Un colpo seguiva l’altro, e poi un altro, un altro, e un altro ancora—finché il corpo della donna non smise di muoversi sotto di lei.
A quel punto, i muscoli le si scomposero tutt’insieme, come un castello di sabbia.
Mollò la presa dalla camicia a fantasia tigrata della donna di mezza età sotto di lei e si buttò di lato al suo corpo ormai morente.
Sarebbe morta a minuti, sì. Ancora deglutiva, sì, ma era impossibilitata a inglobare aria—solo il suo stesso sangue. La gola era spezzata ed esposta come un tronco d’albero separato da un fulmine.
Era una visione grottesca, sì, ma pur sempre una visione…
Si appoggiò con una mano a terra e si sforzò di incanalare abbastanza forza nelle gambe per alzarsi di nuovo in piedi. Seguì un gemito. Si toccò il fianco sinistro, dove la lama del coltello della donna l’aveva pugnalata negli ultimi minuti dello scontro ravvicinato. Bruciava, sì, ma era niente in confronto alla sensazione di star scivolando dalla gabbia del suo intero corpo. Tremava dalla testa ai piedi, le mani ancora arrossate e le nocche sbucciate in più punti. Qualche impronta di dente, anche.
Era finita, sì, l’aveva uccisa, ma il suo corpo non sembrava tuttora averlo compreso completamente. Apriva e chiudeva le mani, controllava il respiro il più possibile. Si teneva pronta a dover “finire il lavoro” se, in caso, la donna stesa per terra in preda alle convulsioni fosse stata pervasa da un ultimo cenno di spirito combattivo.
Era pronta, era sempre pronta. Avrebbe atteso, aveva atteso a lungo per quel momento. Ora che aveva realizzato la sua visione, non si sarebbe privata dello spettacolo che le offriva neanche per un istante.
Tuttavia, la bava che colava dagli angoli della bocca della donna sembrava preannunciare il termine di quel capitolo.
Era finita per davvero? Sì, sembrava di sì, ma voleva averne la certezza assoluta.
Avrebbe aspettato ancora un po’...
*
Gli occhi della donna erano diventati opachi. Non si muoveva più. Occhi e bocca erano rimasti spalancati.
Aveva ottenuto il risultato sperato, sì, ma non sorrise. No, non era felice di averla uccisa. Sollevata, tuttavia? Sì.
Voltò le spalle al cadavere maleodorante di sangue e urina e, zoppicando verso l’uscita del parcheggio abbandonato, sussurrò a denti stretti: «Vittimista del cazzo». Sputò a terra per togliersi il sapore di sangue dalla bocca.
Potevano pure provare a raccogliere i suoi campioni, non avrebbero trovato un emerito cazzo. Perché non c’era un cazzo da trovare.
Lei non esisteva, non era mai esistita.
Questo non voleva dire però che la sua esistenza non fosse stata rovinata. Rovinata da quella donna. Quella donna che rovinava sempre tutto ciò con cui veniva a contatto. Come una malattia che ti annienta dall’interno; lentamente, ma inesorabilmente. L’unica soluzione era estirpare il rovo aggrovigliato nel profondo delle proprie viscere, dove il suo veleno era riuscito ad arrivare. Benché il suo passaggio, con relative conseguenze, non sarebbe stato cancellato del tutto. Le cicatrici rimanevano. I ricordi rimanevano. La rabbia rimaneva, nonostante gli ultimi sviluppi.
Quella storia era destinata ad avere una sola e unica conclusione. Aveva dovuto sporcarsi le mani per scrivere la parola fine con la sua calligrafia. Si era persino mozzata volentieri un dito pur di essere sicura di non finire l’inchiostro scarlatto. No, alternative non ve ne erano state.
Era sbagliato definirlo “Destino”. No, il suo era un Dovere. Prima di tutto verso se stessa; verso la sé bambina che non aveva potuto difendersi, al tempo. E verso la sé del futuro che un futuro lo meritava, per davvero.
Tuttavia, era stanca. Era stanca da tanto...
FINE