La vita breve e la memoria viva
“La vita è un labirinto in linea retta.”
Amava ripetere questa frase quasi ogni volta che andavo a trovarlo con la mamma. L’aveva letta in un racconto di Borges, un filosofo di cui allora ignoravo tutto, a parte il nome. Era questa la cosa bella di mio nonno: il fatto che parlasse spesso e volentieri di argomenti importanti, oppure di argomenti banali che però nascondevano un significato più grande. Lo ammiravo perché parlava di cose di cui gli altri non parlavano mai. O perlomeno non con me, pensai. Lui era la persona più vecchia che conoscevo, ma non parlava come fanno i grandi. Io non mi sentivo mai trattato da stupido, quando ero con lui, il che era una rarità, per non dire l’eccezione. Mi piaceva ascoltarlo filosofare mentre ci sfidavamo a qualche gioco da tavolo. La volta prima era stata scopa, questa volta erano gli scacchi. “Scegli bene le tue mosse” mi diceva, paziente “Anche il più piccolo avanzamento di un pedone può cambiare l’esito della partita.” Secondo lui ero un giocatore avventato e ancora troppo distratto. Per l’ennesima volta mi batté nel giro di un minuto sorprendendomi con lo Scacco del Barbiere. Sbuffai tutta la mia irritazione mentre travolgevo le pedine con una manata. Mi imbronciai. Nonno mi accarezzò la testa con affetto, incoraggiandomi a riprovare. “Su su” mi esortava “Hai tutta la vita per imparare bene, senza fretta.” Gli feci un sorriso controvoglia. Grazie a lui non mi sentivo mai definito dai miei fallimenti. Non infieriva mai se perdevo, se sbagliavo, ma tornava sempre a correggermi, a spiegarmi che “Se questa strada non va bene, c’è sempre quest’altra.” Credeva davvero nell’idea della vita come un labirinto: “Le possibilità sono tantissime, e se hai pazienza, non importa che percorso scegli: il più delle volte puoi tornare indietro e cambiarlo. E alla fine, se perseveri, arrivi in fondo.” Spesso mi portava a fare passeggiate nel bosco. Io volevo rimanere sul sentiero: avevo paura che mi sarei perso altrimenti. Ma il nonno insisteva a portarmi nei suoi posti segreti, dove diceva di trovare sempre famigliole di funghi porcini che aspettavano solo di essere colti dal viandante giusto. Bisognava cercare intorno alle radici di certi alberi che lui conosceva bene, fin dalla sua giovinezza. “Non ti puoi mai perdere nel bosco, quando conosci i suoi abitanti.” diceva, e poi riattaccava con la metafora del labirinto. Anche i labirinti possono diventare molto familiari. Allora non spaventano più così tanto, solo domandano pazienza. Scegliere strade poco battute, svoltare per un po’ sempre nella stessa direzione. A volte però, come negli scacchi, certe mosse non possono più essere disfate: la vita non lo permette. Ma imparare dall’errore, aumenta le probabilità di vincere la partita successiva. Ricordo il modo in cui scandagliavamo il terreno coperto di fogliame secco, attenti e al tempo stesso eccitati, come se fossimo setacciatori d’oro. Dopo un paio d’ore tornavamo a casa col nostro bottino, ma a nessuno raccontavamo dove eravamo stati. I segreti tra nonni e nipoti sono sacri. E le amicizie tra esseri umani e alberi, anche quelle sono sacre. Gli alberi, come i nonni, sono guardiani dei segreti: il loro silenzio è antico, nobile, pieno di retorica. Le persone e gli alberi di veneranda età sono tutte rivolte al passato, alla sua custodia, alla sua delegazione. La memoria è un’eredità preziosa che rende ricchi coloro che la possiedono, che si fa presente solo a coloro degni di conservarla. Ogni anziano è alla disperata ricerca di qualcuno a cui passare il testimone, di un contenitore vivo in cui riporre al sicuro i propri ricordi: non avendo futuro, migliora l’analisi del passato. Le radici sono cresciute talmente forti e lunghe, penetrando nella terra fino a sfiorarne il centro, che il loro unico desiderio è ormai quello di far conoscere i meandri e le meraviglie dell’esistenza a chi è vissuto meno di loro. Tutte queste cose dapprima le intuii solamente, poi, da più grande, le capii meglio. Ma le compresi del tutto solo il giorno in cui a trovare il nonno non andai più spesso, a casa sua, bensì raramente, al cimitero. Fissando la sua foto inserita in un ovale bordato di ottone, aspettavo che mia madre finisse di innaffiare l’alberello che aveva piantato nel rettangolo di terriccio sopra la tomba. Guardai i numeretti in rilievo che indicavano le date di nascita e di morte: 01.08.1919 – 31.07.2019. Era morto a 99 anni, o meglio, a 100 anni meno un giorno. Ora riposava per sempre accanto alla nonna. Riflettei sul fatto che in pochi numeri si poteva circoscrivere la vita intera di una persona. Prima di andarmene, accarezzai la foto e salutai l’alberello. Si parlò sempre meno del nonno. Io sentivo la sua mancanza ma non lo dicevo. Sembra che questo tipo di cose non sia più lecito dirle, da un certo momento in poi: i grandi preferiscono tacere sulle cose importanti. Quando tornai nel nostro bosco, l’autunno successivo, cercai i nostri posti: lì potei ricordare il nonno e parlarne liberamente, con gli alberi che mi ascoltavano e che mi rimandavano ai ricordi condivisi lì con lui, sotto il loro sempiterno sguardo. Camminai sussurrando al vento, chiedevo: “Nonno mio, almeno uno piccolo fammelo trovare però!” e intanto con gli occhi ridotti a fessure mi concentravo alla ricerca di una capocchia marrone, rovistando il terreno con un bastone di legno intagliato da lui, tanto tempo prima. Passeggiavo in quei luoghi, ma non mi sentivo solo. Improvvisamente mi parve che le centinaia di faggi, betulle, noccioli e pini della montagna fossero un sol popolo in perenne attesa che qualcuno gli rivolgesse la parola. Era quello, il viandante giusto: colui che sapeva interrogare il bosco e aveva la pazienza di attenderne le risposte. Finalmente sbucai in una piccola radura verdeggiante, scaldata dai raggi del sole che filtravano tra i rami frondosi tutt’attorno. Controllai minuziosamente i pressi di un grosso faggio, dal cui massiccio tronco si dipanavano due immensi rami che salivano prendendo poi mille strade diverse, come tanti pensieri uscenti da un’unica testa. Poco dopo, avevo trovato il mio tesoro: dal tappeto di foglie secche e fili d’erba, faceva capolino la testa di un grosso porcino. Non potei fare a meno di sorridere, mentre lo raccoglievo e ne ripulivo il gambo col coltellino. Staccai una lumachina da sotto la cappella, e me lo portai al naso per assaporare l’inconfondibile profumo. “Grazie, nonnino.” Mormorai, per poi avviarmi verso casa, orientandomi con passo sicuro tra le file di spettatori muti, eppure chiaramente congratulanti. “La vita è un labirinto in linea retta.” Dissi tra me e me, come serbando il segreto dell’intero universo. E sorridevo.
Amava ripetere questa frase quasi ogni volta che andavo a trovarlo con la mamma. L’aveva letta in un racconto di Borges, un filosofo di cui allora ignoravo tutto, a parte il nome. Era questa la cosa bella di mio nonno: il fatto che parlasse spesso e volentieri di argomenti importanti, oppure di argomenti banali che però nascondevano un significato più grande. Lo ammiravo perché parlava di cose di cui gli altri non parlavano mai. O perlomeno non con me, pensai. Lui era la persona più vecchia che conoscevo, ma non parlava come fanno i grandi. Io non mi sentivo mai trattato da stupido, quando ero con lui, il che era una rarità, per non dire l’eccezione. Mi piaceva ascoltarlo filosofare mentre ci sfidavamo a qualche gioco da tavolo. La volta prima era stata scopa, questa volta erano gli scacchi. “Scegli bene le tue mosse” mi diceva, paziente “Anche il più piccolo avanzamento di un pedone può cambiare l’esito della partita.” Secondo lui ero un giocatore avventato e ancora troppo distratto. Per l’ennesima volta mi batté nel giro di un minuto sorprendendomi con lo Scacco del Barbiere. Sbuffai tutta la mia irritazione mentre travolgevo le pedine con una manata. Mi imbronciai. Nonno mi accarezzò la testa con affetto, incoraggiandomi a riprovare. “Su su” mi esortava “Hai tutta la vita per imparare bene, senza fretta.” Gli feci un sorriso controvoglia. Grazie a lui non mi sentivo mai definito dai miei fallimenti. Non infieriva mai se perdevo, se sbagliavo, ma tornava sempre a correggermi, a spiegarmi che “Se questa strada non va bene, c’è sempre quest’altra.” Credeva davvero nell’idea della vita come un labirinto: “Le possibilità sono tantissime, e se hai pazienza, non importa che percorso scegli: il più delle volte puoi tornare indietro e cambiarlo. E alla fine, se perseveri, arrivi in fondo.” Spesso mi portava a fare passeggiate nel bosco. Io volevo rimanere sul sentiero: avevo paura che mi sarei perso altrimenti. Ma il nonno insisteva a portarmi nei suoi posti segreti, dove diceva di trovare sempre famigliole di funghi porcini che aspettavano solo di essere colti dal viandante giusto. Bisognava cercare intorno alle radici di certi alberi che lui conosceva bene, fin dalla sua giovinezza. “Non ti puoi mai perdere nel bosco, quando conosci i suoi abitanti.” diceva, e poi riattaccava con la metafora del labirinto. Anche i labirinti possono diventare molto familiari. Allora non spaventano più così tanto, solo domandano pazienza. Scegliere strade poco battute, svoltare per un po’ sempre nella stessa direzione. A volte però, come negli scacchi, certe mosse non possono più essere disfate: la vita non lo permette. Ma imparare dall’errore, aumenta le probabilità di vincere la partita successiva. Ricordo il modo in cui scandagliavamo il terreno coperto di fogliame secco, attenti e al tempo stesso eccitati, come se fossimo setacciatori d’oro. Dopo un paio d’ore tornavamo a casa col nostro bottino, ma a nessuno raccontavamo dove eravamo stati. I segreti tra nonni e nipoti sono sacri. E le amicizie tra esseri umani e alberi, anche quelle sono sacre. Gli alberi, come i nonni, sono guardiani dei segreti: il loro silenzio è antico, nobile, pieno di retorica. Le persone e gli alberi di veneranda età sono tutte rivolte al passato, alla sua custodia, alla sua delegazione. La memoria è un’eredità preziosa che rende ricchi coloro che la possiedono, che si fa presente solo a coloro degni di conservarla. Ogni anziano è alla disperata ricerca di qualcuno a cui passare il testimone, di un contenitore vivo in cui riporre al sicuro i propri ricordi: non avendo futuro, migliora l’analisi del passato. Le radici sono cresciute talmente forti e lunghe, penetrando nella terra fino a sfiorarne il centro, che il loro unico desiderio è ormai quello di far conoscere i meandri e le meraviglie dell’esistenza a chi è vissuto meno di loro. Tutte queste cose dapprima le intuii solamente, poi, da più grande, le capii meglio. Ma le compresi del tutto solo il giorno in cui a trovare il nonno non andai più spesso, a casa sua, bensì raramente, al cimitero. Fissando la sua foto inserita in un ovale bordato di ottone, aspettavo che mia madre finisse di innaffiare l’alberello che aveva piantato nel rettangolo di terriccio sopra la tomba. Guardai i numeretti in rilievo che indicavano le date di nascita e di morte: 01.08.1919 – 31.07.2019. Era morto a 99 anni, o meglio, a 100 anni meno un giorno. Ora riposava per sempre accanto alla nonna. Riflettei sul fatto che in pochi numeri si poteva circoscrivere la vita intera di una persona. Prima di andarmene, accarezzai la foto e salutai l’alberello. Si parlò sempre meno del nonno. Io sentivo la sua mancanza ma non lo dicevo. Sembra che questo tipo di cose non sia più lecito dirle, da un certo momento in poi: i grandi preferiscono tacere sulle cose importanti. Quando tornai nel nostro bosco, l’autunno successivo, cercai i nostri posti: lì potei ricordare il nonno e parlarne liberamente, con gli alberi che mi ascoltavano e che mi rimandavano ai ricordi condivisi lì con lui, sotto il loro sempiterno sguardo. Camminai sussurrando al vento, chiedevo: “Nonno mio, almeno uno piccolo fammelo trovare però!” e intanto con gli occhi ridotti a fessure mi concentravo alla ricerca di una capocchia marrone, rovistando il terreno con un bastone di legno intagliato da lui, tanto tempo prima. Passeggiavo in quei luoghi, ma non mi sentivo solo. Improvvisamente mi parve che le centinaia di faggi, betulle, noccioli e pini della montagna fossero un sol popolo in perenne attesa che qualcuno gli rivolgesse la parola. Era quello, il viandante giusto: colui che sapeva interrogare il bosco e aveva la pazienza di attenderne le risposte. Finalmente sbucai in una piccola radura verdeggiante, scaldata dai raggi del sole che filtravano tra i rami frondosi tutt’attorno. Controllai minuziosamente i pressi di un grosso faggio, dal cui massiccio tronco si dipanavano due immensi rami che salivano prendendo poi mille strade diverse, come tanti pensieri uscenti da un’unica testa. Poco dopo, avevo trovato il mio tesoro: dal tappeto di foglie secche e fili d’erba, faceva capolino la testa di un grosso porcino. Non potei fare a meno di sorridere, mentre lo raccoglievo e ne ripulivo il gambo col coltellino. Staccai una lumachina da sotto la cappella, e me lo portai al naso per assaporare l’inconfondibile profumo. “Grazie, nonnino.” Mormorai, per poi avviarmi verso casa, orientandomi con passo sicuro tra le file di spettatori muti, eppure chiaramente congratulanti. “La vita è un labirinto in linea retta.” Dissi tra me e me, come serbando il segreto dell’intero universo. E sorridevo.