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Autore: ElenoraBumBum    29/05/2023    0 recensioni
Completamente esasperato da tutto, sospiro: «Prima o poi me ne andrò da qui». Ne sono certo, mi lascerò questa vita assurda alle spalle e troverò qualcosa di meglio. Una casa migliore, un lavoro migliore, magari pure qualcuno con cui condividere la mia nuova vita. Qualcuno che scelga di stare con me, non che venga obbligato. Qualcuno che io possa veramente considerare famiglia.
«E perché?»
«Ma come perché? Dammi un solo buon motivo per restare». E ce l’avrei pure, ce l’ho davanti e occupa tutto il mio campo visivo visto che è gigante quanto il massiccio del Monte Bianco, ma ogni giorno che passa diventa sempre più difficile gestirlo e a volte la spina va staccata. Anche se non sembra, ce l’ho ancora un po’ di amor proprio.
Neanche mi avesse letto nel pensiero, sorride e sussurra: «Dalle altre parti non ci sono io».
Genere: Generale, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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10 – Polfer e adolescenti complessati

 «Ehilà!» mi saluta Jaco, di spalle, impegnato ad asciugare il lunotto della macchina.
«Ciao, hai lavato la macchina?» rispondo, andandogli di fianco e osservando il lavoro che ha fatto. Direi perfetto, è splendente, riesco pure a contare i peletti sul mento che mi stanno ricrescendo. 
«Sì, faceva abbastanza schifo» conferma, poi butta il panno che stava usando in un secchio e rimane a fissarla per un po’. «Boh, basta, va bene così» asserisce, facendo un gesto con le mani e allontanandosi dalla macchina.
«Più pulita di così…»
«Lo so, ma non mi convince. E allo stesso tempo mi sono rotto le palle di pulirla»
«Basta, Jaco, andiamo a sederci» piagnucolo, tirandolo per una manica della felpa. Ride, ma cede e mi segue fino alle sedie da giardino che ha comprato due settimane fa. Se posso permettermi, ottimo acquisto, sono comodissime, l’altra domenica mi ci sono pure addormentato nell’abbiocco post-pranzo. Mi sono svegliato con la sua giacca messa a mo’ di coperta, lui che guardava il computer sull’amaca presa nel delirio “MondoBrico”.
«Tu che hai fatto oggi?» mi chiede, controllando le foglie della piantina che ha messo sul tavolo. Ha detto che probabilmente sarebbe morta in un mese, ma io non ci credo proprio. È troppo ossessivo per dimenticarsi di qualcosa e per abbandonare un progetto a metà, sicuramente mi diventerà un giardiniere provetto e trasformerà il suo giardino in una giungla. 
«Il nulla assoluto, stamattina ho battibeccato un po’ con mio padre, ma niente che esuli dalla quotidianità» spiego, scrollando le spalle.
«Beh, un buon sabato»
«Finora direi di sì.» 
«Ieri mi è arrivata la mail di conferma per l’hotel…» bofonchia, tirando fuori il tabacco dalla tasca. Ah, giusto. Alla fine, ci andiamo davvero in Germania. Quando l’ha proposto era super entusiasta, ora l’ha detto con una voce strana.
«Oh, ottimo» rispondo. Lo guardo ancora, si sta girando la sigaretta, ma ha una faccia mezza pensierosa, spero sia per Colonia. E mi fa strano vederlo così, vedere l’ottimismo fatto a persona un po’ mogio, un po’ giù. Sospiro, mi guardo la punta dei piedi, poi sento lo scatto dell’accendino. «Sei contento di tornare in terra natia?» gli chiedo di getto, per poi mordicchiarmi la guancia. Non mi ha mai parlato molto di quel determinato periodo della sua vita. Solo un paio di cose, leggermente superficiali e per rispondere alle mie domande. Non ho mai capito per quale motivo. Non me lo sono mai neanche chiesto particolarmente, ho sempre pensato che avesse le sue motivazioni per non parlarne, che non era il mio ruolo quello di forzarlo. 
«Certo che sono contento di tornare. E sono contento anche di portartici…» risponde, con un’espressione un po’ malinconica. «È… praticamente metà della mia vita… mostrarti Colonia è farti vedere metà di me…» spiega, poi aggrotta le sopracciglia e si mette una mano sul torace, a segnare un punto. «…La metà col cuore…»
«Ogni quanto spesso ci torni?» 
«Boh, dipende dal periodo…» dice, scrollando le spalle. «A volte so che se torno, non vado più via, allora non ci vado proprio. Quando sono felice qui in Italia mi so godere Kölle in modo sano…»
«Non dovrebbe essere il tuo safe place
«Appunto, non posso essere triste a Colonia. Se sto male a Milano e prendo un aereo, è una volta per tutte.» spiega. «La mia vita è qui ora e sono felice di quello che sono riuscito a costruire, ma io… non ho mai veramente voluto andarmene da lì»
«Sai che non si direbbe?».
Ridacchia e si passa una mano nei capelli. «E menomale che non si direbbe, almeno so che tre anni di terapia e la bocciatura in terza media hanno funzionato». Per un momento il mio cervello si rifiuta di recepire le sue parole, ma poi chiudo un secondo gli occhi e li riapro per essere sicuro di avere davanti la stessa persona che avevo dieci secondi fa. Lui mi sta guardando con quel ghigno divertito che sprizza “Jacopo” da tutti i pori e un po’ mi convinco che è ancora lui. Mai come ora mi era capitato di non saper reagire a un’informazione.
«Ti ricordi quando mi avevi chiesto cosa mi mandava in crisi?» esalo. Lui annuisce e scoppia a ridere quando soffio: «Eccone un esempio»
«Sul serio?» ribatte quando si calma dalla sua ilarità.
«Beh, mi sembra logico…»
«E perché?» insiste.
«Perché mi viene davvero molto complesso credere che la persona meno problematica che conosca sia stata sia bocciata che in terapia»
«Allora riesco ancora a sorprendere»
«Direi» confermo, ancora con gli occhi sgranati. 
Rimaniamo entrambi in silenzio a guardarci, io adesso aspetto ovviamente una spiegazione perché col cazzo che mi fa vedere il trailer e io non so come va a finire il film, lui fa un paio di tiri e ridacchia di nuovo. Vorrei proprio sapere che minchia ci trova da ridere. «Beh, vuoi tutta la storia?» mi domanda, con un principio di sfida negli occhi.
«Tu che dici?» ribatto, raccogliendo le braccia al petto.
«Guarda che è lunga»
«Non ho niente di meglio da fare.» rispondo, mettendomi più comodo sulla sedia. «E visto che è così lunga, sbrigati» aggiungo.
«Sì… insomma… dal momento in cui sono venuto al mondo fino al quarto anno di Gymnasium è stato tutto perfetto, niente problemi, nessuna tragedia particolare…»
«Un bambino modello…»
«Oh, sì, i miei erano super contenti. Si fidavano ciecamente, già a dodici anni avevano smesso di portarmi in giro, avevo la mia bicicletta e il mio abbonamento dei mezzi, tanto sapevano che sarei tornato in orario, andavo bene a scuola, mi piaceva studiare, voti sempre ottimi…»
«E che è successo a questo idillio?»
«Beh, è successo che a una certa, mio padre arriva a fine contratto, sapeva che non si sarebbe rinnovato, mia madre voleva tornare in Italia, quindi… si è deciso di venire a Milano. Diciamo però che non è stata una gran mossa da parte loro rendere partecipe il loro figlio tredicenne di un trasferimento all’estero, a nove ore e mezza di macchina da Colonia tre settimane prima di partire… E per quanto possa aver capito certe cose crescendo, non è cambiato il fatto che mi hanno strappato all’improvviso da scuola, dagli amici, da casa… insomma, da quella che era sempre stata la mia vita. Io… non l’ho presa per niente bene, mi sono incazzato come una iena e l’idea non mi andava a genio manco per il cazzo. Ho provato in tutti i modi: con le suppliche, la rabbia, la gentilezza, giuro, qualsiasi cosa pur di rimanere. Ho pianto tutti i giorni prima di partire, quando ho detto addio ai miei amici, quando abbiamo lasciato Kölle, quando abbiamo passato il confine italiano, quando ho messo piede nella nuova casa e ho pianto tutte le sere prima di addormentarmi per parecchio tempo. Una volta qui, ho avuto un completo rifiuto per tutto ciò che era italiano… anzi, tutto ciò non era tedesco: non volevo andare a scuola, non volevo approcciare i miei nuovi compagni di classe, né gli insegnanti, non volevo nemmeno parlare l’italiano benché lo capissi e sapessi parlarlo fluentemente. I primi tempi cercavo di stare in casa nuova il meno possibile e, nonostante Milano mi facesse profondamente schifo, stavo in giro tutto il giorno evitando qualsiasi contatto umano con qualche sofisticata parola in tedesco, tanto i milanesi non capivano, erano tutti stupidi. Non andavo nemmeno a scuola, uscivo di casa e non mi presentavo fino all’ora di cena, quindi per arginare i danni, mio padre ha iniziato ad accompagnarmi e a lasciarmi davanti all’entrata, ma quasi non faceva in tempo ad andarsene che non varcavo nemmeno la soglia, giravo i tacchi e andavo a farmi i cazzi miei, allora si è messo ad aspettare che entrassi e io entravo incappucciato e uscivo subito dopo dall’altra parte della scuola. Hanno dovuto mettere una bidella che mi prelevasse all’entrata e mi seguisse fino in classe. Non parlavo con nessuno, non rispondevo a nessuna domanda, ignoravo qualsiasi parola mi venisse rivolta, a voce o scritta. Se chiedi a mia madre, tiene ancora le prime verifiche in cui rispondevo a ogni singola domanda con “Io non parlo italiano” in tedesco. Ogni singola pagina del mio libretto era tappezzata di note del tipo “Jacopo si rifiuta di partecipare alle attività di classe”, “Jacopo ignora completamente le domande del docente”, “Jacopo si alza ed esce dall’aula senza permesso” e così avanti. Tanto non mi importava di niente, io volevo solo tornare a casa mia, nella mia città, alla mia vita. I miei mi avevano assicurato che nelle vacanze, o durante l’estate saremmo andati in Germania ogni volta che volevo, ma ormai la mia fiducia era completamente distrutta e nella mia testa, ogni loro promessa era vana, ogni loro parola era vuota. In più, non me ne fregava proprio niente delle vacanze o dell’estate, io ci volevo andare subito e per sempre
E per loro che avevano sul groppone anche il trasloco, la nuova casa, il nuovo lavoro e mille cose, gestire un’ameba asociale e completamente fuori controllo diventava sempre più frustrante. La scuola li chiamava tutti i giorni, dovevano farmi da scorta per assicurarsi che almeno mi presentassi in aula, dovevano firmare pagine e pagine di note, assenze e ritardi veramente ingiustificabili, di cose importanti da solo non ne potevo fare nemmeno una perché intanto in italiano non volevo spiaccicare nemmeno un “ciao”, passavano giornate intere a non avere notizie di me e mi dovevano sempre recuperare a orari completamente sconsiderati in qualche parte sconosciuta di Milano in cui mi andavo a infilare, ringraziando pure che ero ancora vivo. La sopportazione di mio padre era appesa a un filo, quella di mia madre già andata da tempo, una sera abbiamo litigato, lei mi ha detto una cosa tipo “è inutile che fai così, tanto non ci torniamo più, questa è la nostra vita ora, sbrigati ad accettarlo perché così non si va avanti” e quello per me è stata la rottura completa, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Avevo capito che la mia tecnica non aveva funzionato e che loro non sarebbero mai effettivamente tornati a vivere in Germania, quello è stato il punto di non ritorno, allora ho preso la mia decisione: se non mi ci avessero portato loro, ci sarei tornato da solo a Colonia. Il giorno dopo ho fatto il mio zaino, ho lasciato il cellulare a casa, sono andato a fare la mia fallimentare giornata scolastica, poi ho preso la metro e sono andato in stazione centrale, ho fatto un biglietto per Colonia e sono salito in treno…»
«Sei andato da solo in Germania a tredici anni?» chiedo, al limite dello shock.
«Sì, ecco, il mio piano perfetto aveva solo un difetto: quello era il giorno in cui dovevo fare la carta d’identità, quindi mia madre mi stava aspettando fuori da scuola. Appena ha iniziato a tartassarmi di chiamate, mio padre ha trovato il mio telefono abbandonato sulla scrivania e hanno subito capito. Papà si è messo proprio in mezzo alla porta del treno che si stava chiudendo per evitare che partisse. E vorrei ben vedere, il tuo unico figlio, minorenne, è da solo su un treno che lo sta per portare a ottocento chilometri da te, si sarebbe direttamente buttato sotto la locomotiva se necessario… Saremo stati almeno venti minuti a litigare, i miei e il personale del treno che mi strattonavano per farmi scendere, io che sono rimasto fermo immobile perché dovevo partire. Per trascinarmi giù dal vagone è dovuta intervenire la Polfer, perché, in un momento di rabbia cieca, potrei aver leggermente perso il controllo, azzannando mia madre, sputando al capotreno e tirando una testata di Cristo allo sterno di uno dei controllori, un miracolo che nessuno abbia sporto denuncia. Mi hanno dovuto tenere bloccato per evitare che tornassi sul treno e… a una certa, giustamente è partito, aveva già fatto un ritardo clamoroso a causa mia. Anche quel momento l’ho vissuto particolarmente male, quella che vedevo come l’unica e ultima occasione che avevo per tornare a casa era appena partita davanti ai miei occhi e non avevo modo per fermarla. Avevo appena perso l’ultima briciola di speranza che mi rimaneva, mi si è aperta la terra sotto i piedi, mi sono lasciato cadere in ginocchio e ho pianto le lacrime più dolorose di tutta la mia vita.
Mia madre voleva già farmi vedere da qualcuno, ma mio padre non so bene, non era convinto, pensava che bastasse un po’ di tempo per farmi abituare. Tutto quell’episodio gli ha fatto cliccare qualcosa, ha capito che… che non erano solo tipo capricci, che stavo male sul serio, allora si sono messi d’accordo e mi hanno mandato in terapia. E la bocciatura… beh, più che meritata, è da ricondurre a tutte le assenze, alle note e ai voti mai stati diversi da “non classificabile”» conclude e spegne il mozzicone nel posacenere. 
«Wow» riesco solo a esalare.
«Sono ancora la persona meno problematica che conosci?» mi chiede, sarcastico.
«Dovrei pensarci…» mormoro. Certo, sarebbe problematico in tutt’altra maniera rispetto a quello a cui sono abituato io, però devo dire che si è impegnato. Lo guardo negli occhi e faccio davvero molta fatica a immaginarmelo sputare a un capotreno, o rifiutarsi di rispondere alle domande di un insegnante.
«Comunque tranquillo. Questa volta sono abbastanza sicuro che non avrò problemi a salire sul volo di ritorno» mi rassicura.
«Oh, beh, con me non hai di che preoccuparti, i tuoi si sono sforzati tanto, io non riuscirei a spostarti nemmeno di un millimetro e ti lascerei a Colonia senza pensarci troppo.»
«Ora sono un bambino grande, so cavarmela da solo»
«Un bambino grande rimane pur sempre un bambino» preciso, facendolo ridere.
«Sono cambiato» asserisce, drammatico, con una mano sul cuore.
«Ci mancherebbe altro» commento.
«Ai tempi non avevo ancora la barba»
«Boh, io speravo che mi dicessi “ora non aggredisco più le autorità ferroviarie”, però come vuoi tu, eh…». Ridacchia e, allora, anch’io accenno a un sorriso. Ho troppe domande per la testa, ma stringo le labbra per stare zitto perché non vorrei sembrare invadente; rimango a osservarlo, ancora piuttosto in difficoltà nell’associare questo informatico gattaro a un adolescente complessato pronto a scappare di casa e ad attraversarsi metà Europa per tornare alla sua vita. Anche perché nell’unica volta in cui siamo stati a Milano assieme è stato relativamente tranquillo e il rapporto con i suoi genitori mi è sembrato decisamente più pacifico di quello che ho io coi miei. Boh, evidentemente nel suo caso la psicanalisi ha fatto miracoli.
«Ti vedo un po’ sconvolto» mi dice, con un sorrisetto. Mi prenda pure in giro, ma io sconvolto lo sono sul serio.
«Più che altro non capisco come riesci a parlarne così tranquillamente come se mi avessi raccontato cos’hai fatto ieri a lavoro…»
«Ah, quelli sono gli altri otto anni di terapia dopo i tre iniziali»
«Ecco! Ma che cavolo, Jaco, vuoi anche dirmi che sei stato vittima di crimini di guerra!?» esclamo, in totale overload di informazioni.
«Guarda che non c’è nulla di male ad andare in terapia, è come andare da un fisioterapista per il male alla schiena, solo che invece che darti gli antinfiammatori per la sciatica, ti ascolta un’ora alla settimana e ti aggiusta le rotelle del cervello»
«Lo so che non c’è niente di male ad andare in terapia, semplicemente essendo cose delicate, mi aspetto un tono di voce e una… situazione diversi dal “a me piace la pizza al prosciutto”!».
Fa spallucce, poi si gratta il mento e ridacchia. «Non vado mica a dire a tutti che sono in terapia da più di un decennio e che quella col mio analista è la relazione più duratura della mia vita. Lo dico a te perché mi sento a mio agio e tranquillo, se no non ti avrei fatto sto pippone…».
Rimango un secondo spiazzato e sbatto le palpebre un paio di volte. «Beh… questo lo apprezzo…» borbotto, lui mi sorride genuino. Mi dà un minimo di sicurezza e, non prima di essermi morso un labbro e aver distolto lo sguardo, gli chiedo: «E come… insomma… poi ti sei abituato al fatto che non saresti più tornato in Germania?»
«Oh… sì, piano piano mi sono rassegnato. A giugno mi hanno bocciato, la prima estate in Italia non ci siamo andati a Kölle, sotto consiglio del terapista, in quel periodo la situazione era ancora molto delicata, poi è iniziato il nuovo anno scolastico, ho fatto lo sforzo di parlare con qualcuno che non venisse pagato ottanta euro a seduta e… facendomi degli amici e tornando un po’ in carreggiata con la scuola, le cose hanno iniziato a migliorare. Coi miei… lasciamo perdere»
«E loro?»
«Già… già dalla scena del treno sono… sono diventati un po’ più comprensivi, penso anche che quell’episodio li avesse spaventati parecchio, avevano avuto prova di… boh, di quello che avrei potuto fare e avevano capito che chiudermi in casa, ostacolarmi e basta non sarebbe servito a nulla. Quella sera è stata la prima volta in cui mia madre mi ha abbracciato da… da quando era uscita fuori la storia del trasferimento e in cui ho visto mio padre veramente contento di avermi in casa con loro, al sicuro. Anche loro ne hanno passate tante, hanno visto il loro figlio, da un bambino… relativamente ok, diventare… un disastro problematico fuori controllo. L’anno dopo poi si sono pure separati, io sono di nuovo un po’ sprofondato, tra loro non si parlavano, quindi è stata una situazione difficile anche quella…»
«Si sono separati? Davvero?»
«Sì, mentre io facevo la mia seconda terza media… poi in realtà non è che volevano proprio divorziare, era solo il periodo che risucchiava ogni briciolo di energia che avevano e la frustrazione e lo stress li hanno fatti scoppiare. Dopo qualche mese, si sono dovuti mettere al tavolo e parlare e alla fine hanno… “fatto pace”, diciamo.»
«C’eri anche tu?»
«Ma va, non l’avrebbero mai fatto, io ero distrutto tra il trasferimento e la loro separazione, la mia presenza non avrebbe fatto che peggiorare la situazione.» risponde. «Ho passato praticamente tutta la mia adolescenza a sentirmi tanto tradito e… arrabbiato con loro per quello che mi avevano fatto… ma in realtà si sono impegnati tanto entrambi a tenerci uniti e a tenermi in piedi, non li ringrazierò mai abbastanza per quello che hanno fatto per me, anche se non ho mai cercato di rendere la loro vita più facile. Ero una peste.»
«Il tatuaggio fa parte del tuo delirio di ribellione?» continuo, sentendo che nella mia testa qualche puntino inizia a collegarsi.
«Oh, yes, te l’ho detto, me ne sono pentito il giorno dopo e ancora di più quando mio padre l’ha visto e ha usato tutta la sua pazienza per non corcarmi di botte. Nello stesso periodo, tra l’altro, mi avevano pure sgamato che avevo iniziato a fumare, anche lì un altro dramma, in camera mia iniziavano a girare i primi preservativi, quando sono andato a Kölle a casa di un amico non mi hanno sentito mezza volta in una settimana, anche quell’anno non sapevano più dove sbattere la testa». Mi scappa una risata a immaginarmi uno Jaco sbarbato e ribelle. Anche se un po’ mi sento in colpa, lui non me la fa pesare, aggiungendo: «Guarda che non è che vado in crisi post-traumatica a parlarne, eh, so gestire i miei problemi»
«Ah, ecco, sì, forse è questo. Io non so affrontare i miei, quindi nella mia testa, nessuno può farlo»
«Su di te ci sarebbero da scrivere pagine e pagine di trattati di psicologia»
«Ma senti chi parla!» sbotto, mettendo su un’espressione offesa. Ride, io gli tiro un pugnetto sulla coscia e lui si vendica con una pacca sul braccio. «Ti prego, non tirarmi una testata, altrimenti mi ammazzi davvero!» esclamo, ironico. Non troppo, se ben tirata, una sua testata riuscirebbe tranquillamente a sfondarmi qualche osso e a bucare degli organi vitali.
«Oh, no, per carità, nonostante tutto non avrei mai più tirato una testata a nessuno, tra un po’ mi spaccavo la testa. Quel povero cristiano è dovuto andare a sedersi tranquillo e lontano da… dal casino che stavamo facendo perché ha detto che gli avevo tolto l’aria dai polmoni»
«Eri un gigante già ai tempi o ti dovevano ancora scendere le palle?»
«Stava appena iniziando la pubertà…»
«Uh… sì, pessimo momento per trasferirsi…» commento.
«Te l’ho detto» conferma. Si perde a osservare il cielo, io sto ancora cercando di fare mente locale di tutte le cose che mi ha detto. Non riesco bene a immedesimarmi in lui, forse perché mi sono sempre sentito intrappolato, ho sempre vissuto questo posto come una prigione e ogni giorno spero sia quello buono per scappare e non voltarmi indietro, mentre lui fa di tutto per riuscire a non tornare da dove viene e a non farsi mangiare vivo dalla nostalgia di casa; ha un senso di appartenenza così forte che per me, che non ne ho nemmeno un briciolo, risulta davvero complesso empatizzare. 
«I tuoi amici tedeschi li hai più sentiti?» domando.
«Li sento tutti i giorni, siamo rimasti amici» risponde. «Ci sentivamo sempre, facevamo videochiamate, ogni volta che tornavo in Germania ci vedevamo, abbiamo fatto anche vacanze assieme qui in Italia… mi ero trasferito, non ero mica morto…»
«Sì, ma loro erano tutti insieme, tu a ottocento chilometri»
«Non mi ha impedito di farmi sentire ogni volta che potevo» ribatte, scuotendo le spalle.
«Quando andiamo a Colonia li vedrai?»
«Certo che sì, già li vedo poco, ci manca solo che perda le occasioni per farlo»
«Spera per te che parlino in inglese, perché ti ricordo che io di tedesco so solo “eins, zwei, Polizei” e non è una risposta valida al “come ti chiami”»
«Non ti preoccupare, Madonna, quanto sei ansiogeno… anche più di me»
«Non mi pare corretto insultarmi così»
«Theo si sta specializzando in neurochirurgia, magari riesce a metterti a posto qualcosa qui dentro» mi provoca, picchiettandomi sulla fronte. 
«Passare del tempo con te è come camminare in un campo minato della psicanalisi, ogni persona che conosci è un cazzo di strizzacervelli» brontolo. 
«La sua tipa storica è pure una psichiatra…»
«Avvalori soltanto la mia tesi» commento. Non è possibile proprio. Sua madre, il suo amico tedesco, la ragazza dell’amico tedesco, veramente non c’è un minuto di pace. Ridacchia, io scuoto la testa. Il suo umore sembra migliorato rispetto a prima, ma comunque rimane ancora un po’ strano. Mi maledico da solo per aver anche solo pensato alla cosa che sto per fare, mi alzo e mi piazzo proprio davanti alla sua sedia, lui mi guarda un po’ spaesato. Sospiro accettando passivamente il mio destino, gli do la schiena e mi siedo su di lui, sentendo le sue braccia circondarmi la vita. Mi stringe a sé e appoggia il mento sulla mia spalla.
«Da dove esce questo sprint di affetto?» mi chiede. 
«Quando io ero triste tu mi hai consolato…» brontolo. «Mi tocca ricambiare»
«Ma io non sono triste» osserva. E il fatto che lui e la mia coscienza siano d’accordo mi dà estremamente fastidio, ma cerco di zittire tutti quanti: la mia coscienza con un insulto mentale, lui con l’indice alzato proprio davanti al suo viso.
«Accetta e basta» asserisco, secco.
«Se volevi un abbraccio bastava dirlo» ribatte, portando un braccio attorno al mio petto e stringendomi ancora di più. Roteo gli occhi al cielo e odio la sottospecie di orsetto di peluche che sono diventato.
«Non voglio un abbraccio e soprattutto non voglio essere strangolato, pitone maledetto che non sei altro» bofonchio, appoggiando una mano sul suo avambraccio, ma non facendo effettivamente nulla per liberarmene. Lo sento ridacchiare, poi mi scuote un po’ a destra, un po’ a sinistra, io completamente pentito di questo passo falso. Mai dare affetto a Jaco, non mi lascerà andare mai più. «Jaco, per la miseria!» sbotto, provando ad alzarmi quando lui si sposta e la sedia fa un rumore non proprio rassicurante.
«Guarda che sono resistenti» mi dice, tenendomi fermo contro di lui.
«Sì, resistenti alle persone, non agli ippopotami!» continuo, sentendolo ridere contro la mia spalla. Non so bene da dove mi sia uscita l’idea di accarezzargli il braccio, ma ormai ho già iniziato, rimango in silenzio, indeciso se essere triste per tutte le cose che gli sono capitate, o felice che si sia confidato. Mi appoggio contro il suo petto, sibilando un sospiro di pace, sento ancora il suo mento sulla spalla, la sua barba contro il collo. «Grazie per avermelo raccontato» mormoro, continuando a fare su e giù con la mano sul suo avambraccio, i peli che seguono la direzione dei miei gesti.
«Era giusto che tu lo sapessi» mi risponde. Accenno a un sorriso, mentre qualcosa mi si scioglie nello stomaco. Si è aperto. Con me. Il velo sui suoi occhi non mi sembra più così spesso com’era prima.

  
   
 
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