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Autore: Scarlett Queen    24/05/2023    2 recensioni
“È l’867 dopo l’Impero del Lupo, i Secoli Bui.
Da nord, cento navi di Skjegga stanno attraversando il Mare di Spade, diretti verso le coste settentrionali di Avillyon. Il re di quelle terre è morto, i baroni si muovono gli uni contro gli altri e solo un pugno di cavalieri si oppone alla grande armata di invasori.
Di notte scoppia la tempesta, le polene ringhianti delle navi raggiungono la costa e tutto ciò che li separa dalla Terra dei Re è un muro di legno e le spade dei valorosi. Cinquemila uomini del nord contro poche centinaia… ora tutto è nelle mani del Destino”
Genere: Azione, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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“È l’867 dopo l’Impero del Lupo, i Secoli Bui.
Da nord, cento navi di Skjegga stanno attraversando il Mare di Spade, diretti verso le coste settentrionali di Avillyon. Il re di quelle terre è morto, i baroni si muovono gli uni contro gli altri e solo un pugno di cavalieri si oppone alla grande armata di invasori.
Di notte scoppia la tempesta, le polene ringhianti delle navi raggiungono la costa e tutto ciò che li separa dalla Terra dei Re è un muro di legno e le spade dei valorosi. Cinquemila uomini del nord contro poche centinaia… ora tutto è nelle mani del Destino”

 
Sir Galainn giunse in vista del Vallo di Caer-Ludd che le nuvole del nord già incombevano sulle lande verdeggianti della regione; dabbasso, incassata in una scogliera pietrosa che si sollevava per quaranta braccia dal livello del mare, dove i neri scogli luccicavano per la gelida spuma marina e cinta da alberi sferzati dal vento e dalla salsedine stava una spiaggia pietrosa. La spiaggia era scura e si inerpicava verso l’alto per una decina di braccia e lì, fra le due pareti di pietra, conficcati per otto piedi nel terreno stava una robusta palizzata alta due braccia.
I pali erano stati lavorati a lungo, piantati nel terreno con cura, le stremità trasformate in rostri acuminati; per un mese gli uomini avevano lavorato a quella barriera scavando un fossato e piantandoci altri pali lavorati a colpi d’ascia. Sopra le loro teste, i capelli sudati e i muscoli doloranti, le mani sanguinanti per le vesciche non garriva alcun grande stendardo, nessuna bandiera dei nobili, nessun ordine cavalleresco.
Gli uomini che si erano riuniti in quel posto provenivano da ogni baronato dell’isola, disertori i quali avevano scelto una causa comune rispetto a quella del singolo, un sogno che Avillyon cullava da anni: un’unica terra, un unico re, un unico popolo. Re Arther sembrava essere l’uomo scelto dal Cielo per quel compito, ma la peste l’aveva colpito e portato via ben prima che potesse consolidare il proprio dominio e i conflitti civili erano proliferati come una seconda piaga purulenta.
Così, dal nord erano sbarcati i primi uomini di Skjegga, si erano consumate le schermaglie, conclusesi nel sangue ma sempre più erano i nemici, sempre meno i baroni disposti a rischiare e così, alla fine, il Re di quelle terre, Alfgarr il Rosso aveva riunito molti  degli Jarl dell’aspro arcipelago, guidandoli a sud, mettendo insieme una formidabile armata. Galainn smontò da cavallo quando superò il fossato che delimitava il versante meridionale delle fortificazioni, affidò le briglie della bestia ad un garzone e bestemmiando fra i denti raggiunse la tenda degli altri suoi compagni d’arme.
«Nessuno ha risposto all’appello – disse anticipando le loro domande, battendo il pugno guantato in pelle sul tavolo che stava al centro del tetro ambiente – tutti i lord si sono barricati dietro le loro fortezze di pietra. Ognuno di loro potrebbe riunire decine, centinaia di lance, potremmo affrontare il nemico in campo aperto ma no! Stanno nelle proprie sale a fornicare e banchettare!» diede un calcio ad una seggiola facendola sollevare da terra, imprecando.
«Sapevamo che sarebbe successo, Galainn, era un appello disperato, così come questa battaglia – uno dei cavalieri presenti, dai capelli leonini e un occhio mancante sputò per terra, gli altri annuirono – quanti siamo? Ottocento? Novecento uomini? Contro quanti? Cinquemila! E non è nemmeno tutta la loro forza! Tutti i baroni insieme arriverebbero forse a sei, settemila uomini validi… questa terra è già condannata». Galainn lo guardò con le mani poggiate sul ripiano in legno, gli occhi ai lati del nasello dell’elmo in ferro calato sul capo, con un mantello da viaggio gettato sulle spalle e una cotta di maglia lunga sino alle ginocchia. Al fianco portava la spada corta, adatta al muro di scudi e scosse il capo.
«Peregast, se vuoi andartene fallo – disse in tono esausto, gettandosi a sedere mentre le prime, pesanti gocce di pioggia picchiavano contro la tela cerata del padiglione, sorretto da pali in legno recuperati dagli scafi delle navi che il Mare di Spade portava presso quel tratto di costa – nessuno qui è legato da un giuramento ad un nobile non più. Tanto morire qui o con l’ascia del boia sul collo non farà molta differenza» si versò della birra dalla caraffa al boccale, buttandola giù in soli due lunghi sorsi e sorrise, la schiuma bianca attaccata alle labbra «Tuttavia, quale morte è più congeniale a noi cavalieri?»
«Ecco che ricomincia» Jeras, cavaliere dai capelli bianchi, dalle profonde rughe d’espressione attorno agli occhi, con una cicatrice che gli attraversava diagonalmente il volto sollevò gli occhi al cielo, suscitando l’ilarità generale degli altri, anche Galainn fece una smorfia, passandosi la mano sul volto. «Tutti i tuoi discorsi, amico mio, ti hanno fatto radunare novecento spade, novecento sette contando le nostre – asserì snudando la spada dal fodero, gettandola con un tintinnio metallico sul tavolo – e ora siamo qui, con una massa di vaccari, porcai, taglialegna e cacciatori... non è un esercito, è carne da macello».
«Io vi ho chiesto di trovarmi chiunque sia disposto a combattere in queste condizioni e un mese fa tutti voi vi siete riuniti qui, ognuno con un centinaio di anime, io ne ho trovate altre trecento… se tutto è in mano al Cielo, al destino, allora così doveva essere. Il terreno, persino il tempo è a nostro vantaggio. Noi possiamo vincere questa battaglia, per AVILLYON!» batté nuovamente il pugno sul tavolo, facendo tintinnare nuovamente la spada di Jeras. Peregast alzò l’unico occhio rimastogli al cielo e lo stesso fece qualcun altro. Poi, uno dei cavalieri presenti, Desmond tossicchiò, attirando la loro attenzione. Era, fra tutti loro, il più giovane, un nobilotto che era stato toccato dai pensieri di una Avillyon unita di Re Arther e ora si trovava lì, con la bella cotta e il camaglio, l’elmo in acciaio che gli copriva il volto e i bei calzoni e i guanti pregiati. Sarebbe morto subito, lo pensavano tutti.
«Io ho combattuto in due muri di scudi – disse impacciato, passandosi una mano fra i capelli biondi, togliendosi l’elmo con un grugnito – e checché voi pensiate di me, so usare questa spada… ora sono qui perché ho creduto, quando mio padre ha solo deriso l’idea di un unico popolo… e guardatevi attorno! Sette cavalieri, ognuno dei quali dai sette baronati di questa nostra isola e novecento uomini… non capite? Abbiamo realizzato il sogno del re, il popolo di Avillyon è unito da una causa comune! Se questo non ha valore, allora cos’altro potrebbe essere più importante?»
Galainn lo guardò con tanto d’occhi, Jeras si guardò la punta degli stivali, rifoderando la spada e facendola scivolare nel fodero e Peregast ridacchiò sommessamente. Erano sette, sette pazzi che guidavano un’armata di plebei in una muraglia di legno contro un nemico che era, semplicemente, troppe volte loro superiore. Tutti sapevano che non avrebbero visto l’alba del giorno dopo, ma nessuno se ne doleva: meglio morire che vivere e vedere come Alfgarr il Rosso avrebbe ridotto i pascoli di Avillyon, le sue roccaforti, i templi e gli alberi di Mèas. Meglio morire sul campo che sentire le strida delle donne violentante.
«Io dico più che altro che ormai ci siamo cacciati nella merda con tutte le scarpe no? – Balder, un beota skjeggano cresciuto ad Avillyon ruttò mentre parlava, pulendosi la bocca con la barba rossa, picchiandosi il ventre pingue da sopra l’abbondante cotta di maglia – insomma, quando stai scopando, non è che ti tiri indietro proprio prima di arare il campo giusto? Arrivi sino in fondo, stringi la cavalla per i fianchi e quel che accade, accade giusto? Perché questa storia deve essere tanto diversa? Fottiamo il nemico finché possiamo dico io!»
«Grazie Balder, sei sempre così chiaro ed esaustivo» borbottò Jeras, battendo una mano sulla spalla destra dell’altro cavaliere. Questi ruttò ancora, sorridendo tutto contento. Galainn guardò gli ultimi due cavalieri, i Gemelli come li chiamavano. Non parlavano mai, si erano mozzati la lingua da soli tempo addietro per una qualche ragione e comunicavano a grugniti, ma si battevano come bestie, fianco a fianco, coprendosi le spalle a vicenda. Galainn li guardò tutti.
Peregast, Jeras, Balder, Desmond, i Gemelli e poi lui. Sette spade, sette cavalieri a guidare una massa di villici armati con spade e archi che non avevano mai brandito in cima ad un muro di legno contro un’onda di marea del Nord che avrebbe fatto a pezzi ognuno di loro, e nella maniera peggiore. Si alzò in piedi, ponendosi l’elmo in capo e batté le mani fra loro, annuendo senza un autentico motivo. «Beviamo tutti, tutti noi condividiamo questo destino… e condivideremo la coppa. Davanti al Destino, alla battaglia della nostra vita noi giuriamo fratellanza l’uno all’altro. Io giuro» disse alla fine, con solennità bevendo la sua birra in un sol sorso.
«Che siate fottuti tutti voi… io Giuro!» Peregast bevette.
«Tanto si muore lo stesso, che sia dopo aver inculato per bene quei bastardi di Skjegga! Vi ho mai raccontato di quando mio padre mi ha gettato fuori bordo da piccolo? Ora, era un uomo tutto d’un pezzo… di merda. Io Giuro!» Balder bevette e ruttò, passando la coppa a Jeras.
«Tanto vale scegliere da noi come e quando morire e se siamo qui, è perché combattiamo una causa che noi abbiamo scelto, e non qualche nobile figlio di una scrofa, senza offesa ragazzo. Io Giuro» Jeras bevette.
«Sono cresciuto leggendo le gesta dei grandi uomini del nostro passato – sussurrò Desmond, con le mani tremanti per l’emozione – Io Giuro» e Desmond bevette, porgendo il fardello ai Gemelli. Questi grugnirono, annuendo truci, con i capelli neri, il volto butterato dal vaiolo e il sale attaccato alle labbra spaccata. I Gemelli giurarono.  
In quel momento un fulmine zigzagò in cielo, le nuvole tremarono e ruggirono e la pioggia iniziò a picchiare contro le vele tese fra i pilastri; Galainn sentì un brivido lungo la schiena, sotto la pesante cotta di maglia che scendeva sino alle ginocchia e uscì dalla tenda, seguito dagli altri sei cavalieri. La notte era buia e gelida, lungo il piano di calpestamento della muraglia le torce e i bracieri ardevano e mandavano bagliori dardeggianti ed entro il fossato interno le altre baracche si agitarono.
C’erano novecento uomini presso la “fortezza” di Caer-Ludd, pochi avevano una cotta di maglia, la maggior parte portavano giubbe di cuoio, spade vecchie affilate con la cote e qualche cuffia di pelle sul capo. Molti portavano le scuri che usavano per tagliare la legna, le lance per la caccia al cinghiale e gli archi; in quegli archi Galainn riponeva molte delle sue vane speranze.
Le genti delle terre occidentali di Avillyon, di quella massiccia penisola che era il Wælgën, adoperavano anche per la caccia degli archi lunghi, ricavati principalmente dal legno di tasso. Erano armi scure e letali e per tenderne la corda rinforzata spesso con i capelli delle loro donne serviva una forza mostruosa. Sui campi di battaglia di quella terra devastata dalle guerre intestine fra i baroni, Galainn aveva visto intere cariche di cavalieri in cotte di maglia, scudi e lance in resta essere falciate da un fitto lancio di frecce.
Ma c’era un insieme variegato di individui in quell’esercito: chi pescava, chi raccoglieva e chi portava al pascolo e tutti si erano affaccendati per un mese attorno alle opere di fortificazione, scavano e affilando, picchiando con i martelli sui cunei di legno, piantando schiodi e scavando sino all’altezza delle spalle. Ora, sotto la tempesta di quella notte si sentivano le ruote di cote che stridevano sul ferro, la sabbia sfregata contro le cotte di maglia e i canti dei fedeli agli dèi che invocavano preghiere.
Galainn attraversò il campo assieme agli altri cavalieri, inerpicandosi su per i gradini della palizzata e portandosi al parapetto acuminato, come una lunga fila di rostri e si affacciò; il terreno scendeva sino all’ampia insenatura, i tronchi legati alla sommità delle mura sarebbero rotolati per pene, e così le balle di fieno che avrebbero fatto uscire dal portone ricavato da pesanti assi di quercia. Si passò la mano guantata dalla cotta di maglia sulla bara nera e guardò gli altri suoi compagni d’arme.
«Galainn, il Cielo mi sta infilando il cazzo nell’occhio o quelle sono navi?» Jeras indicò davanti a loro e tutti e sette si voltarono, sporgendosi dalla murata e sentirono un vento gelido provenire dalle acque agitate del Mare di Spade.
 
[https://youtu.be/iYj_UUpZpww?list=PL4BA877E393C0AEA7]
Alfgarr il Rosso non si chiamava così senza un autentico motivo: portava una massiccia cotta di maglia inzaccherata dal sangue delle decine di uomini da lui uccisi, i suoi capelli venivano intinti nel sangue dei lupi di Skjegga e rossi erano i suoi occhi sotto l’effetto degli allucinogeni sacri. Stava sulla prua della sua nave, l’ammiraglia della titanica flotta, la spada al fianco sinistro e il braccio infilato nella striscia di cuoio dello scudo. Questo era tondo, dal lucido umbone in ferro così come il suo orlo e ornato con il suo stemma: un orso rosso in campo nero.
La sua nave lunga era attorniata da altre decine e le atre decine da altre decine ancora, le decine centinaia e le centinaia migliaia. La chiglia si sollevava e si abbassava, il fasciame del legno affrontava i flutti e i suoi uomini picchiavano la superfice del mare con i remi che si piegavano. Con la testa di drago montata a prua e quella di lupo a poppa, la nave sembrava un orrido essere bicefalo, dotto dalle molteplici zampe.
«Il dio Gorth batte sulla sua incudine, i fulmini ne sono le scintille! – gridò estatico, col vento furioso contro il volto, i capelli che ondeggiavano selvaggi tutto attorno al viso bestiale, dai tratti ferini quasi – e la dei morti, Helgudd ci urla attraverso il vento di riempirne le sale con le anime del nemico! Remate uomini del nord, perché Avillyon sarà nostra!»
La voce del re suscitò grida diffuse, le teste di drago, serpe, corvo o lupo montate sulle navi si alzarono e si abbassarono, i remi ruotavano furiosamente, lottando contro la corrente e si fecero dappresso all’insenatura, protetta ai fianchi dalla scogliera. Avrebbero superato la salita, montando un campo in cima al terrapieno e da lì sarebbero sciamati a sorpresa dal nord di Avillyon, invadendo nello stesso tempo molti dei baronati, massacrandoli mentre erano impegnati a farsi la guerra vicendevolmente.
Si leccò i denti limati e strinse con forza la polena, sfidando la furia degli elementi. Tuttavia, quando mancavano che poche iarde dalla costa e i fulmini e i lampi rischiaravano la notte come ghigni derisori dei demoni degli inferi e la spuma marina si sollevava in gelidi spruzzi contro la scogliera, infradiciando i guerrieri ai remi, scorse in cima alla scarpata un robusto muro di legno e stringendo gli occhi distinse lo scintillio del ferro. Proruppe in una possente risata, snudando la propria lama lunga, Sterminatrice di Re per via della sua sanguinosa campagna contro i tanti, piccoli re dell’arcipelago di Skjegga e gettò la testa all’indietro, ululando. «Levate un canto, cani bastardi! – gridò voltandosi verso i suoi – qualcuno ci accoglie in armi, si va alla battaglia! Levate un’ode al dio della guerra e cantate perché ci venga donata la Sala degli Eroi, lode agli dei per questa notte di sangue!»
E gli uomini cantarono, decine di migliaia di voci levarono canti gutturali mentre indossavano gli elmi di ferro dalla barbozza in cotta di maglia, mentre le navi scivolavano in avanti sempre più numerose e le chiglie correvano lungo la sabbia del bagnasciuga. Una nave, due navi, tre navi, quattro, cinque… dieci, venti, cento navi e altre ancora che arrivavano. Gli uomini picchiarono le armi contro gli scudi, sbalzarono a terra, affondando nell’acqua sino alle ginocchia e cantando risalirono la china, trascinando in secca le navi. Come portare tutte e diecimila a terra? Si sarebbero divisi, alcune sarebbero andate più a nord e altre più a sud, mentre il grosso attaccava distraendo le forze dei baroni.
Bestemmiando e gridando, Alfgarr mulinò la propria arma sopra la testa, il suo elmo era cinto da un cerchio d’oro e con la stazza spiccava fra tutti. «Avanti uomini del nord, noi che siamo l’orda degli dei in terra avremo il nostro premio, avanti!» e fu il primo a salire e tutti seguirono a ruota. In cima alle lance garrivano stendardi triangolari con vari animali ricamati, gli stessi che ornavano gli scudi e tutti battevano le lame delle spade sul legno di tiglio, la bava alla bocca.
«Arrivano…. Arrivano! Alle mura, alle armi! Siate pronti a respingerli!» la voce di Galainn esplose dall’alto delle murate, snudò la spada lunga e corse lungo il camminatoio, urlando a squarciagola. I corni da caccia suonarono e quanti potevano accorsero sulle mura, tremando, pisciando, ridendo e pregando. Sotto gli occhi dei difensori, il nord si riversò contro di loro e per quanti si dividessero, altrettanti si ammassavano e scendevano a terra, formando una massiccia orda di marea con la bava alla bocca. Galainn si sporse, l’acqua tintinnava sulle loro cotte di maglia, sugli elmi e sulle armi. Gli uomini di Skjegga apparivano come scintillanti formiche e cantavano nella loro lingua straniera, gutturale e selvaggia.
«Non hanno mezzi d’assedio! – urlò Galainn – dovranno portarsi sotto le mura e arrampicarsi con le unghie e con i denti e noi li uccideremo, li uccideremo tutti! Per il sogno del nostro re – urlò balzando su una guardiola, dando le spalle alla schiera – e per il sogno del nostro popolo» picchiò la spada contro lo scudo. «Oggi qui davanti a me c’è un unico popolo unito, noi siamo il baluardo delle nostre terre, dei nostri campi, delle nostre donne!» picchiò il pomo della spada sullo scudo.
«Noi siamo discendenti dei popoli che lottarono contro i Lupi per la libertà della nostra terra, per la fede nei nostri dei! Noi siamo gli eroi della nostra isola! Per Avillyon vi chiedo di massacrare quei bastardi! Per Avillyon io vi chiedo a tutti voi di uccidere quei figli di puttana! Per Avillyon, per Avillyon, per AVILLYON!» il suo urlo accompagnò l’ennesimo colpo allo scudo, novecento uomini gli fecero eco.
«Per Avillyon!» urlarono, levando le rozze armi al cielo. «Per Re Arther!» urlarono picchiando le lance contro gli scudi. «Per gli dei!» urlarono, affacciandosi a decine dal parapetto delle mura, sputando e bestemmiando contro il nemico. Erano tanti, era come vedere il mare risalire la collina ma in quel momento non importò a nessuno: erano il nemico e loro il muro di ferro che li separava dall’annientamento.
«A MORTE, UCCIDETELI, FALCIATELI COME GRANO, USATELI PER SAZIARE IL MASTINO DI HELGUDD!» la voce di Alfgarr fu un tuono, gli uomini del nord sciamarono in avanti, chinandosi e corsero a sciami contro le mura. Gli arcieri fissarono le corde ai puntali in legno o corno degli archi e pregando che la pioggia non li rendesse subito inutilizzabili incoccarono le frecce. Queste erano lunghe, diritte e dalla punta liscia, una cuspide ogivale che penetrava a fondo nella carne del nemico, alle volte con tanta forza da passarlo da parte a parte.
«Tirate su quei bastardi, ammazzateli tutti, uccideteli!» non fu Galainn ad urlare, furono gli uomini, in massa, pestando i piedi e percuotendo il parapetto. Così le corde furono tese sino alle orecchie, qualcuno grugnì per lo sforzo e le dita liberarono l’impennaggio delle frecce; queste sibilarono nell’aria e si schiantarono come una gradinata nella carne degli uomini del nord.
Le prime file vennero falciate, il ferro scavò dei solchi nelle cotte di maglia e le tuniche di pelle, piantandosi nella carne, negli occhi sgranati, nelle bocche spalancate sotto la barbozza metallica. Una freccia ruppe il nasale di un elmo conficcandosi nel cranio, un’altra scivolò contro un elmo e penetrò in un collo, altre si piantarono nelle gambe degli uomini, nelle spalle e nei toraci. Si levarono le grida di morte, i guerrieri di Skjegga caddero a decine, il sangue sgorgò denso e copioso e l’orda si arrestò.
«Muro di scudi, muro di scudi, avviciniamoci e massacriamoli!» Alfgarr sollevò il proprio scudo tondeggiante sopra la testa, la prima fila formò un compatto muro di legno e sopra di loro ne issarono altri avanzando ora molto lentamente, ruggendo ad ogni passo. Dalle mura le grida infuriavano, gli arcieri stringevano i denti mentre scoccavano e le cuspidi cantarono e vibrando penetrando nel legno. Molte furono inoffensive, ma sempre qualcuna trovava uno spiraglio e il sangue nemico sgorgava. Un uomo cadde riverso in avanti, il sangue zampillava dalla gola e prima che un altro potesse prenderne il posto, una gradinata di frecce si abbatté in quella breccia, bloccando un attimo l’avanzata dei barbari.
«È quello che volevamo – Galainn sollevò la spada e la calò di taglio sulle corde che trattenevano i pesanti tronchi, facendoli cadere a terra – schiacciate i figli di puttana, schiacciateli». Desmond urlò come un ossesso abbassando la spada, Jeras bestemmiò e Balder rise ruttando. I Gemelli scoccavano freccie sino a farsi sanguinare le dita e la pioggia sferzava volti di uomini vivi, feriti e morti. Ci fu un gran fragore quando i tronchi rotolarono giù per il colle, un rumore di legno e ossa spezzate.
Davanti alle grida festanti dei difensori, Alfgarr arretrò assieme ai suoi che bestemmiarono contro il cielo mentre il fango li faceva cadere a terra, li faceva incespicare e la pioggia che avevano benedetto poco prima ora si rivelava un prezioso alleato. Perché i tronchi scivolavano velocemente, sotto di loro vennero schiacciati molti degli invasori, si levò il suono delle ossa spezzate, dei crani spaccati, fiotti di spappolata materia grigia imbrattavano le gambe di coloro che fuggivano.
Vennero scagliate molte altre frecce, a decine. L’impennaggio fischiava nell’aria fradicia, le punte ad ago penetravano facilmente le cotte di maglia e abbatterono altrettanti skjeggani. Galainn urlò dall’alto della palizzata assieme ai suoi uomini, insultando i nemici, chiamandoli figli di merda d’inferno, cani scopa vacche, figli di puttana. L’acqua sferzante distorceva i loro lineamenti sotto sinistri giochi di luce, le fiamme dei bracieri si riflettevano contro gli elmi e le cotte di maglia. Dovevano averne molte decine mentre loro ancora vivevano tutti e il vento soffiava selvaggio in direzione delle loro navi e l’acqua del mare si gonfiava e ruggiva, facendo ondeggiare le navi ancorate alla spiaggia.
Quando la corsa omicida dei tronchi ebbe fine, Alfgarr si voltò e lui e tutto il suo esercito si ritrovò chiuso fra due fuochi: da una parte un muro solito, ben difeso e dall’altra la furia distruttrice del mare. Aveva preso in considerazione la tempesta, ma non sapeva di quella fortificazione. Mella sua mente, l’esercito doveva sbarcare, salire per la china della collina, portare in secca le navi e accamparsi in cima alla scogliera; una volta approntata la base, avrebbe mandato piccole armate di qualche centinaio di uomini a distruggere le frontiere settentrionali dei baronati, costringendoli in uno scontro a terra nel mentre da sud gli altri invasori li avrebbero presi sul fianco. Ora invece, tutto era stato fermato da un muro, un fottuto muro di legno.
Furioso, ruggì con foga, mulinò la sua formidabile spada lunga e la abbatté sul collo di uno dei suoi, facendo sprizzare copioso il sangue, spaccandolo sino al costato, riversando al suolo un fiotto abbondante e scarlatto e liberò la lama, spalancando le braccia e ruggendo al celo. «Cani figli di una scrofa – urlò nella sua lingua, i capelli incollati al volto, la cotta di maglia inzaccherata di fango e la sottoveste zuppa, ridotto così sembrava ancora più selvaggio e bestiale di quanto in realtà già non fosse – torniamo lassù per gli dei! Prendiamoci tutte le loro teste e violentiamo le loro donne, appendiamo i loro figli per offrirli ai corvi di Helgudd! Seguitemi, noi accogliamo la morte poiché ci porta a banchettare nella Sala degli Eroi, seguitemi, noi che siamo l’orda degli dei»
 
[https://youtu.be/7T3zEBp5L2E?list=PL4BA877E393C0AEA7]
Il nuovo assalto fu assai più brutale e veloce; rinvigoriti dalle parole del re, gli skjeggani caricarono la muraglia con atroci grida di guerra, altri ancora erano sbarcati e una rinnovata onda in piena di carne e ferro si abbatté sul vallo. Gli archi cantarono nuovamente, altro sangue venne versato al suolo, in molti erano i barbari che saltavano nel fossato, dando l’assalto alle mura e cadevano morti, con le viscere impalate nei pali di difesa protesi in avanti. Pioveva a scrosci violenti, il terreno attorno al fossato era cedevole e infido, molte fila di uomini cadevano l’una sull’altra, finiti dalle freccie.
Alle loro spalle, le onde si gonfiarono, sollevandosi e rovesciandosi le une sulle altre, si sentivano le grida degli uomini gettati in mare, uomini che affondavano per via del peso delle proprie armature. Ma il numero degli assedianti sembrava aumentare invece che diminuire, sapevano tutti che doveva per forza superare la barriera per poter sfruttare appieno l’effetto sorpresa e per questo ci si accanivano ringhiando come bestie e si arrampicarono servendosi delle asce, tirandosi su con grugniti mentre sotto di loro, gli uomini formavano unna rampa con gli scudi, improvvisando una rampa d’assedio.   
«Finalmente! – Balder gridò tutto contento, calando la sua lama dall’alto, spaccando un elmo e un cranio, urlando di gioia nel vedere il primo uomo morire per mani sua – ora è una vera battaglia!» e menò un altro fendente, spaccando un collo all’altezza della sua attaccatura con la spalla e lo skjeggano si riversò morto all’indietro. Ora gli assedianti si arrampicavano a frotte, staccavano schegge dal legno e si sollevavano menando colpi dall’alto, affondando con le lance.
Galainn affondò in una cotta di maglia; la punta superò gli anelli e infilò un barbaro al costato, spaccandogli il cuore e lo colpì al colto con l’orlo dello scudo a mandorla, urlando. Alcuni riuscivano a superare il parapetto, ma le lance li spingevano indietro, la calca di difensori era una massa apparentemente inviolabile e quella notte, i taglialegna scoprirono che la carne cedeva molto più facilmente del legno. In quel momento i difensori si resero conto della loro enorme fortuna: il nemico non aveva i mezzi per assediarli, in quel modo, pure per quante potessero essere le decine di migliaia, le perdite sarebbero state enormemente pesanti.
Desmond era invaso da una specie di furia, la stessa della quale parlano i menestrelli e i cantori nelle locante, mulinava la spada preciso, come gli era stato addestrato e colpiva di punta per superare la difesa degli anelli di ferro che invece avrebbero reso vano un colpo di taglio e urlava a squarcia gola, recidendo una spalla, un ventre, sbudellando un uomo caduto a terra sul camminatoio. «Galainn, guarda lassù, la scogliera!» La voce di Jeras si levò da sopra la battaglia, contadini e pastori si ammassavano sulle mura con la bava ala bocca, lanciavano i forconi oltre il parapetto come fossero giavellotti e i rebbi facevano scempio della carne.
In alto, sulla cima della scogliera frastagliata e aggredita dal vento, Galainn vide la sagoma di una donna. La dona era nuda, fatta eccezione che per pochi dischi di bronzo legati attorno all’inguine. Aveva lunghi capelli neri come le ali di un corvo e un corpo perfetto; sene stava a piedi nudi, stringeva una lunga lancia di frassino nella mano destra dalla punta in ferro fogliforme e cinta da due denti d’arresto alla base; la donna puntò lo sguardo in basso, verso la flotta avversaria che andava dividendosi e quindi iniziò a danzare, nuda, sotto la furia degli elementi.
«Che io sia fottuto» gridò il cavaliere, poi vide uno skjeggano superare il parapetto, distolse l’attenzione dalla donna nuda e sferrò un fendente dall’alto, spaccandogli le’lmo e il cranio. Alla sua destra e alla sua sinistra ala battaglia ormai infuriava, i barbari si arrampicavano a decine, picchiavano con le asce contro gli scudi sollevati sopra le teste e imprecavano. Le spade si infilavano nei loro intestini, le lance li trapassavano e loro, balzando all’interno, travolgevano gli uomini, mordendoli e passandoli a fil di spada, calando l’ascia sulle loro giubbe di cuoio e sfondando il costato. Il camminatoio era lordo di sangue, ma il muro, per quanto il legno, resisteva all’assalto e tutti i difensori avevano guadagnato fiducia. D’improvviso la tempesta ruggì, si sentirono i rombi di molti tuoni, i fulmini scesero dal cielo in terra, la pioggia si fece torrenziale, estinguendo le fiamme.
Dabbasso. Alfgarr che spingeva in alto gli uomini lasciò cadere un uomo armato di lancia e lanciò un tremendo la mento, tanto forte che i cavalieri lo sentirono da sopra il fragore della tempesta e allora ammutolirono, tutti, avillyionesi e skjeggani. Perché d’improvviso le onde del mare si erano fatte ciclopiche, graffiando le nuvole e come muraglie in crollo sollevarono con sé decine di navi, abbattendosi sulle stesse, mandandole in pezzi. Al largo, altrettante vennero scagliate contro gli scogli e il tutto mentre la strega danzava.
Desmond, Galainn, Jeras, Balder con la barba inzuppata di sangue, i Gemelli e Peregast osservarono quello spettacolo, lo osservò il nemico e poi tutti fissarono la strega. Questa si era fermata e fissava la battaglia, ripresa la lancia in mano e stava immobile, i suoi capelli in balia del vento. II barbari del nord lanciarono orrendi ululati di rabbia e tornarono all’assalto. Quanti dei loro erano morti ormai, in mare? Centinaia, migliaia e altre decine cadevano davanti al muro. Alfgarr era rosso, si, rosso di rabbia.
Tutto stava andando storto e si chiese come questo fosse possibile. Era sempre stato molo devoto ai loro dei, in nome di quegli dei aveva ucciso quel pavido di suo padre, in nome di quegli dei aveva unificato il suo popolo e in nome di quegli dei ora si trovava sotto il muro, a vedere i suoi uomini morire. Eppure la realtà dei fatti era innegabile: la sua flotta stava finendo a pezzi, le navi erano allo sbaraglio, cadevano sotto la furia degli elementi e i suoi guerrieri perivano nel fosso ai loro piedi, con gli intestini zuppi di pioggia. «Gorth! Non abbandonarci, noi che siamo la tua orda in terra!» ma il dio non si faceva sentire, i fulmini quindi, apprese Alfgarr, non appartenevano a lui, ma agli dei di Avillyon che quella notte li avevano tratti in inganno.
«Ora! Investiteli con il fuoco, lasciate che si scaldino sotto questa pioggia glaciale!» Galainn si affacciò dalla parte opposta della muraglia, la spada era lorda di sangue, cervelli e gloria, i suoi uomini cadevano nel furioso corpo a porto e nella mischia i cadaveri venivano gettati di sotto. «Muovetevi! Sono tutti qui sotto, fate rotolare quelle balle merdose!) e così i contadini a terra gettarono secchiate di pece sulle grandi balle di fieno circolari, diedero loro fuoco e con l’ausilio di lunghe pertiche le avvicinarono ai battenti del portone. Una fitta gradinata di frecce liberò il passaggio., Alfgarr temendo una sortita di uomini a cavallo chiamò indietro i suoi ed era quello che i difensori volevano.
In un turbinio di fiamme rutilanti, il fieno rotolò loro addosso, investendone le fila, scompigliandole nuovamente, gli arcieri scoccavano le loro frecce e schizzi di pece bollente si staccava dal fieno finendo addosso ai guerrieri che urlavano, si buttavano a terra, rotolandosi in mezzo al fango. «Che il Cielo mi fulmini se mento! – Peregast centrò con l’umbone dello scudo i denti e il naso di uno skjeggano, spaccandogli il setto e facendo sgorgare il sangue dal labbro spaccato. Prima di infilzarlo al costato con la spada, strappandola con un brutale strattone – Galainn, possiamo farcela davvero! Possiamo sconfiggerli!» e con quel sorriso, quelle parole e la cotta di maglia lorda di rosso plasma, un’ascia lo colse di sorpresa, piantandosi nel suo elmo e aprendogli il cranio sino al cervello, facendogli schizzare gli occhi dalle orbite.
Galainn maciullò il viso di un avversario con l’elsa in bronzo della spada, menò un fendente di taglio contro una gola e fece sgorgare il sangue, spingendo il cadavere giù dalle mura. Era normale, era la guerra, la morte non poteva essere evitata per sempre e il destino degli uomini è nelle mani del Cielo. Così sferrò un altro colpo dall’alto, accanto a lui uno dei suoi uomini cadde a terra con una lancia che faceva capolino dalla bocca, alla sua destra un altro venne spaccato dalla spalla al fianco e un altro tirato giù dal muro e gettato nel fossato.
«Non fermatevi! Uccideteli tutti, nessuna pietà per i bastardi del nord, nessuna pietà!» Balder mulinava una lunga ascia dal manico a due mani, un’ascia barbuta di Skjegga e la possente lama in ferro fendeva le cotte di maglia e le giubbe di cuoio, tranciando muscoli e ossa. La sua armatura era inzaccherata di cervello e carne, la sua barba rossa come i capelli dello stesso Alfgarr e se la rideva alla grossa, spostando il corpo pesante e mulinando rapido la sua arma. La brandiva quasi fosse una mazza da combattimento, pestando qualunque uomo cercasse di scalare le mura, ruggendo come una bestia feroce.
«Cane bastardo! Traditore del tuo sangue!» un uomo si affacciò dal parapetto nel mezzo del mulinare dei colpi, l’acqua colpiva tintinnante le armature di quanti combattevano, le vesti di lino, tessuto e lana erano fradice, il camminatoio vischioso e le asce si alzavano e si abbassavano accompagnate da strida e lamenti. Balder colpì il collo del nuovo aggressore, il ferro penetrò a fondo, quasi staccando di netto la testa dalle spalle ma pure l’altro urlò col sangue che pompava dalla ferita e affondò la spada in avanti, perforando la cotta di maglia di Balder e lasciandola conficcata nel costato, per poi cadere all’indietro. Balder arretrò di un passo, osservando il proprio sangue che colava a fiotti copiosi e sorrise. Lanciò un urlo di guerra, recuperando l’ascia e si buttò giù dalla palizzata, uccidendo altri tre skjeggani prima di essere spinto sui pali del fossato, dove morì impalato come un maiale.
Eppure riuscivano a sentirlo, gli uomini, riuscivano a sentire che la pressione stava venendo sempre meno. Decine di navi affondate, la tempesta infuriava e l’acqua scrosciava verso il basso, minando la sicurezza del muro di scudo degli invasori di Alfgarr. «Fanculo, fanculo questi bastardi! – il re di Skjegga ruggì ancora, recuperando una lancia dal basso e la scagliò sulle murate, passando un uomo da parte a parte e facendolo cadere dal versante opposto – Alle navi, torniamo alle navi, useremo gli alberi come arieti, seguitemi, possiamo ancora vincere questa battaglia!» ed era vero. Se fossero riusciti a sciamare all’interno avrebbero schiacciato i difensori con la sola forza dei numeri propagandosi facilmente lungo il campo e prendendoli alle spalle mentre altri davano l’assalto frontale.
Galainn, Peregast, con una spalla sanguinante, i Gemelli, maschere rosse con le spade lorde di morte e Desmond, elettrizzato, terrorizzato e uccisore di dieci uomini ripresero fiato, la pioggia lavava il sangue loro di dosso, formando rosse cascatelle giù dagli spalti. 8Se fanno breccia – disse Galainn – non avremo scampo. Ne abbiamo uccisi a decine ma sono ancora centinaia, almeno due a uno, se non tre… non possiamo permettere che ci prendano alle spalle e certo non continueranno a dare l’assalto come hanno fatto sino ad adesso».
«Per l’amore del cielo – disse Peregast alzando l’unico occhio rimastogli alle nuvole tempestose e sorridendo senza allegria – dimmi che non stai suggerendo quello che io pensi che tu stia suggerendo, ho il cazzo intirizzito e il braccio sinistro fuori uso» disse alludendo alla spalla. Galainn fece un sorriso tirato, ma annuì.
«Il terreno è a nostro vantaggio, i loro guerrieri saranno esausti mentre noi abbiamo ancora truppe fresche, le migliori dei baronati. Portiamo fuori dal portone, le pareti sono strette, possiamo formare un muro di scudi e fermarli qui, ora, spezzarli uno ad uno! Non si aspettavano questa battaglia, la flotta è sbaragliata e noi, noi siamo ardenti dal desiderio di versare il loro sangue, non è così branco di bastardi?» nell’urlare l’ultima frase si rivolse agli uomini che erano sciamati da ogni parte dell’isola e quelli risposero picchiando le armi e levandole sopra la tesa, in un turbinio luccicante al bagliore di lampi e fulmini.
«Non ho mai combattuto in un muro di scudi – disse Desmond deglutendo a vuoto e osservando il nemico – ma per questa terra sono pronto a versare il mio sangue e a rendere onore a Jeras e Balder» lo disse con convinzione, sollevando il suo scudo a mandorla e picchiandoci contro il piatto della spada. Galainn annuì e li guardò tutti un’altra volta. Cinque cavalieri assentirono, avrebbero combattuto a terra, l’ultimo atto, il più sanguinoso.
 
[https://youtu.be/Nx3qAPApGqI?list=PL4BA877E393C0AEA7]
«Smontate i pali, preparatevi ad abbattere le mura!» Alfgarr fu fra coloro che smontarono la vela dall’albero maestro, ne sciolse le funi che ammassarono sul ponte dell’imbarcazione e lo sollevò assieme ad altri dieci degli uomini del suo equipaggio. Con un urlo si voltarono, altri venti uomini trasportavano due alberi e si apprestarono a tornare all’assalto quando si fermarono. Alfgarr avanzò in testa alle truppe, il volto sferzato dalla tempesta aveva perso ogni parvenza di umanità e vide che i difensori sciamavano fuori dalla fortezza, gli scudi assicurati al braccio sinistro, le lance dietro e le spade e le asce in vanti. In prima linea c’erano i cinque cavalieri che aveva visto battersi sulla sommità del bastione in legno e un sorriso feroce gli segnò il volto. Una vera battaglia finalmente, un muro di scudi, il mattatoio umano.
«Lasciate i pali, lasciateli ho detto, il nemico ci affronta, il nemico va contro la propria disfatta! – sollevò la voce, mulinando la spada sopra la testa e li chiamò attorno a sé, formando delle file ammassate che andarono riorganizzandosi, con i volti nascosti sotto gli elmi e le mani strette alle armi – Questa è una gloriosa notte uomini! Gli dei ci concedono l’occasione di una grandiosa battaglia, uomo contro uomo, scudo contro scudo! Formeremo la testa di cinghiale e annienteremo le loro fila, fate cantare le armi, fratelli perché stanotte è la nostra grande notte, stanotte noi banchetteremo e berremo dai loro crani! A me, a me, alla battaglia, alla battaglia!»
Urlò a squarciagola, i suoi lanciarono nuovi ruggiti. Dovevano essere duemila skjeggani, duemila guerrieri esperti e ferali, selvaggi e sanguinanti che risalivano la scarpata ondeggiando, cantando gloriosi inni ai lori dei, scandendo le parole pestando le armi contro gli scudi tondeggianti. Galainn prese un profondo respiro, mulinò la spada corta nella mano destra e si guardò a destra e a sinistra dove stavano Desmond e Peregast e i Gemelli. «Avillyon ci chiamna! – gridò alla fine mentre centinaia di uomini formavano le file alle loro spalle – Avillyon ci chiama, a noi bastardi senza padrone, perché siamo il suo scudo e la sua spada! I nostri dei sono con noi, massacriamo i bastardi, facciamo loro cagare sangue, annientiamoli! Vinceremo noi, vinceremo questa battaglia!»
Così le due truci compagini avanzarono l’una contro l’altra, salendo e scendendo, scrutandosi selvaggiamente, incitando il nemico a lanciarsi alla carica e facendo un fragore d’inferno. «A morte, figli di una scrofa, vi fate scopare come puttane dalle vostre donne, succhiacazzi degli inferi!» gli insulti degli uomini di Avillyon si levarono feroci e le stesse grida si levarono dai ranghi di Skjegga. Venne dato poi l’ordine di formare il muro di scudi e gli orli si sollevarono e si sovrapposero gli uni agli altri, gli uomini premettero spalla a spalla mentre quelli alle loro spalle difendevano le teste di quanti stavano davanti, pronti a mulinare le spade e a scagliare le freccie e le lance.
«A morte, a morte i bastardi, nessuna pietà per gli invasori!» la voce di Desmond eruppe dalla sua gola, sentiva una paura fottuta, non pochi uomini si urinarono addosso e risero istericamente, avanzando passo dopo passo. «Addosso, addosso ai figli di puttana, mandiamoli all’Inferno!» il ragazzo urlò ancora, Galainn gli fece eco e così tutti i loro uomini. Un passo, un altro passo… Partirono alla carica, ondeggiando e Alfgarr fece lo stesso con i suoi guerrieri.
Le lance vennero scagliate oltre le loro teste, caddero contro gli scudi, abbatterono gli uomini, le frecce sibilarono e finalmente si arrivò al corpo a corpo. Il boato degli scudi che picchiavano umbone contro umbone sovrastò i canti della tempesta, i soldati grugnirono dallo sforzo per spingere in avanti e contrastare l’assalto del nemico, si levarono i colpi di spada mentre i piedi cercavano di impuntarsi al suolo. Desmond sentì il proprio scudo premere contro la spada, aveva attaccato al volto il ghigno di uno skjeggano e la spada gli avrebbe sfondato il cranio non lo avesse avuto coperto dallo scudo. Lanciò un grido di guerra e affondò dal basso, nell’inguine dell’uomo, facendolo stramazzare al suolo.
Le lance mulinate dalle seconde file scintillavano sopra le loro teste, affondavano nelle feritoie degli elmi, trapassavano crani e cotte di maglia, le asce danzavano selvagge in un’esplosione di grida e morte. I corpi si afflosciavano al suolo come sacchi vuoti, i piedi vi scivolavano e quanti cadevano a terra venivano finiti da dozzine di colpi. «Indietro ora, un passo indietro, un passo indietro, fateli avanzare, che vengano a crepare!» Galainn affondò in una barbozza metallica, la punta della spada fendette gli anelli di ferro e lacerò la gola sottostante, un fiotto caldo gli innaffiò volto e braccio e con un urlo, gli uomini arretrarono.
Fu improvviso, gli skjeggani in prima fila incespicarono sui corpi dei loro compagni caduti e caddero a terra, le lance calarono da sopra le spalle di quanti stavano davanti e li finirono. Con un ruggito, Alfgarr urlò un’altra carica, si spostò in prima fila e occhieggiò sanguinario Galainn che ricambiò la sua sfida. Il bestiale re di Skjegga guidò i suoi in una carica su per la collina, ponendosi come punta di sfondamento per la testa di cinghiale. Sarebbero passati attraverso le loro file prendendoli alle spalle, nulla era cambiato, potevano vincere e lo avrebbero fatto.
Ma il terreno era insidioso, cosparso di decine di cadaveri e la carica perse la sua efficacia sebbene l’urto fece tremare i denti di Galainn e ilo nemico balzò loro addosso, costringendoli ad arretrare per sopportare la tempesta di colpi. Gli uomini morivano scannato come agnelli, una spada nemica cavò l’occhio ad uno dei gemelli, sfondandogli il cranio e lasciandolo disteso al suolo. Il fratello urlò il suo dolore, lanciandosi in avanti ma venne abbattuto dalle frecce. L’orda si lanciò contro il varco lasciato aperto, ma i difensori arretrarono, formando nuovamente il muro. Al centro, Galainn ed Alfgarr sferravano colpi furenti con le loro spade, ringhiando ad un nulla dai propri volti, ma Peregast e Desmond combattevano come anime dannate e in una pausa concessa da una mezza dozzina di passi indietro si portarono alla sua destra e alla sua sinistra.
Davanti a loro stavano morti decine di skjeggani, e gli avillyionesi ruggivano, esausti, sanguinanti, feriti ma uniti. Il nemico esitò, Alfgarr esitò, di quel passo, anche vincendo la battaglia avrebbe perso così tanti uomini che governare le navi rimaste sarebbe stato impossibile e in quelle condizioni come avrebbe potuto lanciarsi all’assalto delle altre baronie? Se ognuno di quei bastardi poteva riunire mille lance, anche solo tre eserciti li avrebbero annientati. «Adesso! Massacriamoli, andiamo loro addosso, la battaglia è nostra!»
Con un poderoso urlo di guerra, Avillyon si lanciò in una carica furiosa, Galainn vi si portò in testa e picchiò lo scudo contro Alfgarr, sbalzandolo a terra e i suoi guerrieri si lanciarono contro i nemici in un vorticare di corpi e acciaio. Fu una grandiosa carica, le poche centinaia di difensori riuscirono a penetrare nelle migliaia nemiche, facendone strage e allargandosi a ventaglio, falciandoli con il ferro, riversandone al suolo le viscere. Desmond buttò un uomo a terra e gli sfondò il cranio con l’orlo dello scudo, Peregast mulinò la spada, mozzando un braccio all’altezza del gomito e il sangue sgorgò a fiumi; diede il colpo di grazia all’uomo e cercò un altro avversario.
Il muro di scudi tornò compatto, i difensori si trasformarono in assedianti e inseguirono il nemico che adesso arretrava, passo dopo passo. Fu una marcia lunga e sanguinosa, Desmond urlava con la voce rauca, i muscoli doloranti, Galainn era accecato dall’acqua, dal sudore e dal sangue e Peregast avanzava col braccio sinistro ormai ridotto a carne viva, eppure continuava a reggere lo scudo, animato dal fuoco dei suoi dei. Poi Alfgarr lanciò una carica disperata, abbatté Peregast spaccandogli in due il cranio e si lanciò contro Galainn al centro, cercando di forzare il blocco. Il cavaliere lanciò un grido e lo colpì al naso con l’umbone dello scudo, spezzandogli il setto nasale, facendolo finire disteso sul fango.
Così fu lui a insinuarsi a cuneo nello squarcio fra le maglie dei ranghi nemici e questi andarono definitivamente in rotta, mentre la morte e la rovina cadevano su di loro. «Nessuna pietà, uccideteli, uccideteli tutti!» Galainn si lanciò alle spalle di Alfgarr che correva verso le navi con ancora gli alberi, il muro di sciolse e tutti si lanciarono nell’ultimo massacro, uccidenti quanti fuggivano e quanti restavano, imbrattando le acque tumultuose di rosso sangue. «ALFGARR, ALFGARR, VOLTATI E AFFRONTAMI CANE CODARDO!» Galainn urlò quell’insulto in lingua skjeggana; qualche parola gli era stata insegnata da Balder, per lo più insulti più o meno coloriti e se ne servì per farlo voltare e ingaggiare con lui un brutale duello nel mezzo delle stragi dei suoi uomini.
Nel mentre, resosi conto che il mare non avrebbe loro dato scampo, gli uomini del nord si voltarono, pregando perché la Sala degli Eroi si aprisse per loro e combatterono un ultimo scontro, desiderando solo di morire con onore sul campo. Ancora oggi, e a ragione, i cantastorie cantano di quella battaglia miracolata, e di come in quella scarpata poche centinaia ne falciarono migliaia. Ma non cantano della merda e del piscio, dei crani spappolati e del cervello schizzato. Parlano del coraggio, e ci fui in abbondanza, ma non della paura, che trasudava da tutti i pori.
Perché quella notte gli uomini accorsi a salvare Avillyon si tramutarono in assassini mentre scannavano il nemico, mentre lo passavano a fil di spada, di roncola e di lancia, mentre li abbattevano colpendoli in pieno volto, mentre venivano uccisi con le mani, spinti sott’acqua ad affogare. E in mezzo al massacro, Galainn e Alfgarr combattevano come demoni, mulinando colpi su colpi, acciaio e legno picchiavano fra loro e le schegge volavano in ogni direzione. Furenti e rabbiosi, ognuno aveva ucciso molti nemici quella notte, ma ora che erano faccia a faccia, la stanchezza scomparve dai loro corpi e si batterono come lupo, saltandosi alla gola. Poi Alfgarr lo colpì allo scudo facendo cadere il suo e prendendo la spada a due mani, spaccandolo in profondità e gli diede un calcio tanto forte da sollevarlo da terra e farlo cadere di schiena.
«Mi hai tolto tutto, bastardo di un cane! – gridò – io mi prenderò la tua testa!» e avanzò, pronto a tagliargli il collo quando si levò un grido. Desmond balzò come un leoncino, feroce e fiero e lo spinse via, lanciandoglisi addosso, tempestandolo di colpi, urlando ad ogni scontro. Colto alla sprovvista, Alfgarr incespicò sul terreno fradicio, arretrando, incredulo. Quel giovane era forte, era veloce, era abile. Desmond lo spinse sin sulla sua nave, issandosi al di sopra stringendo la testa di drago e lo guardò dall’alto al basso, con i fulmini e la tempesta alle sue spalle.
«Tu – ringhiò – tu morirai qui» e lo attaccò, balzando e ruggendo fra le panche dei rematori. Alfgarr lanciò un grido, colpì la spada del giovane con tanta foga da spezzarla e lo colpì alla bocca con un pugno, mandandolo a schiantarsi a terra prima di schiacciargli il torace con il piede. La nave ondeggiava furiosa, la stiva sotto di loro traboccava d’acqua e le panche dei rematori erano lucide di sale e pioggia. Alfgarr calò la sua spada sul petto di Desmond, am questo ruggì selvaggio, portando mano alla daga che portava alla cinta e la affondò nel suo ginocchio destro, spappolandolo in un tripudio di sangue. Alfgarr lanciò uno stridio di dolore, cadendo a sua volta e Desmond gli fu addosso, stringendo la daga a due mani e la calò sul suo collo.
Il sangue sgorgò e sgorgò e sgorgò, inzuppandogli il volto, le mani, la cotta di maglia e mischiandosi al suo, alle numerose ferite che non aveva visto e del quale non si era accorto. Alfgarr vomitò sangue dalla bocca, poi le braccia si spalancarono e lui morì, fissando il cielo tempestoso. Gli skaldi di Skjegga narrano che, quando il suo ultimo respiro abbandonò il suo forte corpo, una valchiria discese dalla Sala Degli Eroi per portarlo in quella terra degli dei e che Desmond la vide, la vide e provò rispetto per il suo avversario.  
Il giovane gli tagliò la testa, sollevandola per i capelli scarlatti e si arrampicò sulla prua della nave, lanciando un grido che superò il clangore del metallo e la sollevò sopra il capo, stringendosi alla polena. A quella vista, tutti i combattenti si fermarono, gli uomini del nord sopravvissuti fecero cadere le armi e si inginocchiarono, levando le armi e Avillyon urlò di trionfo e un grido, un grido si levò dalle bocche dei suoi guerrieri: «TESTA DI DRAGO, TESTA DI DRAGO, TESTA DI DRAGO, TESTA DI DRAGO!» Desmond osservò tutti loro e sollevò gli occhi. La strega lo guardava all’alto della scogliera, poi si voltò e sparì in mezzo alla boscaglia.

[https://youtu.be/d5TYPktOysY]
Quella notte dell’867 morirono oltre tremila degli uomini giunti dal nord; nella battaglia di Caer-Ludd persero la vita mille ottocento skjeggani e appena un centinaio di avillyionesi. Fra questi c’erano i cavalieri Peregast, Jeras, Balder e i due conosciuti come “I Gemelli”. Sul campo zuppo di sangue e colmo di cadaveri, Desmond rivide felice Galainn, ferito ma vivo che lo guardava sorridente mentre gli fasciavano la testa dolorante. «Sei diventato un uomo ragazzo – gli disse stringendogli la mano con foga – sei diventato un eroe».
Desmond si ritrovò ad annuire, lo vide alzarsi in piedi e andare verso ilo vallo, rimasto inviolato e straripante di corpi. Il giorno dopo, sum Avillyon sorse un sole potente che spazzò via le tenebre della notte e sulle coste meridionali le pattuglie armate trovarono i resti delle navi e dei loro equipaggi, che si arresero senza combattere parlando confusi di una battaglia che si era tenuta a nord, da qualche parte. Così le voci dello scontro iniziarono a diffondersi e da qualche parte, qualcuno iniziò a chiamare Desmond “Pendragon”, Testa di Drago, colui che secondo le antiche leggende era destinato a riunire tutta l’isola sotto un solo stendardo.
E Desmond combatté molte altre battaglie, per dieci anni, mosso dal sogno di Re Arther lottò per riunire i baronati e con lui ci fu Galainn, il suo più valente consigliere, amico e capitano e la strega dai capelli neri, che divenne la sua amante, la sua sposa, la madre dei suoi figli. La sua ultima grande battaglia venne combattuta nell’anno 877, dieci anni dopo Caer-Ludd contro l’armata che da Skjegga era discesa per avere la sua vendetta. Diecimila lance che caricarono il muro di scudi di Desmond Pendragon. Ma questa, questa è un’altra storia, un’altra battaglia e mentre il giovane assaporava l’ebrezza della vittoria, mentre la strega si presentava nella sua tenda, avvolta da un pesante mantello nero a celare il corpo nudo, il ragazzo pensò solo di essere caduta vittima di un incantesimo per l’ardente amore che zampillò in lui solo a vederla in viso. Il futuro era incerto e nascosto agli occhi dei mortali e anche potendolo vedere, il Destino governa ogni cosa.
Così finiva la battaglia di Caer-Ludd e iniziava la leggenda dei Pendragon.
 
Note dell’autrice:
Ed eccomi qui con una nuova One-Shot, una nuova battaglia! Stavolta però ho voluto fare qualcosa di un po’ diverso, qualcosa che fosse assai più vicino alla realtà storica presa in esame e trasposta in questo universo. Mi sono ispirata alle cronache anglosassoni e, in particolar modo alla saga letteraria di Bernard Cornwell, “Storie dei Re Sassoni” che raccontano di come Alfredo il Grande prima e i suoi figli poi abbiano unificato l’Inghilterra.
Anche se, ad onor del vero, la storia è un omaggio alla serie TV tratta dai romanzi, “The last Kingdom” ed al personaggio di Uthred di Bebbamburg in particolare.  Ad ogni modo, avrete notato che stavolta con i numeri ci sono andate piano. All’epoca, in Europa mettere insieme grandi eserciti era estremamente difficile, specialmente nella Britannia del IX secolo d.C., e le cifre riportate nella storia sono molto plausibili. Anche l’elemento magico o divino l’ho delineato così come poteva essere concepito al tempo. Anche gli armamenti e le armature sono il più verosimili possibile, senza elmi cornuti o corazze a piastre.
Ci tengo a precisare tuttavia che personalmente parlando non ho nulla in contrario a questi aspetti più, fantasiosi o comuni del medioevo, e certo non mancheranno in molte altre storie, così come non mancheranno armature anacronistiche o creature fantastiche. Inoltre, così come riportato, non era raro che delle tempeste annientassero decine di navi e furono davvero combattute delle “battaglie miracolate” dove i danesi invasori vennero respinti dai sassoni.  Infine, i più attenti di voi avranno sicuramente fatto il collegamento fra le “Sette spade” e il film dei Sette Samurai.
Un parallelismo voluto, adoro il tropo messo su pellicola da Akira Kurosawa e, a modo mio, volevo omaggiarlo creando così sette cavalieri. Detto questo, detto tutto credo, scriverò sicuramente dell’ultima grande battaglia di Desmond Pendragon contro i diecimila invasori e devo ammettere che scrivendo questo mio primissimo muro di scudi mi sono divertita moltissimo e non vedo l’ora di narrare un altro massacro.
Posso solo dirvi, quindi, di restare sintonizzati, perché le imprese e gli eroi non sono ancora finiti!
Wyrd biδ ful ārad! Il Fato Governa Ogni Cosa.
 
   
 
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