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Autore: _ayachan_    22/09/2009    2 recensioni
Diciassettesimo secolo, campagna italiana. Un villaggio indipendente viene requisito da un signorotto locale in cerca di una roccaforte da cui affrontare un avversario in battaglia. La popolazione, impiegata nella costruzione di un’estenuante quanto inutile trincea, sembra essersi arresa all’inevitabile, ma l’arrivo di un ambiguo gruppo di ribelli che dicono di lottare per un generico ideale di libertà interrompe il monotono tran-tran della vita di sempre...
Aspettiamo tempi migliori o lottiamo per crearli nel presente?
Questa storia si è classificata prima nel contest "Dal film alla storia" indetto da DarkRose86 sul forum.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Inverno-1


Inverno


La primavera arriverà






Capitolo Primo

Acqua a catinelle





La pioggia scendeva dal cielo a fiotti gelidi, abbattendosi nel fango grigiastro fino a formare vortici di paglia e melma. Il cielo era basso, plumbeo, gravava sul paese come nebbia d’inverno. Un cavallo nitrì in lontananza, e il ragazzo alzò la fronte fradicia pensando che invidiava la sua stalla calda.
Pagò caro quell’attimo di distrazione: lo schiocco di una frusta risuonò nel diluvio e una voce brusca gli ordinò di riprendere il lavoro. Con il dolore fresco della schiena e un tuono che rombava cupo nelle orecchie, Lorenzo digrignò i denti e continuò a camminare, trasportando i secchi pesanti appesi alle estremità della canna sulle sue spalle.
Detestava quegli uomini.
E detestava quella vita.

L’inverno era arrivato troppo presto, prima che finissero l’ultimo raccolto di fichi. Con il freddo erano giunti anche le nubi da est, la pioggia, il fango, e loro.
Chi fossero non importava davvero; erano come gli altri. Si erano avvicinati prima che iniziasse il lungo periodo delle piogge, comparendo ai piedi della collina nelle loro armature impolverate, e tutti avevano pensato che fossero presagio di sventura.
Avevano ragione.
Il loro signore era un uomo pragmatico, non aveva perso tempo a fare considerazioni inutili: si era subito rivolto al capo-villaggio, domandandogli della vecchia rocca disabitata, e ne aveva preso possesso in un solo giorno.
All’inizio qualcuno aveva azzardato alcune domande: chi sono? Cosa vogliono? Perché si sono stabiliti nel castello? Quei pochi coraggiosi che avevano avuto l’ardire di alzare la voce all’assemblea cittadina erano serviti da esempio memorabile: il Signore li aveva fatti frustare pubblicamente. Sovrastando le loro grida di dolore, poi, aveva proclamato a gran voce che ogni singolo uomo, donna o bambino gli doveva obbedienza; che il villaggio era di sua proprietà, che si preparava una guerra, e che tutti gli uomini validi avrebbero dovuto contribuire, non parlare.
Nessuno aveva più osato aprir bocca.
Quel giorno erano iniziate le piogge...
E sul villaggio era sceso l’inferno.

Erano passate alcune settimane dall’arrivo del Signore, quando Lorenzo giunse al punto di invidiare un cavallo.
Durante quel periodo l’acqua aveva invaso le strade e ogni avvallamento, inondato i campi freddi e reso sdrucciolevoli i sentieri. Il sole era diventato un pallido e raro miraggio dietro la coltre grigia del cielo, una sfera evanescente che tanti dicevano di non ricordare nemmeno. In compenso, attorno al villaggio era sorta la trincea.
I contadini erano stati costretti a costruirla con ritmi di lavoro inumani; dopo aver consegnato alle truppe gran parte delle provviste per l’inverno erano stati strappati ai campi e ai boschi per sprecare le loro energie tirando su un muro di fango e sassi attorno alla collina. A tutti sembrava un lavoro inutile, pensato solo per farli soffrire: anche in caso di scontro, cosa poteva fare una barriera marcia così bassa che si poteva tranquillamente guardare oltre?
Tanto più che il Signore aveva un’idea molto ampia del concetto di uomini validi: secondo il suo pensiero, valido era ogni ragazzo dagli otto anni in su provvisto di entrambe le braccia. Che fosse maschio o femmina, era irrilevante.
Inevitabilmente, i fanatici avevano iniziato a pensare a un castigo divino: prima la pioggia prematura, poi l’invasione, infine la fatica... Qualcuno doveva aver peccato molto pesantemente. In mancanza di un pubblico capro espiatorio le donne avevano preso a lanciarsi occhiate sospettose, additando l’una e l’altra, mormorando di stregoneria e atti illeciti. Oltre la stanchezza, l’umiliazione e il malcontento, ci si era messo anche il sospetto.
Lorenzo aveva rinunciato quasi subito a far ragionare i suoi compaesani. Lui e un’altra manciata di giovani avevano cercato di tenere alto il morale, di spronare gli uomini a non abbattersi, perché una volta terminata la trincea sarebbero stati liberi; ma anche se liberi non avrebbero avuto comunque cibo, ribattevano i pessimisti, e subito era stato chiaro che quei ritmi di lavoro li avrebbero uccisi troppo presto, soprattutto i più deboli.
Di fronte al disfattismo generale Lorenzo aveva finito per perdere la speranza, e con lui i suoi compagni. Come animali da soma, avevano chinato il capo e si erano sottomessi docilmente al volere dei loro aguzzini.
Prima o poi finirà.
Quel giorno Lorenzo non ci credeva poi tanto. I pomeriggi di lavoro si susseguivano alle mattine già sfiancanti, sempre sotto la pioggia battente, sempre cupi come un corteo funebre. Gli unici segni di vita venivano dalle guardie incaricate di sorvegliarli, uomini rudi che si lamentavano del freddo e scacciavano la noia frustando i più stanchi – gli stessi uomini, per inciso, che la notte sfogavano la lussuria sulle donne del paese, sostenendo che fosse loro dovere distrarli.
Quando fu tanto buio che neanche le guardie riuscivano a distinguere i contorni della trincea, la voce di quello più grosso si levò alta nell’aria umida, ordinando il rientro. Gli abitanti del villaggio non avevano nemmeno la forza per sospirare di sollievo; lasciarono cadere ciò che trasportavano e si volsero esausti verso le case dal tetto di paglia.
Lorenzo si unì alla parata mesta che trascinava i piedi su per il sentiero. La stanchezza gli annebbiava i sensi, la fame gli mordeva lo stomaco peggio che negli inverni più duri; la rassegnazione, orribile demone parassita, gli toglieva persino la voglia di vivere. Se non avesse saputo che il suicidio era il peccato più grande, si sarebbe buttato da un tetto.
Rientrò nella casa umida con le membra intorpidite. Accanto al focolare trovò la vecchia nonna, intenta a cuocere su un fuoco stento la zuppa più liquida che avesse mai visto. In un angolo, steso su un pagliericcio muffo e maleodorante, il nonno invalido; anni prima la falce aveva mancato le spighe di grano per conficcarsi nella sua gamba.
«E’ quasi pronto» commentò la vecchia vedendolo sedersi contro il muro – non c’erano sedie attorno al tavolo, erano finite tutte nel camino.
Mentre aspettavano giunsero anche la madre e il padre, con gli occhi vuoti di chi ormai ha accettato che la morte è vicina. Si sedettero accanto al fuoco e cercarono di allontanare il gelo che li avvolgeva, inutilmente.
Ultima a rientrare fu Lia, la sorella, unica sopravvissuta di una serie di sfortunate morti premature. A dispetto dei suoi fratelli, era una ragazza robusta e sana, ma il lavoro delle ultime settimane aveva reso anche lei secca come la più denutrita delle vagabonde.
«Oggi era ancora peggio del solito, vero?» disse, affiancandosi alla nonna davanti al fuoco e sfregando le mani ruvide una contro l’altra.
Nessuno rispose. Da giorni, ormai, i tentativi di conversazione di Lia cadevano nel silenzio più completo.
«Mi hanno mandata a prendere dei rovi giù al bosco, nel pomeriggio» proseguì imperterrita, come se qualcuno la stesse ascoltando. «Con uno dei loro uomini. Voleva mettermi le mani addosso, il porco, ma non ha neanche da provarci! Gli ho detto che ero tisica, e che era meglio per lui se non mi toccava.»
Rise, di una risata amara che stonava con il viso tutto sommato grazioso. Nonostante le guance incavate e il colorito cereo, era l’unica della casa a conservare gli occhi accesi della sua gente.
La zuppa fu decretata pronta dopo pochi attimi, e distribuita in ciotole di argilla sbeccata; era poco più che acqua, ma il semplice calore aveva il potere di rinfrancarli tutti.
Lia si sedette con la sua porzione accanto a Lorenzo, e la sorbì in silenzio per alcuni minuti, cullata dal ticchettio uniforme della pioggia.
«La stalla sul retro sarà asciutta?» chiese a un tratto, in un mormorio appena udibile.
Lorenzo scrollò le spalle. «Che importa? Le capre ce le hanno portate via.»
«Sì, ma se il tetto avesse una falla?» insisté la ragazza. «Credo che dovremmo controllare. Un giorno quel posto ci servirà di nuovo.»
«Come fai a dire che saremo vivi?» replicò lui atono.
Un lampo di rabbia baluginò negli occhi di Lia.
«Vieni a controllare la stalla con me. Ora!» sibilò, accompagnando la richiesta con cenni nervosi del capo.
Lorenzo si riscosse dal torpore e la considerò brevemente. Guardò poi il resto della famiglia, che raschiava il fondo della ciotola con sguardi apatici, e sospirò a fondo. Se non avesse avuto la certezza che Lia non era una sognatrice, l’avrebbe mandata al diavolo; ma Lia era la ragazza più concreta che conoscesse, ed evidentemente era successo qualcosa di abbastanza importante da trascinarli nuovamente sotto il diluvio.
Senza dire nulla agli altri, lasciarono le loro stoviglie sul tavolo e uscirono per l’ennesima volta sotto la pioggia battente.
Camminando in un buio completo aggirarono la casa, cercando di tenersi sotto il minuscolo riparo del tetto, finché non raggiunsero il retro; qui una stanzetta costruita affastellando sassi alla buona aveva accolto in passato due capre e i loro capretti.
«Non dire nulla, siamo intesi?» fece Lia, con un sorriso emozionato.
Di fronte a quell’espressione Lorenzo avvertì una campana di pericolo, ma non fece in tempo a impedirle di aprire la porta della vecchia stalla.
All’interno c’erano due uomini.

La luce e il calore nell’antro angusto e maleodorante venivano da un piccolissimo falò alimentato da sterco e paglia. I due sconosciuti erano seduti con la schiena appoggiata alla parete della casa, e lo squadrarono senza nascondere la loro diffidenza.
Prima che chiunque potesse parlare, Lorenzo tirò indietro Lia per un braccio.
«Sei impazzita?» le sibilò all’orecchio, furibondo. «Vuoi farci ammazzare? Chi diavolo stai nascondendo?!»
«Mollami!» sbottò lei, divincolandosi secca. «Non voglio farci ammazzare! Voglio liberare tutti!»
Lorenzo scosse la testa. «Sei pazza! Ci porterai alla rovina!»
«Se solo mi ascoltassi...»
«Ragazza!»
La voce che aveva parlato era un mormorio roco, eppure ebbe il potere di ammutolire entrambi.
Lia e Lorenzo si voltarono e incrociarono lo sguardo di uno dei due uomini, un tizio magro dagli occhi azzurri.
«Non è il caso di discutere sotto l’acqua. Entrate. Anche se puzza, almeno è asciutto» sorrise.
Lia obbedì immediatamente, come se accettare inviti ambigui dagli sconosciuti fosse cosa di tutti i giorni. Lorenzo invece strinse le labbra.
«Avanti. Mica ti mangiamo» lo incitò l’uomo dagli occhi azzurri. «E poi, senza offesa... sei un po’ troppo magro per sembrare gustoso. Anche se non dovrei essere proprio io a parlare.»
Il suo compare, più robusto e barbuto, si lasciò andare a una risatina secca, e anche Lia sorrise a metà. Lorenzo non dovette nemmeno sforzarsi per capire che la sciocca era già innamorata. Era sempre questo il guaio con le femmine: perdevano la testa per il primo tordo con gli occhi chiari che le degnava di un’attenzione.
Ma lui era il fratello maggiore, e suo dovere era proteggere la famiglia – per quanto sciocca si dimostrasse; così irrigidì i muscoli doloranti, chinò la schiena e raggiunse il piccolo conciliabolo della stalla.
L’uomo dagli occhi azzurri chiuse la porticina, sotto l’occhiata allarmata di Lorenzo, e spiegò che lo faceva per impedire a qualcuno di scorgere la fiammella; poi, senza scusarsi, continuò a masticare la carne secca che teneva nella bisaccia. La sola vista del cibo fece gorgogliare lo stomaco dei due fratelli; Lia arrossì d’imbarazzo.
«Allora, da quanto tempo è qui il Signore?» domandò lo straniero, senza dar segno di notare il loro disagio.
«Tre settimane» bofonchiò Lorenzo. «E voi?» insinuò dopo un attimo.
«Tre ore» rise l’uomo. «La tua bella sorella ci ha incontrati nel bosco e offerto rifugio.»
Lia arrossì, giocherellando con una ciocca dei capelli scuri e umidicci, ma Lorenzo serrò i denti.
«Chi siete?»
«Ribelli. Attraversiamo le campagne in cerca di villaggi oppressi dagli egoisti signorotti locali e fomentiamo la rivolta.»
«Perché?»
«Perché è giusto. Perché gli uomini sono nati liberi. Perché sono guerre idiote sulle spalle della povera gente. Scegli tu la versione che più ti aggrada... Più praticamente, perché siamo stati vittime dei soprusi in prima persona.»
«E cosa ci guadagnate?» domandò Lorenzo aspro, senza fidarsi di mezza parola.
«Molto, credimi» l’uomo gli lanciò un’occhiata condiscendente. «Lo capirai anche tu, se arriverai vivo alla mia età.»
«Non sembri tanto vecchio.»
«Tu invece sembri giovane quanto sei!» rise l’altro, gioviale. «Di’, tua sorella sostiene che sei uno in gamba. Uno forte, carismatico. E’ vero?»
Lorenzo arrossì senza saperlo, e borbottò qualcosa di poco chiaro.
«Bene; ci sarai di grande aiuto» approvò l’uomo.
«Non ho detto che vi avrei aiutato» protestò il ragazzo.
«No?»
«No. E non fingerti stupito! Non so nemmeno i vostri nomi, siete comparsi dalla nebbia... potreste anche essere emissari del Demonio, per quello che ne so!»
«Ah, ragazzo mio, guardati dagli uomini e non dai demoni!» citò l’altro sconosciuto, con una mezza smorfia derisoria.
«No, no, ha ragione» lo ammonì il compagno. «Non ci siamo nemmeno presentati, che gran villani. Il mio nome di battaglia è Falco» sorrise, tendendo una mano nera di terra.
Lorenzo esitò un lungo istante; poi, davanti al suo sorriso aperto, cedette e rispose all’offerta di amicizia.
«Baio» si presentò l’altro, limitandosi a un cenno del capo. Mentre lo faceva si accarezzò la barba ispida, gesto che ripeteva costantemente.
«Veniamo da Agria, a nord. Avete sentito le voci della rivolta?»
Sì, le avevano sentite, in quella che pareva un’altra vita. Prima dell’arrivo del Signore le merci circolavano liberamente attorno alla collina, e con loro le notizie: nel villaggio di Agria la popolazione si era sollevata in massa, detronizzando il signore del castello; avevano strappato il suo vessillo ed eletto un capo-villaggio. Ma lì la notizia non aveva destato molto scalpore: il paese di Lorenzo era libero dal giogo del tiranno da anni e anni.
Prima che arrivasse il Signore.
«Voi avete istigato la folla?» domandò il ragazzo con sospetto.
Falco sembrò molto orgoglioso della paternità dell’azione, e subito attaccò un’entusiasmante descrizione dei combattimenti più accaniti.
Il sorriso di Lia si incrinò percettibilmente, sostituito da un’espressione più annoiata; l’interesse di Lorenzo, invece, schizzò subito alle stelle. E più Falco parlava, più i suoi occhi si sgranavano, via via illuminandosi: ogni parola riaccendeva una vecchia sensazione, ogni immagine era una piccola scossa all’altezza del cuore... Dalla voce di Falco, come un miracolo, scaturiva la vita che lo aveva abbandonato nelle lunghe settimane di oppressione. Lorenzo non se ne rendeva nemmeno conto, estasiato dalle gesta e dalle idee dello sconosciuto usurpatore della sua stalla; non si accorse del tempo che passava, dei segni di impazienza di Lia, dell’altro uomo che si era addormentato, russando profondamente; ma quando Falco tacque aveva le lacrime agli occhi, e sua sorella pensò che fosse ammattito.
«Tutto questo con così pochi uomini...» mormorò ammirato. «In un villaggio tanto sottomesso! E’ incredibile! Stupefacente! Non oso nemmeno immaginare cosa riuscirete a fare qui...»
«Cosa riusciremo a fare, Lorenzo» lo corresse Falco. «Noi e voi insieme: tu e Lia potete darci un grande aiuto.»
Lorenzo fremette e gli occhi di Lia si fecero languidi. La considerazione di quell’uomo era improvvisamente diventata tutto, per entrambi.
«Ma abbiamo parlato fin troppo» li ammonì lui. «E’ tardi, e voi siete sfiniti. Andate a riposare. Domattina prima dell’alba tornate qui, e definiremo i dettagli del piano.»
Lia e Lorenzo se ne andarono a malincuore, offrendo pane e provviste segrete. Falco rifiutò, dicendo che avevano la bisaccia piena, e li incoraggiò a non restare sotto la pioggia.
Per la prima volta da settimane, i due fratelli attesero l’alba con un’ansia vitale che pensavano di non poter provare mai più.

La mattina dopo gli ardori furono ben più moderati.
Lorenzo aprì gli occhi a mezzora dall’alba, riconoscendo la familiare sensazione dei muscoli rotti e delle articolazioni doloranti. Prima di alzarsi rifletté su Falco e gli avvenimenti della sera prima.
Non si trattava di un miracolo, ma di un maleficio, si disse. Falco non era un santo, anzi: la sua capacità di ammaliarlo era così sospetta da avvicinarlo maggiormente a Satana, non al Padre Celeste; altrimenti non si spiegava l’ardore che gli aveva messo in corpo, il desiderio insano di scatenare una rivolta, a dispetto di tutte le vite che sarebbero venute a mancare. Chiunque avesse tanto potere sulle scelte altrui non poteva che essere maligno, perché Dio amava il libero arbitrio.
Si propose di mettere in guardia Lia e cacciare gli sconosciuti. Quando la sentì alzarsi, cercando di non far rumore mentre infilava le scarpe, le fu accanto in un istante.
«Devi stare attenta a Falco» le sibilò all’orecchio.
«Non dire sciocchezze!» rispose lei stizzita. «Lui ci salverà tutti! Anche tu lo pensavi ieri sera!»
«Deve essere malvagio!» insisté Lorenzo. «E’ troppo... troppo bravo per essere un eroe. Quando le cose sembrano semplici, c’è il Maligno di mezzo!»
«Oh, per favore! Ti sembra semplice risvegliare quel branco di pecore che è diventato questo villaggio? Smettila di dire scemenze da fanatico e torna con me nella stalla. Chiediglielo direttamente a Falco, se è un demonio.»
Lia si liberò dalla sua stretta e corse fuori dalla casa, sotto una pioggerella fine e gelata. Sbuffando come un mantice, Lorenzo la seguì, se non altro per proteggerla. Raggiunsero di nuovo la stalla dietro l’edificio, e lui sperò che i due se ne fossero andati. Invece erano ancora lì.
«Buongiorno» li salutarono amichevoli. «Il solito tempaccio?»
Lia attaccò discorso con una facilità disarmante, scivolando subito a sedere accanto a Falco. Lorenzo cercò di raccogliere il coraggio per cacciare entrambi dalla sua proprietà, ma davanti all’espressione aperta dei due uomini le parole gli morirono in gola.
Era in Falco il trucco.
Lui diceva qualcosa, e tu cadevi ai suoi piedi.
«Entra, Lorenzo. Voglio discutere i piani anche con te» gli offrì.
E Lorenzo entrò.

Di nuovo pioggia.
Pioggia fredda, aguzza come spilli, che si infilava negli abiti e si appiccicava alla pelle; pioggia che strappava ogni goccia di calore, speranza o vita, pioggia maledetta che scorreva negli occhi e rendeva scivolosi i carichi. Semplice pioggia, trasfigurata dalla disperazione.
Lorenzo lavorava a testa china, scrutando febbrile le guardie che controllavano i lavori. I capelli gli intralciavano la visuale, ma impedivano anche agli uomini del Signore di scorgere la scintilla vitale che lo animava; perché quel giorno aveva un’ulteriore missione, oltre alla sopravvivenza: quel giorno era l’uomo di Falco.
Contò sei militari rannicchiati sotto le sporgenze dei tetti; attorno alla trincea ne vide altri due, ragionevolmente di pessimo umore, e azzardandosi ad alzare il capo ne individuò quattro lungo la strada che conduceva alla rocca. Ma non era certo che non ce ne fossero altri: sotto lo scroscio della pioggia i contorni erano indistinti, ben visibili restavano soltanto le torce alle finestre.
Annotò mentalmente ogni dettaglio, cercando di indovinare le armi che portavano gli aguzzini; studiò le loro espressioni, a caccia di demotivazione o fiacchezza; infine, tentò una mossa azzardata.
Mentre trasportava un secchio di calce fradicia inciampò e cadde ai piedi di una guardia. La frusta calò inesorabile, quasi prima che le sue mani affondassero nel fango, e Lorenzo gemette con più convinzione del solito. Rialzandosi, per la prima volta si lasciò andare a una sequela di lamentele smozzicate contro il Signore, audacia mai dimostrata da nessuno dei suoi compaesani – almeno dopo il memorabile esempio degli uomini puniti il primo giorno. Sentì la frusta rallentare il ritmo, ma fu solo per un istante: subito riprese, più rabbiosa che mai, e se Lorenzo non fosse scappato in fretta i segni sarebbero stati ben più profondi.
Quella notte, nella stalla sul retro, riferì a Falco che gli uomini del Signore avrebbero venduto l’anima al diavolo pur di non perdere i privilegi di cui godevano; ma non lo amavano, e al primo cenno di disfatta se la sarebbero svignata come cani selvatici.

Impiegarono quasi una settimana a decidere tutti i dettagli del piano. Nel corso di quei giorni diversi uomini si avvicendarono al fianco di Falco, cambiandosi con Baio e portando provviste fresche. Lorenzo immaginò i pericoli che dovevano correre di notte in notte, e nel suo petto si agitarono ammirazione e diffidenza: ancora non riusciva a capire cosa spingesse i ribelli a lottare senza una ricompensa, e se da un lato li scrutava con sospetto, dall’altro non poteva fare a meno di cedere ai discorsi di Falco... Con lui tutto sembrava giusto e a portata di mano: ma qual era il prezzo da pagare a quello che ormai aveva imparato a definire ‘l’angelo mandato dal Demonio’?
Non appena il piano fu completato Falco insistette per dare il via alle manovre. Lorenzo non notò l’improvvisa fretta che lo animava, scambiandola per ansia, e ne fu suo malgrado contagiato: agitato da uno stato di febbrile eccitazione si accordò con Lia, raccolse coraggio, speranza, brandelli di autostima, scacciò ogni dubbio.
L’inferno stava per finire, anzi doveva finire!
Nella notte che precedette il primo passo non riuscì a chiudere occhio. Si girò e rigirò nel letto finché il grigiore dell’alba non strisciò attraverso le imposte marce, leggermente meno impenetrabile dell’oscurità. A quel punto si alzò, teso e impaziente al tempo stesso, e cercò i vestiti nel buio.
«Cosa stai facendo?»
Una scarica gelida corse lungo tutta la sua schiena, impedendogli di afferrare le scarpe.
«Hai intenzione di rovinarci tutti?»
Lorenzo alzò tremante la testa; nelle tenebre gli occhi di suo padre baluginavano, inequivocabilmente delusi, e le sue parole riecheggiarono le accuse che, a suo tempo, lui stesso aveva rivolto a Lia. Probabilmente gli altri familiari fingevano soltanto di dormire, nella stanza angusta e soffocante.
«Io salverò tutti, padre!» sussurrò caparbiamente Lorenzo.
«No. Tu ci porterai al disastro, e lo sai. Ma il tuo egoismo ti impone di tentare la via dell’eroe, e pur di morire con una spada nel cuore invece che nel tuo letto, sei disposto a sacrificare tutti noi.»
Non alzò mai la voce; il tono rassegnato con cui parlò fu, infine, la cosa peggiore.
«Siete annebbiato dalla disperazione, padre» replicò Lorenzo, conficcandosi le unghie nei palmi. «Non vedete più la speranza, non credete più nella vita... Ma io ci credo! Io voglio un domani, voglio lottare per averlo! Non voglio morire in mezzo al fango, servendo un uomo che disprezzo!»
«La pioggia non durerà per sempre» laconico, il vecchio continuò a fissarlo. «Verrà la primavera. Verranno stagioni migliori, la trincea sarà costruita...»
«Ma voi non lo vedrete mai! Voi, e mia madre, e molte altre persone morirete ben prima della primavera!»
Il padre non replicò; si limitò a fissarlo, con quei suoi occhi immensamente tristi e immensamente vuoti. Aveva smesso di credere molto, molto tempo prima; ed era troppo stanco per provarci di nuovo.
«Ormai siete loro schiavo» mormorò Lorenzo. «Ma io non voglio seguire le vostre orme.»
Senza attendere una risposta afferrò le scarpe, le infilò, e uscì sotto il diluvio.

«Ricorda, ragazzo: non vacillare. Se tu esiti, che ragione hanno gli altri per credere in te?»
Lorenzo annuì alle parole di Falco, stringendo le mani l’una all’altra con forza. Fissava il minuscolo fuoco all’interno della stalla, e in lontananza avvertiva il rombo cavernoso del tuono. Avrebbe combattuto anche per suo padre, che non credeva più nel futuro. Tuttavia... Lo avrebbe fatto in ogni caso, era deciso sin dal primo pensiero riottoso; ma sapere di non avere il suo appoggio era avvilente.
Falco rimase in silenzio, mentre il Baio sgranocchiava della frutta secca tormentandosi la barba. Prima dell’inizio anche loro non riuscivano a nascondere la tensione.
«Ah, quasi ce ne scordavamo:» riprese Falco dopo qualche istante. «tu non hai ancora un nome di battaglia.»
Lorenzo sollevò la testa di scatto.
«Il nome di battaglia è importante. Serve a definire ciò che sei, ti dà il coraggio di apparire sempre al meglio. Guarda il Baio: se non avesse questo nome come potrebbe ricordarsi di tirare sempre avanti?»
Il Baio lanciò un grugnito che poteva essere indifferentemente una risata o un insulto. Ma Falco continuò, sorridendo.
«Dobbiamo trovare qualcosa che si addica anche a te. Un nome forte e fiero, che possa scintillare nel ricordo delle persone ed essere un monito per i nemici.»
«Veramente credo che un nome simile mi metterebbe a disagio...» balbettò Lorenzo, mentre le sue orecchie si facevano di brace.
«E’ questo il punto: il nome deve definire il massimo di ciò che puoi essere. A meno che tu non ti accontenti di un topo di campagna...»
Questa volta la risata del Baio fu davvero inconfondibile, e Lorenzo pensò che sarebbe sprofondato per la vergogna.
«Perché tu sei il Falco?» domandò, cercando disperatamente di dirottare la conversazione.
Falco si indicò il viso.
«Occhio di Falco. Mi chiamano così perché ho una vista portentosa: riesco a immaginare ciò che accadrà e a disporre le mie mosse di conseguenza. Si può quasi dire che io legga il futuro.»
Lorenzo ammutolì. Non avrebbe mai avuto un nome altrettanto grande. Davvero, forse avrebbe dovuto iniziare a considerare ‘marmotta campestre’...
«Chiamiamolo pulcino spaurito» propose il Baio con un ghigno. «Guarda lì che faccia.»
«No, ho un’idea migliore» Falco scrollò le spalle. «Aspettiamo la fine della giornata. Sul campo scoprirà certamente il suo punto di forza.»
Se Lorenzo non si era sentito sufficientemente sotto pressione, ora lo fu.
«Ricorda» gli occhi azzurri dell’angelo inviato dal Demonio brillarono, prima dell’impresa finale. «Non esitare. Tu sei la speranza, tu sei il pilastro che non deve cedere. Non avere incertezze, non abbatterti, non mollare; possono ridurti in catene, è vero, ma non possono toccare la tua anima e i tuoi pensieri. Ricordalo

La sera, nonostante la spossatezza, Lorenzo stava ancora ripetendo le medesime parole dentro di sé. Ormai avevano perso di significato, ma gli sembrava che fossero penetrate a fondo nelle sue stesse carni.
Nervoso e fosco spinse la schiena contro la parete della casa, cercando il magro riparo del tetto. La pioggerella della mattina si era trasformata in un temporale più deciso, che ora scrosciava nel buio denso di ombre; mentre aspettava, Lorenzo cercò di ricordare il silenzio, ma non ci riuscì.
Il primo uomo comparve da dietro la casa, muovendosi con cautela e circospezione infinite. Avvolto in un mantello scuro di tela cerata si avvicinò camminando a scatti, senza smettere per un istante di guardarsi attorno. Lorenzo gli indicò la stalla e lo guardò scomparire all’interno.
Convincere Menio era stato difficile, ricordò; avvicinarlo durante i lavori, lasciar cadere qualche parola, ma soprattutto vincere l’apatia e la paura... l’uomo temeva per la sua famiglia. Lorenzo era fermamente convinto che Falco avrebbe dissipato ogni dubbio, e solo per questa ragione aveva promosso la sua causa al punto da assicurargli la riuscita del piano – quando invece lui per primo non ne era certo.
Dopo Menio arrivarono altre tre o quattro persone, sempre sole, sempre guardinghe. Alla fine si erano presentati all’incirca gli stessi che si erano uniti a lui nei primi ed ultimi tentativi di resistenza. Lorenzo indicò la stalla a tutti e rimase fuori. Ci fu un ultimo ritardatario, poi nessun altro. Allora, abbattuto, anche lui raggiunse i compagni.
«Bene, il numero perfetto» sorrise Falco vedendolo entrare. «Se fossimo stati più di così non so dove ci saremmo seduti.»
Lorenzo contò nove persone, includendo sé, Lia e i due ribelli. Il Baio si grattava la barba seduto in un angolo, gli uomini del villaggio scrutavano nervosamente tutt’attorno.
«Siediti, Fosco» esordì allora Falco, con il tono mistico che aveva incantato i due fratelli; e Lorenzo capì che Fosco sarebbe stato il suo nome, e con un misto di turbamento, delusione ed euforia prese parte al cerchio.
Ormai tornare indietro non sarebbe più stata semplice vigliaccheria: avrebbe significato il più infame tradimento.






- Fine primo capitolo -



NEXT: Tempo variabile












Buongiorno, buon pomeriggio, o buona sera che dir si voglia!
Sono qui in clamoroso anticipo (rispetto ai mei standard) per pubblicare il primo capitolo di questa storia, che con una certa sorpresa ha vinto il contest "Dal Film alla Storia" indetto da DarkRose86 sul forum di EFP.
L'assunto del contest era semplice: trarre dalla citazione di un film celebre un racconto originale.
La frase che io ho scelto era: "Il tuo cuore è libero, abbi il coraggio di seguirlo", direttamente da Braveheart - Cuore impavido. Se e come sarà presente, temo lo scoprirete soltanto nel terzo ed ultimo capitolo! XD

Prima di lasciarvi - non si sa mai... potreste aver voglia di scrivere un commentino! - ci tengo a ringraziare Roro, la mia beta, che dopo avermi betato il racconto è stata rimproverata per aver scordato qualche ripetizione (XD). E voglio anche precisare che un paio di parole, virgole, e forse metà di una frase nel secondo o terzo capitolo sono state modificate rispetto alla versione inviata al contest, perché, come ama dire mia madre (e anche Mago Merlino ne "La Spada nella Roccia"), non mi "sconfifferavano" appieno. XD

Ah, per la cronaca... Le altre storie che hanno partecipato al contest sono molto belle! Correte a leggerle appena potete! :-)

  
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