nell’aia stretta di una casina ancora più stretta, stanco di dare un ritmo al mondo. E’ giusto che si fermi anche lui ogni tanto.
-Scusa, karitsaki.- Alzo gli occhi. L’anziano, fantasma di una mia memoria, mi guarda: ha lo sguardo blu e umile come il mare che cavalca da quando ne ha ricordo. Bambina, mi ha chiamato. Scuoto la testa, sorpresa. Non ce n’è bisogno. Mi chiede perdono per quell’intrusione nell’intimo abbraccio, nel battesimo nuovo che mi ha accolto a casa; poi mi dà le spalle e torna a spingere quel gozzetto scheggioso e tenero nell’acqua. La prua si immerge e poi risale, taglia le acque a metà.
Perché dovrebbero chiedermi scusa? Saranno anni che all’alba i due pescatori trascinano quel loro piccolo tesoro fino alla spiaggia e si inoltrano a largo per riempire almeno a metà una rete rattoppata. Sono io l’intrusa nel loro ritratto idilliaco. E chissà se anche per me sarà così facile: chiedere scusa, occhi negli occhi, ed ottenerla. Non so più se lo merito io, il perdono.  
Ripenso alla notte che ho trascorso. Sento di nuovo il clangore metallico dello sportello di un taxi sgangherato che si chiude. Me ne sono andata col buio per non dover salutare Lisbona, per evitare i suoi colori accesi e le finestre pittoresche aperte sul cuore della città. L’autista, un uomo accigliato di provincia, mi ha squadrato, non ha risposto al mio saluto. Sono rimasta gran parte del viaggio a fissare quella nuca anonima che mi traghetta senza voglia incontro al mio destino. Sarà questo il mio giudizio? Sarà quest’uomo, che non mi conosce e che disprezza la mia camicetta da borghese benestante e le mie valigie di buona fattura, il mio intermediario con Dio? Intanto però è cambiato qualcosa: mi è sembrato di aver perso un giro pesante di perle, perché ho avvertito la cassa toracica più leggera dopo anni. Mi sono guardata in giro e le mie dita sono cadute sulla maniglia interna dell’auto: il tonfo della porta che sigilla la mia partenza - o meglio il mio ritorno -, non credo di aver mai fatto caso a quel suono prima di adesso. Ho accarezzato discretamente la plastica rigida, seguendo la traiettoria di quel ponte in miniatura: perché nella vita quotidiana ci capita di assuefarci così tanto alla monotonia, alla noia, che permettiamo al mondo di schiacciarci, di costruire autostrade e palazzi, di cui non ci interessa, sul nostro petto e, quando proviamo a scrollarceli di dosso, in un primo atto di coraggio, crediamo di essere diventati pazzi?
Qualche lacrima si è affacciata veloce dalle lenti, quando, passando davanti all’università dormiente, che per tante giornate ho visto immersa nella luce, lo striscione comunista appeso all’ingresso dagli studenti in protesta ha cominciato a prendere le sembianze di un sorriso di addio. E poi ancora, lo sgambettio giallo del tram, un saluto accorato. Le luci dei locali notturni del baixa, dita contente che indicavano la strada per l’aeroporto.
Itaca, al contrario, non è stata altrettanto delicata.  Al molo dei traghetti, dopo un volo lungo, di oblò bui come occhi spenti e passeggeri dormienti, mi ha accolto il palmo di una mano tremante. Una donnina curva, con i capelli argentati raccolti in un panno legato, ha abbassato la testa per ricevere qualche spicciolo, recitando una preghiera pagana. Doveva essere bella una volta, l’ho pensato notando le caviglie sottili e le labbra piene; ora chiede con il volto assonnato l’elemosina ai primi turisti che si palesano al porto e che la scacciano quando sta troppo fra i piedi. Le ho regalato le poche monete che avevo dal resto del biglietto per il vaporetto e la colazione in un sacchetto bianco comprata all’atterraggio a Cefalonia. La vecchina ha aperto la busta di carta, lanciandomi sguardi furtivi, e ha scoperto i denti in un ghigno sorpreso. Ha biascicato qualcosa, un “buono per l’umore”, odorando il profumo ancora fresco del cornetto al miele che avevo scelto tra tanti e mi ha benedetta. Ho risposto al suo sorriso e le ho fatto segno di mangiare in fretta, per sentire il calore della pasta soffice lungo la gola. Mi faceva tenerezza quella sua statura piccola, quella luce allegra sul viso, nonostante gli anni e le condizioni, quel modo che aveva di trovare il coraggio: siamo tutti destinati a tornare bambini, non è vero? A ridere di quello che prima ritenevamo essenziale e a burlarci di quell’esigenza giovanile di seguire ad ogni costo il senso delle cose. Quando il fischio invadente del traghetto ha annunciato la partenza prossima, la donnina ha agitato la sua mano ossuta verso di me.
-Arrivederci.- l’ho salutata, preparandomi a trascinare i miei bagagli. Avrei dovuto chiedere aiuto a qualche altro viaggiatore, erano troppo pesanti.
-I Itháki eínai nisí tis anamonís.- La sua voce da cicala mi ha raggiunta ancora. Mi sono girata confusa per capire cosa intendesse: indicava le mie scarpe e scuoteva la testa. Per Itaca, quei tacchi sottili e neri, seppur bassi, non andavano bene.
Mi faccio forza per alzarmi dalla riva, dopo aver regalato un ultimo sguardo al puntino lontano del gozzetto sull’orizzonte. Mi scrollo la sabbia di dosso e tiro fuori dalla borsa di tela leggera che ho abbandonato qui accanto un pareo dalla fantasia dozzinale. Ricordo di averlo acquistato anni fa in un anonimo bazar per coprire la libreria dall’umidità invernale di Lisbona; ora, invece, me lo stringo attorno alla vita e non penso più a quei libri che prendono polvere e che si raffreddano sulle mensole. Qualcun altro li salverà. Mentre risalgo verso il sentiero, mille goccioline d’acqua fanno a gara sul mio corpo e mi inzuppano i capelli. Non so quale vincerà, ma so per la prima volta dove andare. Elia e Theo ci cantavano quella filastrocca ossessivamente per farci ricordare la strada: via dalla spiaggia che si mangia! Attento a dove vai sul sentiero dei melograni, prima a sinistra e poi due volte a destra. Conta fino a sei e indovina dove sei!
E io faccio proprio così. Lascio rotolare via qualche pomo rosso un po’ troppo maturo che ingombra il passaggio, giro tre volte e faccio sei passi. Eccolo lì.
Al limitare della strada, prima di tutte le altre abitazioni, sbuca il portoncino blu con la maniglia d’ottone e il numeretto diciassette dipinto accanto. E’ sempre uguale, non è stato scalfito di un graffio dal tempo. Non so cosa mi aspettassi, forse di trovarlo sbarrato. O peggio, dipinto di un altro colore.
Tiro un respiro profondo e mi avvicino. All’improvviso non sono più sicura di quello che sto facendo. Alzo la testa ed osservo il primo balconcino azzurro in alto. E’ piccolo, tanto che non c’è neanche lo spazio per un tavolino, solo una vecchia sedia di legno e uno sgabello dall’aria instabile se ne stanno spalla contro spalla. Da quanto manco? Da quanto mi mancavano? Non sembra passato che un giorno.
-Iris…- chiamo a mezza voce. Non può avermi sentito, ho avuto paura ad alzare la voce. Forse sta ancora dormendo. Forse non vuole saperne. Forse sono una sfacciata.
La vedo per un attimo solo, il tempo brevissimo di riconoscerla, di vedere una canotta blu e una matassa di ciocche scure. Si è affacciata alla ringhiera per vedermi, con le mani incollate alla balaustra. Quanto siamo cresciute, Iris, adelfì?
In un turbinio di riccioli intricati è scomparsa di nuovo. Apro la bocca per dire qualcosa, ma non ho più fiato. Adelfì, sorella! Fisso gli occhi in basso, sui miei piedi scalzi che si arrampicano l’uno sull’altro nell’attesa. Ripenso alla mendicante del molo, al suo modo di stringere le labbra attorno a questa parola sinuosa, anamonís. Attesa. Itaca è un’isola di attesa. I tacchi non vanno bene, ad Itaca si sta scalzi. Quest’isola è per chi aspetta paziente e per chi gli corre incontro senza fiato, per chi resta e per chi torna. Per le finestre già sveglie, i pescatori all’alba e il gallo che non canta. Per i piedi insabbiati. Prima che il portoncino si schiuda, sento tonfi attutiti provenire dall’interno. Qualcuno sta facendo le scale in volata. Iris, sono sicura, sta ingoiando i gradini goffamente ed è scalza anche lei. Ad Itaca non c’è tempo per le scarpe buone.
   
 
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