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Autore: Glenda    29/05/2023    2 recensioni
Firenze, primi duemila.
Artin ha trent'anni e già sa di vivere in un mondo ostile: padre in galera, madre in ospedale, lavoro intermittente e tre fratelli da mantenere, barcamenandosi ogni giorno tra assistenti sociali, bollette e microcriminalità dei quartieri popolari. Finché, il giorno in cui pensa di non farcela proprio più, un misterioso uomo che gli somiglia come un gemello gli propone un patto terrificante...
Questa è una storia d'ambientazione realistica ma dal tono magico-fiabesco, che riprende il filone tradizionale del principe e il povero e degli scambi di identità: ci sono protagonisti eroici, ottimismo, redenzioni inaspettate, gentilezza come se piovesse, e i miracoli accadono. Anche se lo sfondo è cupo. Anche se il mondo è pieno di falsità, macchinazioni, apparenze e ferocia nascosta.
Dunque astenersi i non amanti dei buoni sentimenti.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Proteggi i nostri figli puri nella vita quotidiana
e salvali dall'odio e dal potere
come il primo giorno come nella fantasia
occhi azzurri per vedere

 

(Antonello Venditti)

 

Capitolo 13

 

Ieri è morto mio padre, ed io non provo nulla.

Ho deciso di scriverlo perché devo dirlo, e dirlo non sta bene. Mia madre sta piangendo tutte le sue lacrime e mi ha urlato contro di stare zitto, di non farla vergognare.

Non provo nulla, ma forse questo vuoto è solo un nascondiglio: un nascondiglio del mio vero sentimento, che non so definire, ma deve somigliare a quando, in trincea, ti passa vicino un colpo, e ti manca.

Ieri notte, quando ci siamo svegliati, quando ho visto la finestra aperta, e mia madre che gridava di non venire, di non guardare, io mi sono sentito un sopravvissuto. E mi sono affacciato, ed ho guardato, e ho pensato che aveva fatto bene. Che finalmente aveva fatto qualcosa per noi.

Sono crudele? Non lo so. Ma vedere mio padre morto è stata una sensazione spaventosamente liberatoria, come quando guarisci da un malattia, come quando finisce un lungo stillicidio.

Non mi sento in colpa: lui era un bastardo. Lui era un grandissimo, fottuto, maledetto figlio di puttana, che sfogava il suo male su di noi. Non m'importa un cazzo di quel che diceva mia madre: che soffriva, che non era colpa sua; non m'importa di quando si scusava piangendo e blaterava che aveva il diavolo dentro. Quello che mi importa è che lui è morto ed io sono vivo. Nessuno mi romperà più il naso, niente più lividi, niente più paura che un giorno non riesca a fermarsi e mi ammazzi. Mai più le urla di mia madre e il suo viso tumefatto. Mai più dover raccontare ad un medico complice che sono caduto mentre facevo un gioco troppo avventuroso.

Siamo liberi. E lei piange? Perché accidenti piange? Dovrebbe essere almeno contenta per suo figlio, che non avrà più paura, che non sarà più in pericolo. Invece mi grida di non aprire bocca, di smettere di parlare così di mio padre, dell'uomo che mi ha messo al mondo.

Non l'ho chiesto io, di venire al mondo.

Non l'ho chiesto io, e siccome mi ci avete portato voi, era vostro dovere cercare di offrirmi la migliore vita possibile. Ma per voi la migliore vita possibile è quella che si vede, non quella che si vive.

Vi odio.

No, vorrei odiarvi. Vorrei provare così tanta rabbia da trasformarmi in fuoco, in tempesta, in vulcano. Invece provo solo la consapevolezza di non provare. Mi sento atrofizzato.

Vorrei aver odiato così forte, così forte, da averlo ucciso io.

 

I patetici funerali del giudice Bernardo Avanzini.

La chiesa traboccante di gente, il parroco che elogia la sua virtù morale e la sua integrità, le persone che abbracciano mia madre, ricordano che uomo meraviglioso era e portano corone di fiori sproporzionate.

Poveri fiori.

Strappati alla vita per celebrare la morte, come vittime sacrificali.

Mio padre, quando perdeva la testa e picchiava mia madre fino quasi a spezzarle le ossa, il giorno dopo le portava fiori, e le diceva di perdonarlo perché era malato. Io ho sempre pensato che fosse solo semplicemente cattivo. Un malato avrebbe cercato di farsi curare anziché togliere la vita a dozzine di rose rosse, ma lui non voleva, perché nessuno fuori di noi doveva venire a sapere che non era l'uomo perfetto che tutti credevano. La sua rispettabilità era più importante della sua famiglia e non solo, era così radicata in lui che il pensiero che il parere di un medico lo rendesse meno perfetto a sé stesso gli era insopportabile. Il suo senso di colpa era falso come tutta la sua persona, come sono falsi i suoi amici e come è stato falso il suo funerale.

Ma mia madre sembra che soffra davvero, ed io non le capisco. Non capisco, soprattutto, se la sofferenza abbia a che fare con la perdita o con l'abitudine a mostrare il dolore di fronte ad una perdita, perché è così che le hanno insegnato a fare.

Anche io fingo: metto su la mia faccia da poker e il mio sorriso d'ordinanza, che ho imparato a indossare alle feste di famiglia. Mi riesce bene, perché tutte le mie sensazioni sono come anestetizzate. Forse non sono capace di vera sofferenza o di vera rabbia o di vero odio, così come non sono capace di essere felice.

Ho quattordici anni e non sono mai stato felice.

Mi si potrebbe obiettare come faccio a sostenerlo, se non conosco in che consiste la felicità. Rispondo che lo so e basta. So anche che mia madre non è mai stata felice e che quasi tutta la gente presente al funerale non era triste. Perché i sentimenti si vedono: io ho imparato a vederli, e so che ce ne sono alcuni che non si possono in alcun modo mistificare. Uno di questi è la felicità. Non l'ho mai vista sul mio viso. Non l'ho mai vista su quello di mia madre. Ma l'ho vista: altrove, in giro, negli occhi di un compagno di classe, o in quelli della mia vicina quando le hanno regalato il gatto.

Anche io lo avrei voluto, un gatto: mia madre non me lo ha mai preso perché non vuole animali in casa. Per mia madre le piante sono la sola forma di vita, oltre alla gente della sua stessa classe sociale, che può essere ammessa alla sua presenza. Ho cercato di vedere in questo una potenziale forma d'amore, e mi sono affezionato alle piante come viatico per affezionarmi a lei.

Ma non ha funzionato.

Mio padre si è ucciso. Non avrebbe neppure dovuto avere un funerale cattolico. Poi, detto tra noi, non era nemmeno credente. È stato Vittorio ad insabbiare tutto, perché nessuno sapesse che il giudice dalla vita perfetta era morto suicida. Troppa vergogna… come se ad uno che s'ammazza ne potesse davvero fregare qualcosa.

In questo modo, mia madre resterà la vedova compianta di un uomo ineccepibile e tutti si rammaricheranno del terribile incidente. Bisogna essere deficienti parecchio per cadere da una finestra per sbaglio! Ma a questa gente non interessa la verità, e forse l'unico a cui poteva davvero interessare era proprio il giudice, che magari sperava di espiare con la morte le crudeltà che ha fatto in vita. Non gli è stato permesso, perché nel mio mondo anche la morte è una farsa.

Beh, almeno per lui, stavolta la farsa è finita.

 

Volevo andare alla scuola pubblica. Una volta l'ho persino detto, ma mia madre è bravissima a parlare mentre gli altri parlano: è il suo alibi per non sentire ciò che non le piace.

Volevo andare alla scuola pubblica non per ribellione adolescenziale da ragazzino ricco, ma solo perché nessuno mi avrebbe conosciuto e non sarei stato il figlio del giudice Avanzini – pace all'anima sua – e di quella santa donna di Serena Landi che presidia a tutte le attività mondane, benefiche e bigotte dell'intera provincia.

Io non posso permettermi di essere un adolescente rompipalle. Io sono un bravo ragazzo per partito preso. Nessun insegnante si sognerebbe di riprendere me.

Ma siccome non amo sostenere teorie non supportate da dati, ho fatto un esperimento. Ieri ho rubato. Ho preso il cellulare di quel fighetto idiota di Duccio Cecchi e l'ho nascosto nel mio zaino. So come vanno queste cose: ad un certo punto il professore ci ha obbligati a svuotare il contenuto di tutte le borse sui banchi, e la refurtiva è venuta fuori. È bastato il mio timido “Ma no, non è possibile, non sono stato io, perché avrei dovuto farlo?” che mi hanno subito creduto. Elia Avanzini non può essere niente altro che lo studente perfetto. Ed io posso approfittarne: posso ottenere quello che voglio essendo disonesto, manipolando gli altri, fingendo, ingannando. Posso arrivare quasi dove voglio, e la gente mi spianerà la strada. L'unica cosa che non posso fare è dire la verità.

Questo sarà il quaderno della verità.

 

All'esame di maturità, mi hanno chiesto Il Fu Mattia Pascal, “lo strappo nel cielo di carta”. Cosa succederebbe alle marionette di un teatrino di cartapesta se d'un tratto qualcosa bucasse il cielo? Probabilmente resterebbero lì, piene di dubbi, incapaci di portare a compimento la rappresentazione della propria vita: metafora pirandelliana della sensibilità novecentesca.

Vorrei che il mondo di mia madre, le sue cene di beneficenza, le sue serate con la gente che conta e la sua bella faccia da donna di chiesa che sostiene la comunità venissero spazzati via dal vento che passa attraverso lo strappo; vorrei che la bontà affettata di Vittorio, il suo comportarsi da padre surrogato, la sua gentilezza ad ogni costo, rimanessero congelate, a testa in su, a guardare.

Lo strappo nel cielo non è dramma, è salvezza. Non è tragedia, è opportunità.

Vorrei essere lo strappo nel cielo.

Vorrei diventare strappo.

 

Se questo è il quaderno della verità, allora è anche il quaderno di Olivia, perché lei è stata sempre vera, con me. Sono stato io a non esserlo, ma ciò che non era scontato era che lei lo accettasse, pur sapendolo. Con lei avevo sperato di poter imparare ad essere felice, ma non sono persona che persevera nel coltivare illusioni.

L'ho conosciuta perché faceva le pulizie in banca. Mi attardo spesso sul lavoro, senza ragioni particolari, a volte solo perché mi piace sentire il silenzio di uno spazio che è vuoto perché la gente se n'è andata. Casa mia è diversa: casa mia è vuota perché è vuota.

Mettevo Olivia in difficoltà occupando l'ufficio fino a tardi, e lei non osava disturbare. Abbiamo cominciato a parlare così; le facevo compagnia, mi trattenevo volentieri, quella dimensione mi era così estranea che era una parentesi nella noia.

Ma non credo che avremmo cominciato a frequentarci se non mi avesse detto di suo marito. Era finita in tribunale per averlo colpito con un piatto sulla testa, perché lui picchiava loro figlia. Alla fine, avevano dato ragione a lei. La trovavo eroica: una ragazzetta alta un metro e sessata, tutta ossa, che sollevava secchi e elettrodomestici più grossi di lei e cacciava il marito di casa a suon di botte. Ho pensato che se avessi avuto una madre così, la mia vita sarebbe stata tutta diversa, e che sua figlia era proprio fortunata.

È stata la mia prima donna, la prima con cui ho fatto l'amore, la prima per cui il corpo e la mente sembravano andare nella stessa direzione. Mi sono spaventato.

Con lei, non avevo la situazione sotto controllo, ed ho avuto paura di ciò che sarei potuto diventare privato del controllo di me. Ho avuto paura di mio padre, che non sapeva tenere a freno se stesso. Ho avuto paura del mio desiderio di ferire, distruggere, fare a pezzi le cose.

Ho fatto a pezzi un bicchiere di cristallo, davanti a Vittorio. Volevo fare a pezzi lui e il suo tavolino ben ordinato e quello sguardo immobile che invece di rassicurarmi, mi confermava nelle mie angosce.

Volevo fare a pezzi la mia vita, ma le schegge avrebbero colpito anche lei.

 

I miei giorni migliori sono stati quando ho chiuso la mia vita in casa e me ne sono andato senza portarla con me. Un mese intero, di cui non c'è traccia in queste pagine, perché quando si sta bene non si scrive. Scrivere – dice un poeta – è l'indizio d'un imperfezione.

Non ho avvertito nessuno, ho preso ferie ed ho detto che sarei partito per un tour dell'America del nord. Invece sono andato in stazione ed ho preso un treno per Torre del Lago, un posto che mi piaceva perché, con i miei compagni di liceo, ci ero andato a buttare il sale in mare, ai cento giorni.

Quella fu una delle giornate più oneste della mia vita: sulla spiaggia c'erano un sacco di altri ragazzi, gente che non sapeva nulla di me e neppure gli importava; ho scritto il voto sulla sabbia, ho gettato il sale, ho aspettato l'onda… ma non me ne fregava niente di quel voto. Non mi fregava niente dei mesi di studio che mi aspettavano: per me non era come per gli altri, per me non cambiava niente, la mia vita prima e dopo quel momento, o prima e dopo la maturità, non sarebbe cambiata. Ma quel giorno sì, quello cambiava. Nell'ebrezza del rito, del sole e della salsedine, eravamo davvero tutti stupidi ragazzi pieni di brufoli ed ormoni, che turbavano la quiete di una cittadina di mare, ed io mi sentivo nudo, proprio come se mi avessero tolto la maschera e mi avessero lasciato in mutande. La sensazione più simile alla libertà che io ricordi. Uno di noi aveva portato lo stereo con le casse; ascoltavamo i Pink Floyd, i Queen e Guccini e le immancabili parole cantate da migliaia di maturandi: questa notte è ancora nostra.

Come avrei voluto che fosse vero: un istante della vita ancora mio, mio, mio. Ma non mio soltanto. Un istante della vita mio e di una folla anonima che si sente parte della stessa cosa con me.

Ho lasciato le carte di credito a casa, ho affittato una stanza da un affittacamere, ho immaginato di dovermi cercare un lavoro, l'ho trovato, ed ho fatto il commesso stagionale in un bazaar sulla spiaggia, vendendo libri di dubbio gusto e occhiali da sole da checca a coppie gay che si tenevano per mano.

Poi Vittorio mi ha trovato. Anzi, mi ha fatto trovare. Come aveva fatto con Olivia. Si è giustificato dicendo che non riusciva a capire come mai mi fossi reso irreperibile ed era preoccupato e la sua preoccupazione si è fatta violenza, persecuzione, furto.

Ho abbandonato la mia vacanza, sono tornato a Firenze e ho dato le dimissioni.

Vittorio le ha buttate nel cestino, ed ha di nuovo tirato fuori mia madre, e il dispiacere che le davo, e quanti dispiaceri aveva già sopportato.

Con che coraggio? Con che faccia tosta?

Sarebbe bastato un suo gesto, uno solo, e quei dispiaceri avrebbe potuto impedirli!

Sarebbe bastato chiedersi, ogni volta che veniva da noi e sedeva a giocare a scacchi insieme al suo “migliore amico”, come mai alla donna che gli portava il tè tremassero le mani!

Sarebbe bastato porsi il dubbio che un bambino in salute non potesse cadere o ferirsi così spesso.

Ho desiderato di nuovo che s'arrabbiasse, ho desiderato sentirlo gridare almeno una volta. Ho desiderato poter litigare con lui, davvero: invece ho litigato da solo. Di nuovo.

Litigare da soli è terribile.

Così ho deciso di smettere. Ho deciso che non serviva più.

Ho lasciato che la mia vita andasse come avevano deciso che sarebbe andata. Il cielo di carta era troppo, incredibilmente in alto perché qualcuno lo rompesse, ed io non ci arrivavo.

Vittorio avrà pensato d'essere stato bravo a convincermi, con la sua calma e la sua pazienza.

Vittorio avrà pensato di aver fatto il mio bene, un'altra volta.

Vittorio non saprà mai quanto tutto questo faccia male.

 

Mia madre è malata: la diagnosi non lascia molte speranze, la malattia avanza velocemente e ogni giorno potrebbe essere l'ultimo in cui ricorda il mio nome. La buona norma dice che adesso dovrei sentirmi triste, e provare pena per lei, invece la sola cosa che riesco a pensare è che la malattia l'ha resa una persona migliore. Per quattordici anni ha lasciato che suo marito la torturasse e che picchiasse suo figlio sotto i suoi occhi, e non ha mai fatto niente. Non ha voluto difendermi: tra lui e me ha scelto lui, e solo perché scegliere lui voleva dire restare la rispettabile donna del rispettabile giudice; scegliere me significava confessare che il giudice non era così rispettabile e, chissà come, le pareva che questo portasse a fondo anche lei. A volte penso che potevamo salvarci, che io potevo essere diverso, che avevo una possibilità: ma ci sarebbe voluto lo strappo nel cielo – uno strappo, anche piccolo, che permettesse di far fermare Oreste a guardare su, senza più le sue belle certezze, ma forse con una nuova opportunità, con la chance di non essere Oreste per sempre, di non doversi vendicare per sempre.

Io vorrei non essere Elia Avanzini per sempre.

Vittorio prova i sentimenti che non provo io: vede mia madre sbiadire, e vorrebbe poterla trattenere.

Ma non lo fa.

Vittorio non ha mai allungato una mano per trattenere nessuno, perché per farlo bisogna saper gridare.

Vittorio, non sai che mia madre è un'infelice, che lo era anche prima, e che la malattia stempera la sua infelicità in una nebbia densa dove tutte le emozioni durano solo per pochi secondi? Non è preferibile un'infelicità di pochi secondi all'infelicità di una vita?

Forse tu avresti potuto aprire lo strappo: avresti potuto amarla, per esempio. Ma non lo hai fatto. Perché per amare lei avresti dovuto riconoscere che il tuo migliore amico era il bastardo che era, perché non si costruisce amore su fondamenta di non detto.

Cosa pensavi di Bernardo Avanzini? Ho provato a chiedertelo, quella volta che mi sono arrabbiato con te, quella volta che ho rovesciato un bicchiere di champagne, e le persone si sono girate, e tu ti sei sentito in imbarazzo. Te l'ho chiesto, e non hai capito, o non hai voluto capire.

Ti ho chiesto di difenderlo o di ripudiarlo. Non hai fatto né una cosa né l'altra.

Ma non parlando hai parlato: hai riconfermato la sua presenza tra me e te, definitiva, immensa, come lo è sempre stata. Io non sono tuo amico: tu sei amico del “grande giudice”. Ma non sono neanche tuo figlio, perché, ohimè, sono figlio suo.

Cosa vuoi ancora dalla mia vita, se non riesci nemmeno a lasciarmi gridare?

Se qualcuno mi avesse insegnato a gridare, forse sarei un po' più onesto e un po' meno infelice.

Invece, io che volevo essere strappo, io che volevo essere fuoco e vulcano, sono rimasto intrappolato nella mia vita. Sono diventato il figlio che mia madre voleva. Sono diventato l'uomo d'affari che Vittorio voleva. A volte vorrei morire, per rinascere sotto un cielo strappato.

 

Oggi sono diventato amministratore delegato della ***. Giorno di gloria per Vittorio De Nistri, che ha portato il suo pupillo fino alla vetta. Giorno di felicitazioni, strette di mano, regali che sottintendono promesse per il futuro, o timore di una minaccia.

Io sono una minaccia. Voglio esserlo. Voglio essere cattivo.

Ma la gente sorride a Elia Avanzini, l'imprenditore più giovane sulla piazza, brillante, versatile, invincibile, sempre sulla cresta dell'onda, e muore dalla voglia di ricevere considerazione da lui.

A volte mi domando cosa sanno davvero di me. Se, dietro quei sorrisi ossequiosi, sono consapevoli di cosa sono io, di cosa ho fatto o potrei fare, di quanto la vita di ognuno di loro per me conti meno di una cicca di sigaretta schiacciata sulla strada, di quanto li trovi inutili e insignificanti, di quanto la loro civetteria non mi tocchi, di come la loro meschinità non mi sfiori.

Se sanno che avrei voluto spingere io mio padre giù dalla finestra.

Me lo domando e vorrei rispondermi che no, non lo sanno, e semplicemente sorridono per essere gentili.

Lo vorrei, perché mi farebbe pensare per una volta che nel mondo c'è speranza. Che io ho speranza. Ma so che non è così. Siamo animali fatti d'istinto di sopravvivenza, e sappiamo percepire benissimo cosa c'è di perverso nell'altro e da cosa ci si deve difendere. Abbiamo solo imparato che non sta bene dirlo.

Così, io so che la gente che incrocio ogni giorno si guarda da me, e sente la distorsione che ho addosso.

Ma quando sarò morto, sarò un uomo meraviglioso, di cui tutti tesseranno le lodi, e che tutti piangeranno.

Come mio padre, che tutti lo stimavano, e nessuno sapeva.

 

Vittorio: come potevi non sapere?

  
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