Quando scesero dall’automobile, Theresa rabbrividì. Odiava il freddo, non soltanto quello intenso, ma anche il tanto apprezzato fresco delle colline.
«Scusa» domandò a Samuel, «Dobbiamo fermarci qui?» Gli indicò uno stabile vecchio, le cui facciate non venivano verniciate ormai da decenni, data l’apparenza. «È questo il famoso bel posto che mi avevi promesso?»
Dentro di sé lo sapeva: non avrebbe dovuto lamentarsi, dal momento che, per la prima volta da quando si conoscevano, Samuel l’aveva invitata a seguirlo da qualche parte per una vacanza, seppure breve. Era molto probabile che l’uomo dei suoi sogni non si rendesse nemmeno conto di quanto quel luogo fosse squallido e che lo ritenesse di proprio gusto.
In ogni caso, si affrettò a ricordarle: «Non ti ho detto che il posto sarebbe stato bello. Ho detto che lo speravo. Inoltre non sappiamo ancora come sia, dentro. Magari è accogliente.»
«Lo spero» borbottò Theresa, tra i denti, «Perché non vedo quali alternative ci siano a una stanza da letto calda.»
Quel pensiero la rincuorò.
Tra quattro pareti, sapeva come far piegare Samuel alle sue volontà. Se si erano allontanati così tanto, negli ultimi tempi, era soltanto perché tra di loro non c’erano mai stati momenti di intimità. Tutto sommato non importava niente se erano dalle parti in cui quella dannatissima Marissa Flint aveva vissuto e se Samuel aveva affittato una camera in un luogo così fatiscente.
Stava per dirigersi verso la porta d’ingresso, quando lui la trattenne.
«Spero che non ti dispiaccia. Quando ho prenotato, come nome ho dato “Silver”.»
Theresa si girò verso di lui, spalancando gli occhi.
«Perché?»
Samuel sorrise.
«Mi piaceva l’idea di prenotare a nome tuo. Ero convinto che ti avrebbe fatto piacere, che ti avrebbe fatta sentire importante...»
Theresa sbuffò.
“Quante scuse assurde.”
Per quanto Samuel fosse poco credibile, si sforzò di non perdere la calma. Non poteva permettersi di rovinare il loro weekend insieme, quello in cui si sarebbe impegnata per riconquistarlo e per fargli dimenticare la povera Kay.
«Va bene, va bene» mormorò, in fretta, sperando che Samuel non aggiungesse altro in proposito. Si avviò verso l’entrata, sperando che lui la seguisse. Lo intravide con la coda dell’occhio e si sentì soddisfatta. «Come facevi a conoscere l’esistenza di questo posto?»
Samuel non rispose.
Quello era un pessimo segnale.
Theresa si fermò e si girò.
«Allora?»
«Me ne hanno parlato» fu la semplice risposta di Samuel, «E poi non mi sembra così importante. Sapevo che ti avrebbe fatto piacere un weekend di vacanza e il mio solo rammarico è non averci pensato prima.»
Theresa puntualizzò: «Se eri davvero convinto che fosse meglio partire di venerdì sera, avremmo potuto aspettare la prossima settimana.»
«Rischiando che, da un giorno all’altro, le temperature si abbassassero? Ti ricordo che siamo ormai a metà settembre.»
Metà settembre.
Erano già passate quasi tre settimane dalla sera in cui Kay era morta.
Theresa fece un profondo respiro.
“È normale” cercò di convincersi. “Tanta gente muore ogni giorno.”
Il fatto che tante vite terminassero in luoghi ben diversi dalla sede di Scarlet Radio e dall’archivio che quasi tutti cercavano di evitare come la peste, negli ultimi tempi, era però talmente lampante da rendere impossibile qualunque forma di conforto.
Inoltre faceva già freddo e le parole di Samuel glielo avevano ricordato.
“Non fa niente. Il suo calore mi riscalderà.”
Harriet Harrison guardò la porta mentre si apriva. I suoi occhi, poi, si posarono sui due nuovi arrivati: una donna sui... trentacinque? sì, doveva avere più o meno trentacinque anni, accompagnata da un uomo che sembrava lievemente più giovane. Dovevano essere i coniugi Silver, sempre ammesso che fossero davvero sposati e che non si fossero rifugiati in quel luogo dimenticato da Dio proprio perché si incontravano clandestinamente.
“Smettila, Harriet” si ordinò.
Non era da lei farsi film mentali sulle coppie che soggiornavano per il weekend alla locanda; d’altronde anche lei, qualche decennio prima, era stata una semplice amante, seppure fosse sempre stata convinta che in realtà Albert non avesse mai avuto una moglie, nonostante lui fosse pronto a giurarglielo, pur di rimanere fuori dalla sua vita e da quella delle sue figlie; le figlie che, volente o nolente, anche lui avrebbe dovuto accettare come proprie.
Sorrise, come aveva sempre fatto.
Sorrise e salutò.
La signora Silver borbottò un monosillabo. Non doveva essere una donna di molte parole, e nemmeno molto briosa.
L’uomo, invece - un uomo dall’aria distinta, con due stupendi occhi azzurri, notò Harriet - si mostrò subito molto più cordiale. Era etichettabile come cliente modello, non c’era dubbio, anche se in realtà qualunque cliente era perfetto, specie nel momento in cui si dirigeva verso la cassa.
Harriet chiamò la figlia.
«Suzy?»
Passò qualche istante prima che Suzanne, solitamente impegnata in cucina, sopraggiungesse.
«Sì?» Vide i Silver e capì. «Li accompagno subito nella loro stanza.»
Suzanne imboccò le scale che conducevano al piano di sopra, seguita dai due clienti. Harriet li fissò finché non furono scomparsi.
Il suo sguardo si spostò, in un secondo momento, verso l’orologio appeso alla parete. Segnava le cinque e venti.
“Che sia già ora di fare la rituale telefonata ad Albert?”
In realtà non lo chiamava così spesso e non c’erano appuntamenti precisi. Accadeva soltanto sporadicamente, quando Harriet avvertiva il desiderio di ricordargli che era lei quella che teneva in mano il coltello dalla parte del manico.
Guardò il telefono.
Stava per alzare il ricevitore, ma si trattenne. Non era il caso. Poteva farlo in un’altra occasione, quando non c’era nessuno. Nemmeno Suzanne sapeva niente di lui. Nessuno, in realtà, sapeva niente di lui. Albert Wilkerson era ufficialmente morto, Harriet non doveva mai commettere l’errore di dimenticarsene.
Finalmente erano soli. Suzy, sempre ammesso che Theresa ricordasse correttamente il nome con cui la donna più anziana che stava alla reception l’aveva chiamata, se n’era andata, dopo quello che le era sembrato un tempo quasi infinito.
La stanza era al di sotto delle aspettative, ma non importava.
Theresa andò a chiudere la porta.
«Sono felice» mormorò. «Sono felice di essere qui con te.»
Samuel sorrise.
«Anch’io.»
Il tono con cui parlò le fece venire un nodo allo stomaco.
Si sentiva persa.
Si sentiva distrutta, perché la sua voce la annientava ogni volta, dandole la spiacevole sensazione che tutto si sarebbe sgretolato a poco a poco, di nuovo, come era sempre successo.
Samuel, infatti, osservò: «È ancora presto. Che cosa ne dici di andare a fare una passeggiata fuori, prima che sia ora di cena?»
Theresa scosse la testa.
«Fa freddo.»
«Mettiti una giacca.»
«Non c’è nulla da vedere, fuori.»
Samuel non la smentì, ma Theresa non lo colse come un buon segnale. Era sicura che, se si fosse rifiutata di uscire, se ne sarebbe andato da solo.
Fu uno sforzo notevole, per lei, fingere di avere cambiato idea e acconsentire alla sua proposta.
«Tutto sommato hai ragione. Con la giacca non dovrebbe fare troppo freddo.»
Se la infilò, domandandosi quanto a lungo sarebbe continuata quella storia. Aveva ritenuto, forse troppo ingenuamente, che sarebbe stato sufficiente chiudersi nella stanza insieme a lui per annullare una volta per tutte il distacco che si era creato tra di loro, ma iniziava a pensare che fosse del tutto impossibile.
Seguì Samuel giù dalle scale, fantasticando su uno scenario alternativo, in cui lei sarebbe stata felice anche senza di lui, in cui lui sarebbe stato distrutto dal mondo che lo circondava.
Si ritrovò a sorridere.
Dopotutto non era così improbabile.
Per quanto fosse impossibile dimostrare che Kay Brooks non si era suicidata, Anthony avrebbe continuato a professare la teoria dell’omicidio perfetto. In radio c’era già qualcuno che gli credeva. Samuel era stato il primo, e quell’errore gli sarebbe stato fatale.
«Ehi, Sam.»
Lui si fermò, quando ormai mancavano pochi gradini al pianoterra.
«Samuel» la corresse.
Theresa lo ignorò.
«Mi stavo chiedendo, tu dov’eri la sera in cui Kay è morta?»
Samuel spalancò gli occhi.
«Come, scusa?»
«Ti ho chiesto» ribadì Theresa, «Dov’eri quella sera. Non ti sto accusando di niente, anche perché non vedo come qualcuno possa avere forzato quella porta...» Rifletté. «Certo, c’è Raymond che, lo sappiamo tutti, ha un passato a cui non si può essere indifferenti, ma quando la Freeman gli ha chiesto aiuto per aprire la porta dell’archivio, ha rotto la serratura. In ogni caso, anche ammettendo che a Radio Scarlet ci siano scassinatori più abili, la chiave, nella toppa, era storta. Nessuno, dal di fuori, nemmeno il più abile degli scassinatori, avrebbe potuto riuscire a fare un lavoro del genere. Quella porta è stata indubbiamente chiusa a chiave dall’interno, su questo sembrano concordare tutti. È per questo, ovviamente, che non ti sto accusando di niente.»
A Samuel sfuggì una risatina.
«Vuoi dire che, se le cose fossero andate diversamente, avresti sospettato di me?»
Theresa sospirò.
«No, Samuel, come ti viene in mente?»
Quello che desiderava, era che fossero tutto gli altri a sospettare di lui. Le sarebbe bastato, perché per una volta l’avrebbe visto in una posizione difficile.
«Non lo so» rispose lui. «Mi hai dato quest’impressione.»
«E tu» puntualizzò Theresa, «Mi hai dato l’impressione di non avere risposto alla mia domanda. Dov’eri?»
Samuel puntualizzò: «Non credo che la cosa ti interessi davvero. Quella domanda è solo il tuo modo di vendicarti.»
«Vendicarmi?» ripeté Theresa. «Per che cosa?»
«Per averti portata qua» rispose Samuel, abbassando la voce. «Dato che stiamo parlando di impressioni, mi sembra di avere capito che questo posto non ti piace.»
«Tu portami fuori a fare un giro» ribatté Theresa. «Più tardi saprò dirti se riesco a trovarci qualcosa di positivo o no.»
«Harriet.»
Una voce la fece sobbalzare.
Alzò gli occhi e sospirò, sollevata.
«John.»
Il marito di sua figlia, si faceva vedere alla locanda, di tanto in tanto. Di solito aveva l’aria spensierata, ma Harriet era convinta che, negli ultimi tempi, qualcosa lo turbasse.
“Forse non è l’unico.”
Anche lei, seppure conoscesse perfettamente la voce di John, in un primo momento si era sentita spiazzata, poco prima.
Che fosse Albert il problema? Quando non pensava a lui, estraniandosi completamente da quel passato che in certi momenti aveva davvero creduto di poter dimenticare, Harriet si sentiva molto meglio.
«Ho visto i due clienti» la informò John, rompendo il silenzio che si era venuto a creare negli ultimi istanti. «Da dove vengono?»
«Scarlet Bay.»
Harriet guardò John e lo vide sussultare.
«S-Scarlet Bay?»
Harriet sorrise.
«Qualcosa ti turba, per caso?»
John si affrettò a scuotere la testa.
«Certo che no.»
«Non ne sono del tutto convinta.» Harriet girò intorno al banco della reception, per potersi avvicinare a lui. «Scarlet Bay era la città di Kay Brooks.»
«Già.»
Il tono di John era piatto, come se per lui quel nome non avesse avuto alcun significato.
«Quella poveretta si è suicidata» puntualizzò Harriet, «O almeno così dicono. La cosa ti lascia indifferente?»
«Sì. È solo un semplice caso di omonimia.»
Harriet scosse la testa.
«C’erano le sue foto, sui giornali. Era la nostra Katherine.»
John aggrottò le sopracciglia.
«Nostra?»
«Beh, forse non è il termine migliore per definirla» ammise Harriet, «Ma non me ne viene in mente nessun altro. È praticamente cresciuta qui.»
«La Katherine che è cresciuta qui non ha nulla a che vedere con la Kay Brooks che presentava un programma alla radio» replicò John, secco. «Il tempo cambia le persone.»
Harriet rabbrividì.
John aveva ragione: il tempo cambiava le persone. Anche Albert si era trasformato in un altro, dopo quello che per lui era stato il momento della svolta.
“E anch’io.”
L’unica differenza era che per lei non c’erano stati momenti di svolta.
«Sì» ammise, «Sono d’accordo con te.» Gli indicò il corridoio che conduceva alla cucina. «Susy è di là, se vuoi andare da lei.»
«Sì, tra poco ci vado.» John abbassò lo sguardo. «Sai, Harriet, forse hai ragione: è strano.»
«Che cosa?»
«Che, poche settimane dopo la morte di Katherine...», John esitò, «...Kay Brooks» preferì definirla, «una coppia di Scarlet Bay sia venuta a passare qui il weekend. Peraltro non tutto il weekend. Sono arrivati oggi pomeriggio e se ne andranno domani, più o meno a quest’ora.»
Harriet sospirò.
«Vedi del marcio ovunque, a quanto pare.»
«Non è questione di vedere del marcio ovunque» obiettò John. «Diciamo che la loro città d’origine è un dettaglio che salta all’occhio.»
«Allora?» domandò Samuel, quando furono di ritorno. Si era fermato proprio davanti all’entrata, come se volesse una risposta prima di varcare la soglia. «Hai cambiato idea?»
Theresa lo guardò negli occhi.
«Non è così male, questo posto, dopotutto.»
Si era sentita incredibilmente bene, mentre era fuori insieme a lui. Per un attimo le era sembrato che tutto il resto non esistesse... e poi c’era l’altro lato della medaglia: avere fatto nascere in lui il sospetto di ritenerlo capace di pianificare un delitto, la faceva sentire sollevata. Nella relazione con Samuel, ciò che l’aveva sempre resa infelice era stata la scarsa sensazione di controllo che aveva sempre avuto. Il controllo portava al potere e il potere conduceva inesorabilmente alla soddisfazione interiore.
«Sono felice che ti piaccia.»
Theresa sorrise.
“Sì, ormai le cose sono cambiate.”
Ne era certa, non si stava illudendo. Fino a qualche tempo prima, Samuel non si sarebbe nemmeno preoccupato di che cosa fosse di suo gradimento e di che cosa le risultasse invece particolarmente indigesto. Avrebbe dato per scontato che i loro gusti coincidessero, perché la convinzione di Samuel era proprio quella: c’era lui e c’era il resto del mondo, che doveva adeguarsi alle sue esigenze per poter essere preso in considerazione.
Theresa non si sentiva colpevole delle proprie riflessioni interiori, così critiche nei confronti dell’uomo che amava così tanto. Il fatto di riuscire a esercitare qualche forma di controllo su di lui le faceva apparire davanti agli occhi un’altra realtà; una realtà che le piaceva, perché i difetti di Samuel facevano passare in secondo piano i suoi.
Il suo sorriso si fece ancora più radioso.
«Allora, se siamo felici entrambi, non abbiamo niente di cui preoccuparci.» Si avvicinò a lui. «Sai, Sam, ho temuto per troppo tempo che io e te avessimo sprecato la nostra occasione. Adesso mi sento di nuovo viva.»
Samuel ridacchiò.
«Non scherzare, Theresa. Tu puoi vivere anche senza di me.»
«E tu» dedusse lei, «Senza di me.»
«Beh, suppongo di sì» ammise Samuel. «Ciascuno di noi esiste come individuo a se stante quindi, potenzialmente, per chiunque è possibile.»
Theresa non avvertì il classico disagio di qualche mese prima.
Quella era la verità.
Samuel poteva vivere anche senza di lei, l’aveva sempre fatto. Allo stesso modo, il mondo era pieno di persone che facevano rinunce. Toccava a lei la parte più importante: fargli capire che non era quello l’aspetto in cui doveva privarsi di qualcosa.
Doveva dire qualcosa di particolarmente acuto.
Doveva aprirgli gli occhi e doveva farlo in quel momento.
Un attimo prima si era avvicinata a lui con l’intenzione di baciarlo, ma non esitò ad arretrare di scatto.
«La verità è che tu avresti potuto vivere senza Kay» puntualizzò, «Anche senza avere avuto la necessità di vederla morta.» Si sforzò di non sorridere per l’immenso compiacimento, quando lo vide spalancare gli occhi e sussultare, di fronte alle sue accuse. «Ti sarebbe bastato limitarti ad aprire gli occhi, prima di guardare ciò che avevi davanti.»
Superato il momento di stupore iniziale, Samuel si limitò a scuotere la testa.
«Non sai quello che dici.»
«Ah, no? Anche Guillermo ha ucciso Juanita, in fondo.»
«Mhm...» Samuel sembrava pensieroso. «Guillermo? Juanita? Di chi stai parlando?»
Theresa sospirò.
«Te ne ho parlato mille volte.»
«Il telefilm?» azzardò Samuel. «Quello che guardi ogni sera?»
«Telenovela, non telefilm» puntualizzò Theresa. «Juanita l’aveva rifiutato, qualche settimana fa, e nella puntata dell’altro ieri lui l’ha strangolata. Clara ha visto tutto e non sa se denunciarlo. Se lo farà, perderà per sempre l’uomo che ama. Anche se non dovesse farlo, però, dovrebbe convivere con la certezza di averlo perso per sempre.»
«È una telenovela, appunto» le ricordò Samuel. «Non ha nulla a che vedere con la realtà.»
«Invece ha molto più a che vedere con la realtà di quanto tu possa immaginare. Guillermo era sempre stato segretamente innamorato di Juanita, ma lei era sposata con Iñacio. Guillermo pensava di poter essere felice insieme a Clara, ma il suo amore per Juanita continuava a venire sempre al di sopra di ogni cosa. Penso che, se Clara decidesse di non denunciarlo, un giorno potrebbe arrivare a capire che Guillermo ha ucciso Juanita anche e soprattutto per il loro bene. In fin dei conti è un po’ quello che potrebbe essere successo anche a te.»
Samuel scoppiò a ridere.
«Per cortesia, Theresa, torna su questo pianeta!»
Theresa decise di accontentarlo.
Sapeva che le sue allusioni non divertivano affatto Samuel e, ancora una volta, la sua sensazione di controllo le dava la forza di andare avanti.
«Entriamo» gli propose, lasciando immediatamente da parte le congetture sull’omicidio-che-sembrava-un-suicidio. «Ormai qua fuori sta iniziando davvero a fare freddo, anche con la giacca. E poi si sarà fatta ora di cena, ormai.»
«Veramente è ancora un po’ presto per cenare» obiettò Samuel. «Potremmo salire un attimo in camera e...»
Theresa lo interruppe: «Sì, potremmo.»
In realtà non ne era del tutto sicura. Aveva evitato anche solo di baciarlo, poco prima, e si era sentita meglio che se l’avesse fatto.
Il controllo le piaceva.
Il controllo le dava sensazioni che nemmeno Samuel, da solo, era in grado di regalarle.
Sua sorella aveva cercato di insegnarglielo, quando erano bambine, ma lei non aveva mai voluto apprendere le sue lezioni di vita.
Theresa si accorse di essersi persa nelle proprie riflessioni soltanto quando Samuel, che ormai stava aprendo la porta, le domandò: «Va tutto bene?»
«Sì.»
«Mi sembri pensierosa.»
Theresa annuì.
«In effetti, mi è venuta in mente per un attimo mia sorella.»
«Ah, già, mi hai parlato di lei, una volta.»
Theresa non ricordava di averlo fatto.
«Strano, dato che non l’ho mai più vista dopo avere lasciato la casa dei nostri genitori e che non sono nemmeno andata al suo funerale.»
Samuel avvampò.
«Oh... non ricordavo che era morta.»
«Forse non te l’avevo detto» osservò Theresa. «Non mi piace molto parlare di lei.»