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Autore: Rameo_Laufeyson8    20/05/2023    0 recensioni
Sin da bambina Eden cerca di sopravvivere in una realtà crudele e apocalittica. Era appena tredicenne allo scoppio dell'epidemia di cordyceps, e dopo dieci anni dai primi contagi vaga ancora per i resti delle insidiose città fantasma alla ricerca di viveri, spinta dall'istinto disperato di sopravvivere nonostante gli orrori nascosti in ogni angolo. Seppur Eden sia una viandante disperata non è un eremita. Da cinque lunghi anni Pietro è la sua ombra, pronto a sacrificare la sua stessa vita per proteggerla. I due sono in simbiosi, indissolubilmente innamorati per promesse che vanno ben oltre l'immaginario umano. Ma è quando si separano tragicamente che i loro destini vengono alterati con tremenda crudeltà. E a salvare la vita di Eden sarà Joel Miller.
Ma questa non è una storia d'amore, oh no; questo racconto è scritto col sangue della vendetta.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Ellie, Joel, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ci siamo incontrati che era appena autunno. L'umidità ricopriva l'asfalto vecchio delle città in rovina e i sopravvissuti vagavano in lungo e in largo alla ricerca di provviste per l'inverno. Io avevo diciassette anni, e ne avevo trascorsi già quattro in completa solitudine. Se ripercorro il mio tortuoso passato non riesco ancora a spiegarmi come io sia sopravvissuta. Era più facile che io morissi di fame che per colpa dell'infezione. Eppure, rubando, contrattando e unendomi a vari gruppi di viaggiatori decisi di tenermi cara la mia vita per cercare di onorare almeno quella dei miei cari.

Avevo diciassette anni, come già detto, e nessuno al mondo su cui fare affidamento. Da poco ero fuggita da una cerchia molto ristretta di famiglie, da cui avevo trovato cibo e protezione. Mi avevano presa a cuore data la mia storia, la maggior parte di loro mi metteva di fianco ad uno dei loro figli affermando: -Guardatela, povera bambina, potrebbe essere la nostra.- Pensavo che sarei rimasta per sempre con loro, le donne erano gentili e materne, gli uomini proteggevano il gruppo a costo della vita.

Poi una notte di fine estate, accampati ai margini di un fiume che aveva reso abbondante la nostra pesca, mi trovai ad assistere ad un loro abituale rituale. Quando una delle loro figlie raggiungeva la maggiore età doveva concedersi ad ognuno dei membri maschili del branco.

La prossima sarei stata io, nel giro di qualche mese. Persino alle madri, così le chiamavamo noi ragazzi, sembrava andar bene questa pratica immorale e, definirei, disumana.

Approfittai del buio pesto, la notte successiva, mentre il padre di guardia adempiva ai suoi doveri da capofamiglia con la povera giovane vittima. Li derubai di quante più provviste possibile e sgattaiolai silenziosamente via.

In quel bosco spaventoso, dove gli alberi altissimi coprivano persino la luce bianca della luna, ebbi più paura di essere inseguita da quegli uomini che dagli infetti.

Quindi ripresi il mio insidioso viaggio senza meta nell'insopportabile solitudine di sempre. Fui molto attenta a nascondere la mia identità, per paura che qualcuno del gruppo mi stesse ancora cercando. Ero un fantasma, vivevo razionando il cibo in scatola che appesantiva il mio zaino e dormivo in edifici abbandonati ai piani alti pregando che alcun infetto o assassino mi scovasse.

Fu uno di quei periodo in cui pensai ossessivamente alla morte della mia famiglia, ero tornata a rivivere un altro momento di carestia e crisi, esposta a qualsiasi pericolo potenzialmente letale e deperita dall'ansia per il mio destino incerto.

Mi aggiravo per le strade solo quando vedevo alcune persone sventurate quasi quanto me alla ricerca di una speranza. L'unica mia arma era una spranga di metallo recuperata in un negozio razziato, e non sapevo nemmeno usarla data la mia debolezza per la scarsità di cibo.

Provavo ad andare a caccia ma non avevo risorse nemmeno per piazzare delle trappole o per pescare, ed il pensiero di aggirarmi tra i boschi da sola mi terrorizzava ancora troppo.

Poi arrivò Pietro. Un diciannovenne mingherlino ma elettrizzato da mille progetti. Era talmente iperattivo all'epoca, come se la sua paura si fosse trasformata in qualcosa di utile, in fin dei conti; cacciava con un arco artigianale, ma allo stesso tempo seminava per la sua strada qualche esca per i conigli. Raccoglieva frutta commestibile spezzando i rami sottili degli alberi per farci legna da ardere. Insomma, non stava un attimo fermo e col tempo questa cosa aveva iniziando anche a snervarmi.

La prima volta che ci incontrammo io tentai di ucciderlo.

Ero nascosta in un vecchio ufficio all'ottavo piano di un palazzo in centro. Era molto rischioso come nascondiglio, ma la zona non era stata invasa dagli infetti in quell'ultimo periodo, e le persone per paura di trovarci i mostri si tenevano ben alla larga da luoghi così lontani dalle periferie.

Trascorrevo giornate relativamente tranquille nutrendomi di arance fresche che crescevano in un albero ad un isolato di distanza da me, e raccoglievo l'acqua piovana con scodelle e bottiglie.

Me la cavavo bene tutto sommato, e lo credevo finché il rumore dei passi di Pietro fece salire alle stelle il mio istinto di sopravvivenza.

Nascosta dietro alla porta chiusa agguantavo con fermezza la mia arma di ferro, sottile ma lunga. La impugnavo con entrambe le mani per garantire maggiore potenza.

L'idiota, sicuro di se per non aver visto anima viva fino a quel momento, aprì la porta come se nulla fosse ricevendo un forte colpo allo stomaco da una ragazzina terrorizzata.

Imprecò parole incomprensibili. Ridevamo sempre ripensando a quella storia, fino alle lacrime.

Si accasciò in terra tenendosi la pancia con una mano implorandomi pietà. Pensai che fosse una femminuccia, ma nonostante le sue suppliche non abbassai la guardia. Tutti quegli anni mi avevano insegnato a non fidarmi e a non avere pietà per nessuno.

Lui sollevò il capo e quella fu la primissima volta che ci guardammo. Pietro diceva sempre che per lui fu amore a prima vista, io, che sono meno smielata, gli ripetevo che pensavo fosse un ragazzo svitato.

 E lo pensai per molto altro tempo ancora finché, dopo pochi mesi dalla nostra saggia alleanza, Pietro mi baciò suggellando il nostro indissolubile legame con un bacio domandato a bassa voce sotto la pioggia.

Ci sono giorni, un po' come questo, in cui il mio dolore è così elaborato... in cui il sapore salato delle mie lacrime non sa di me ma di tutti i morti che mi trascino, sfinita, sulle spalle. Pietro è diventato uno di quei lutti inaspettatamente, spezzando ogni singola vertebra della mia schiena.

Guardo la notte attraverso la finestra, frustrata perché non riesco a muovermi da questo maledetto letto. Scorgo alcune stelle lucenti, vorrei trovare la pace ma nemmeno i miei affezionatissimi astri riescono a calmare la mia crisi di pianto. Sono sola al mondo.

Non sarò di certo la prima, e nemmeno l'ultima, ma in questo momento non esiste anima viva e pensante che si preoccupi per me, che conosca le mie paure e sappia interpretare i miei sorrisi.

Pietro, bisbiglio, mio tesoro ti prego non sparire.

Temo che col tempo i miei pensieri trascureranno il suo ricordo trasformandolo in quell'ammasso putrescente di dolore che è diventata la mia famiglia, dato che l'accettazione per la loro orripilante morte non è mai giunta a me. Sono tormentata dai loro spiriti.

Trascorro la notte insonne, sudando per la febbre e soffocando per il pianto. Se Joel ed Ellie non sono riusciti a trovare nemmeno i resti di Pietro significa che gli infetti l'hanno spolpato fino alle ossa, e poi...

-Eden? Respira.- Joel accorre al mio letto. Credo sia l'alba, mi domando cosa ci faccia qui a quest'ora. Assieme a lui c'è anche Tommy, che accorre svelto a chiamare il medico.

Non riesco a respirare, sono sdraiata e mi graffio la gola ansimando e gracchiando. La trachea mi si è chiusa, non presentavo una crisi talmente violenta da anni.

Joel allontana le mie mani dalla gola, con le unghie la sto graffiando quasi a sangue. Mi tiene la testa ferma e prova disperatamente a creare un debole contatto visivo.

-Da brava bambina, respira.- mi ripete. Quest'uomo è talmente gentile, persino Pietro fuggiva le prime volte che manifestavo certi sintomi, svegliandomi si soprassalto soffocando.

Spalanco gli occhi, il mio viso è teso e arrossato. Stringo Joel per i gomiti e lo imploro di aiutarmi con lo sguardo.

-Coraggio, respira insieme a me.- mi dice, mostrandomi come inspirare ed espirare lentamente. Mi concentro sui bordi della sua bocca, guardo la folta barba e colta da un deliro febbrile tendo la mano verso il suo viso toccando i suoi baffi con le dita.

Chi mi ricorda? L'amorevole preoccupazione di Pietro o la matura rassicurazione di mio padre?

Mentre penso questo Joel poggia una mano sul mio petto, e sorride assicurandosi che io abbia ripreso a respirare normalmente.

-Così, bene.- mormora con sollievo.

Tommy è ritornato in stanza con l'uomo che si occupa della mia salute; quest'ultimo controlla i miei parametri vitali, misura la temperatura e la pressione, diagnosticando quello che da tempo io sapevo già;

-Ha avuto una crisi da stress post traumatico.-

-Tipico, ci siamo passati tutti.- aggiunge Tommy. I tratti sono molto somiglianti a quelli di Joel, ma Tommy è più giovane, il suo volto è ancora abbastanza pulito e vanta una folta chioma di capelli neri.

-Non andava lasciata da sola.- dice Joel, e persino io temo il suo tono.

-Potremmo fare a turni per assisterla, soprattutto la notte.- propone Tommy. Io ascolto ogni parola dato che non sembrano avere problemi nel discutere davanti a me.

-Joel sai che oggi dovrò sospenderle la morfina.- annuncia il medico. Un senso di panico mi assale pungendomi ogni parte del copro.

Joel si oppone in maniera evidente con dei gesti. Tommy insiste; -Hai visto le condizioni della sua gamba? Adesso persino questo -si riferisce alla mia violenta crisi- diamole qualche giorno di tregua.-

Il dottore sospira, capisco che non è entusiasta della sua scelta; -Lo so esattamente, ma vi prego di capirmi. Le nostre scorte di farmaci sono molto limitate, le servirebbero dei cicli interi di morfina ma purtroppo non posso darla tutta a lei. Come farò con gli altri pazienti?-

Nessuno obbietta. Persino io non posso dargli torto.

-E' assurdo.- Joel scuote il capo allontanandosi dai due uomini. Si avvicina, mi sposto i capelli sporchi sulla schiena e deglutisco. Devo pur accettare la cosa, queste persone mi hanno salvato la vita non posso essere così pretenziosa da voler tutta la loro stramaledetta morfina.

-Hai sentito, non è vero? Sei una ragazza sveglia.- 

-Già, stringerò i denti.- rispondo a Joel, anche lui sa che non sarà una passeggiata. Se fossi stata Ellie sono certa che avrebbe picchiato il medico per servirsi della morfina fino all'ultima goccia. Ma non sono sua figlia, qui non valgo più di una randagia salvata dalla strada.

-Vuoi qualcosa? Un po' d'acqua, da mangiare...- elenca alcune cose mentre una donna sfila dal mio braccio la cannula che infondeva la morfina nel mio organismo. Non voglio crollare, non di nuovo.

Lo fermo, agitata, e sbotto: -Compagnia. Vorrei un po' di compagnia. Mi va bene chiunque voglia stare con me, ma non lasciatemi da sola, almeno finché non controllo il dolore.- 

Un debole sorriso gonfia il viso di Joel. -Ma certo- dice- resto io qui con te.-

   
 
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