Era
così avvincente e, allo stesso tempo, stancante lavorare nella biblioteca.
Vi
potevo trovare tesori preziosissimi, testi dimenticati e che a me raccontavano
infinite vite.
Avrei
dovuto semplicemente catalogarli ma non resistevo e ne approfittavo per
sfogliarli e leggerli avidamente. Non tutti, non potevo, altrimenti si sarebbe
notato il mio procedere lento nel lavoro, tuttavia, per leggere quelli che
ritenevo più interessanti, utilizzavo la scusa del dover controllare le
condizioni ed esaminare bene i contenuti per schedarli con cura.
Quella
vecchia biblioteca custodiva testi di ogni epoca, da manoscritti tardoantichi a libri stampati fin verso la fine del Settecento.
Era stata raccolta da un vecchio Monsignore, sparito poco prima del XIX secolo.
Sparito,
mah!
Non
c'erano documenti che attestassero la sua scomparsa, ma dopo il 1792 non vi era
più traccia di lui: il suo nome non compariva in alcun documento, in nessun
diario o lettera, eppure non era registrata la sua morte in nessun elenco dei
morti.
Certo,
era possibile che i documenti successivi fossero andati perduti o distrutti:
tra il passaggio di Napoleone, le guerre Risorgimentali, l'annessione al Regno
d'Italia, trasferimenti vari, era più che plausibile pensare che parte della
documentazione fosse andata perduta piuttosto che chiunque avesse smesso di
parlare del Monsignore, quasi fosse stato cancellato dalla mente degli amici.
Nonostante
tutti gli stravolgimenti di questi ultimi due secoli, la biblioteca del
Monsignore era rimasta chiusa in questa stanza, visitata solo raramente da
qualche monaco o studente alla ricerca di testi rari, ma di fatto abbandonata e
dimenticata da tutti.
Quando
il nuovo Vescovo ha ordinato la catalogazione di questi libri, mi sono subito
offerto volontario e la mia esperienza mi ha permesso di ottenere l'incarico,
nonostante sia un laico.
Lavoravo
lì da oltre un mese e ancora non ero arrivato a metà del lavoro. Libri su
libri, impilati, ammucchiati; quando li spostavo, spesso si sollevavano nuvole
di polvere e l'aria della stanza pareva pervasa da nebbia. Mi veniva da tossire
e dovevo tenere una bottiglietta d'acqua a portata di mano per attenuare il
prurito alla gola, bevendo.
La
stanza era buia poiché le finestrelle, che un tempo la illuminavano, già da
decenni erano state murate, dunque dovevo accontentarmi di una fredda lampada
al neon che non rendeva certo facile il mio lavoro, soprattutto quando dovevo
leggere manoscritti che presentavano grafie arzigogolate di difficile
comprensione perfino per un paleografo esperto come me. Spesso gli occhi erano
affaticati, ma non me ne lamentavo anche se poi a sera vedevo sfuocato o
annebbiato. La possibilità di poter toccare e consultare quelle pagine era
quanto di più gratificante e bello potessi auspicare.
La
fatica si sentiva dopo lunghe ore passate tra scaffali e computer su cui
censivo i volumi. Tra occhi stanchi, naso tappato da polvere e mal di testa in
generale, mi pareva di udire dei suoni. Erano come sussurri, altre volte
lamenti. Non capivo e non me ne curavo. Perché avrei dovuto interrogarmi sui
bizzarri modi in cui il mio cervello manifestava la sua stanchezza?
Eppure,
quelle voci sottili, quelli striduli, mi rimbombavano nelle orecchie.
Quando
trovavo un testo che più degli altri mi interessava e che volevo leggere con
maggiore cura, lo appoggiavo su un tavolinetto e alla sera me lo portavo a casa
per digitalizzarlo col mio scanner, in modo da poterlo studiare in futuro.
In
biblioteca, passavo ore e ore a catalogare, fermandomi appena per mangiare un
panino, mentre la notte restavo in piedi a scansionare libri nella mia stanza,
sperando che nessuno mi scoprisse. Non mi era consentito, è vero, ma era
ingiusto che tutti quei testi rimanessero consultabili solo per pochi. Stavo
facendo un servizio utile per molti studiosi, mi dicevo.
Alla
fine, dormivo solo un paio di ore a notte e a volte nemmeno quelle poiché mi gettavo
sul letto vestito e rimanevo in uno stato di dormiveglia. Sognavo. Sognavo
tantissimo in quelle occasioni.
Erano
sogni molto strani, però. Vedevo grandi cerchi, sempre tre: uno blu, uno rosso
e uno verde che si intersecavano tra di loro. Un immenso albero, talmente alto
che la chioma si perdeva tra le nuvole e sarebbero occorsi almeno tre o quattro
uomini, ognuno sulle spalle dell'altro, per raggiungere a toccare i rami più
bassi. Lì vicino sorgeva un possente muro fortificato con merli guelfi e spesso
nel cielo un'aquila spiegava le proprie ali, abbracciando il mondo intero.
Strano, vero?
I
miei sogni, prima, erano popolati dai miei amici e da luoghi famigliari.
Adesso, invece, c'erano pochi elementi, sempre gli stessi e quel che mi pareva
più strano, quando mi svegliavo, era che non c'era erba, né terreno e perfino
il cielo, che sapevo esserci, era in realtà assente, tutto era come sospeso nel
vuoto.
Col
passare delle notti, mi resi conto che anche nei sogni sentivo lamenti
soffocati. Il vento scuoteva la chioma del grande albero e le foglie
sussurravano. L'aquila apriva il suo becco e uno stridio riempiva l'aria.
Una
notte mi accorsi di poter controllare le mie azioni in sogno, non ero più
costretto a contemplare, potevo agire. Mi trovavo davanti alla muraglia e
decisi di camminarci accanto, curioso di scoprire se ci fosse una porta. Non la
trovai, ma scoprii che il grande muro proseguiva fino ad uno strapiombo. Come
facevo a sapere che c'era un precipizio, se non c'era suolo? Eh, la magia dei
sogni, ma sapevo che si trovava lì. Infatti fui oltremodo prudente
nell'avvicinarmi al bordo, mi chinai a carponi per sporgere la testa e vedere
che cosa ci fosse sotto.
Raggelai.
Un
immenso drago rosso, con sei colli sormontati da teste grandi quanto dieci
elefanti, giaceva assopito sotto di me. In realtà vedevo solo i sei capi e i
colli, notavo le fauci, ogni tanto lasciate scoperte dalle labbra che si
muovevano. Mi resi allora conto che io stesso, la muraglia e l'albero ci ergevamo
sul corpo stesso del drago.
Scorsi
l'aquila nel cielo. Aprì il suo becco e un lamento di mille voci, non più
sommesso ma forte come il tuono, ne uscì.
Il
mio cuore accelerò i battiti, istintivamente guardai di sotto e vidi il drago
aprire i suoi occhi.
Gridai
e mi svegliai urlando. Il mio petto era agitato dalla tachicardia e mi sembrava
di avere un tamburo in gola e che il cuore stesse per scoppiare.
Pian,
piano però mi calmai, mi preparai una camomilla per rilassarmi e mi dissi che
il troppo lavoro mi stava stressando.
Poche
ore dopo, ero di nuovo in biblioteca, ma ancora turbato per il sogno. Mentre
sfilavo libri dagli scaffali, i bisbigli e i pianti si agitavano nella mia
testa e crescevano sempre più forte attorno a me. Più forte, sempre più forte.
Alla
fine non avevo dormito che un'ora quella notte e il sogno mi aveva molto
suggestionato, doveva essere per questo che mi sentivo così frastornato.
Misi
le mani su un manoscritto dall'aspetto antico di almeno otto secoli. Quando lo
sfiorai, mi parve di sentire un grido, ma sapevo che era solo dentro di me.
Afferrai il volume, ma subito mi cadde a terra. Lo raccolsi, lo aprii e mi resi
conto di essere davanti ad un testo di inestimabile valore: un libro di
immagini e poco testo, tracciato di proprio pugno da uno dei più famosi e
controversi teologi del passato!
Avevo
molto sentito parlare di questo testo, ne esistono solo tre copie e io avevo
tra le mani l'originale!
Sorrisi,
soddisfatto. Notai che tra le pagine c'era anche un foglio di molto successivo
che riportava una annotazione del Monsignore che riferiva dove lo avesse
trovato: in una tomba vuota, emersa durante il rifacimento del pavimento della
cattedrale, la lapide purtroppo era stata molto danneggiata dal calpestio e
quindi era impossibile saperne di più sul precedente proprietario.
Dovevo
assolutamente studiare quel testo in ogni dettaglio, quindi lo collocai subito
sul tavolinetto, per portarlo a casa la sera.
Probabilmente
vi presi contro successivamente, o lo spostai senza pensarci, durante la pausa
pranzo, infatti quando feci per prenderlo, prima di rincasare, non lo trovai
sul tavolinetto e, dopo averlo cercato per alcuni minuti, scoprii che era
caduto ed era finito sotto uno scaffale. Lo recuperai e tornai a casa.
Guidando
l'auto, sentii ancora i sussurri e lamenti: dovevo essere davvero stanco,
accesi la radio ad alto volume per tenermi sveglio ed evitare incidenti.
Salito
nel mio appartamento, accesi il forno per cucinare un qualche surgelato e,
mentre attendevo che si riscaldasse, mi sedetti sul divano e iniziai a
sfogliare il prezioso manoscritto.
Avrei
potuto scrivere un articolo di grande successo, studiando quei disegni e riesaminando
la filosofia dell'eretico.
Appena
sfogliai le prime pagine, mi resi conto che le immagini richiamavano molto ciò
che sognavo ultimamente: le sfere della trinità, l'albero della Chiesa, le mura
di Babilonia.
Le
linee che definivano le immagini vibravano, i colori si distorcevano. Mi passai
le mani sugli occhi. Eh, iniziavo a vedere sfuocato, nulla di strano, ci stavo
facendo l’abitudine, ormai.
Continuai
a sfregarmi gli occhi per riprendermi, ma inutilmente, decisi di chiuderli un
attimo per farli riposare e ...devo essermi addormentato.
Mi
ritrovai nei miei sogni: l'albero, le mura, l'aquila che volava disorientata,
come se si fosse smarrita, come se cercasse una via di fuga che non poteva
esistere. Non l'avevo mai vista agitata.
Le
fronde dell'albero si muovevano come scosse dalla borea.
Colline
si drizzavano all'orizzonte.
Colline?
Non
c’erano mai state colline nei miei sogni. Un elemento nuovo?
Erano
strane. Erano rosse e dure.
Non
erano colline.
Erano
i colli del drago e le sue teste che mi si avvicinavano.
Le
fauci si schiusero in un sorriso beffardo, gli occhi ardevano come soli.
Era
sempre più vicino. L'aquila gemeva, le foglie gridavano.
Volli
svegliarmi.
Le
sei teste erano sopra di me e scendevano in picchiata.
Volli
svegliarmi.
Desideravo
più di ogni altra cosa mangiare il mio surgelato.
Volli
svegliarmi.
Un fiato
caldo e rancido mi circondò.
Volli
svegliarmi.
L’ombra
m’avvolgeva.
Volli
svegliarmi.