As2S3
CAPITOLO I
L’obitorio era avvolto nel suo consueto stato vegetativo, quando la porta principale del corridoio di accesso venne aperta.
La dottoressa Rizzi fece il suo ingresso sbuffando.
Odiava la pioggia.
Odiava il traffico generato dalla pioggia e le pozzanghere profonde come stagni ai lati delle strade. Soprattutto detestava l’imbecillità del tizio che, senza alcun rispetto per l’altrui presenza, era deliberatamente passato con la sua merda macchina radente al marciapiede, generando uno tsunami di ragguardevoli dimensioni, che l’aveva investita bagnandole addirittura i capelli.
Inutile stramaledirlo.
Più precisamente, nel suo caso particolare era meglio non stramaledire nessuno, visto quanto accaduto qualche anno prima.
Un altro emerito idiota la stava per investire sulle strisce pedonali. Non si era nemmeno scusato e l’aveva mandata a quel paese. In tutta risposta lei aveva ingenuamente sussurrato un comunissimo ‘che ti venisse un colpo'. Tre giorni dopo, l’uomo era sul tavolo freddo dell’obitorio con lei che lo guardava esterrefatta.
Infarto del miocardio. Tipico di chi beve e fuma troppo e a quarant’anni ha il fisico di un ottantenne.
Non valeva nemmeno la pena perdere tempo a fargli l’autopsia richiesta dalla famiglia.
La dottoressa sapeva bene cosa avrebbe trovato aprendo una grossa Y sul torace dell’uomo: polmoni neri come catrame, cuore accartocciato e indurito dall’infarto e, con molta probabilità, un fegato ridotto a brandelli dall’alcool.
Se fosse stato per lei, sul referto dell’autopsia avrebbe aggiunto una delle cause di morte in assoluto più comuni al mondo: idiozia.
Da quel giorno aveva imparato a non stramaledire più nessuno. Semplicemente chiudeva gli occhi, faceva un respiro profondo e poi, ritrovata la dovuta calma, riprendeva la sua giornata come se nulla fosse accaduto.
Alcune volte, però, non era così semplice. Di fatto arrivare a lavoro completamente fradicia e dover rimanere al freddo dell’obitorio per ore con capelli e vestiti bagnati non era l’ideale.
Buttò il misero ombrellino ‘usa e getta’ da cinque euro comprato da un extracomunitario appena fuori dalla metro nel bidoncino della spazzatura del guardaroba. Si spogliò dei vestiti fradici e s’infilò una casacca a maniche corte, un paio di pantaloni di cotone e un camice bianco, giusto per cercare di non prendersi una polmonite. Si legò i capelli in una coda alta e uscì dal guardaroba con in mano la cartellina dell’unico ‘paziente’ che avrebbe dovuto analizzare quella mattina.
Un brivido di freddo le percorse le ossa appena il suo corpo venne in contatto con i meravigliosi sedici gradi della stanza di lavoro. Mentre si infilava i guanti in lattice, guardò il foglio stampato sulla cartellina e strabuzzò gli occhi: maschio, 17 anni.
‘Povera creatura…’, il suo unico pensiero, prima di aprire la cella frigorifera numero 6.
La maniglia scattò con il consueto click di sempre, lo sportello si aprì su un quadrato stranamente buio.
Di norma, il carrello estraibile, su cui era posto il corpo del defunto, spiccava nel suo freddo e luccicante metallo lungo il bordo inferiore dell’apertura.
La dottoressa arrivò a domandarsi se avesse aperto la cella sbagliata o forse qualcuno aveva riportato un numero errato sul fascicolo.
Fece spallucce e infilò la mano, per cercare di acchiappare la barra fissata alla testa dell’asse ed ebbe la stranissima sensazione che le sue dita, il palmo e parte del polso non venissero avvolti dal buio e dal freddo, ma da un denso fumo caldo.
Afferrò la barra con una certa inquietudine ed estrasse il carrello.
Per poco non le venne un colpo nel constatare che le palpebre del ragazzo erano state lasciate aperte e due iridi cristalline fissavano il vuoto.
‘Bello scherzo del cazzo…’
Sospirò cercando di riprendersi e chiudendo, uno dopo l’altro, gli occhi del giovane.
Senza ulteriori indugi, fece scorrere l’asse di metallo sull’apposito carrello necessario per spingere i cadaveri nello stanzino riservato alle autopsie.
Accese la lampada al centro della stanza, prese uno sgabello, la cartellina relativa al corpo da esaminare e iniziò, con la consueta precisione, il suo lavoro.
Si assicurò che il nastro del registratore fosse nuovo e premette il tastino nero di ‘play’ e, contemporaneamente, quello rosso di ‘rec’, per dare il via alla registrazione dell’intera autopsia.
Da molto tempo la dottoressa Rizzi svolgeva questo lavoro con minuziosa dedizione. Mai, in tre lunghi anni di carriera, aveva saltato un passaggio fondamentale dell’autopsia che stava svolgendo. Una delle prime procedure che era abituata a non trascurare, non esattamente da protocollo, visto che era più per screzio personale che per effettiva necessità, era quella di auscultare il cuore del malcapitato. Lo faceva per puro scrupolo. Sapeva che mai e poi mai avrebbe avuto la fortuna di trovarsi di fronte a una presunta morte, rivelatasi erroneamente classificata come decesso.
Si infilò gli auricolari dello stetoscopio nelle orecchie e appoggiò il piattello sul torace del giovane.
Nel silenzio della sala il cuore le saltò in gola non appena vide dei brividi percorrere la pelle del ragazzo.
Fece un passo indietro e andò inavvertitamente a sbattere contro il carrello su cui era appoggiato il registratore che, inevitabilmente, cadde a terra sparpagliando batterie e nastro magnetico sul pavimento.
‘Merda’, mormorò chinandosi per raccogliere tutti i pezzi.
Fu quando stava per rialzarsi che li vide.
Lasciò cadere di nuovo il registratore a terra e si portò le mani alla bocca per soffocare un grido di spavento.
Dal bordo del tavolo su cui giaceva il suo paziente, pendevano due piedi rosacei, magri e lunghi.
Trattenendo il fiato la dottoressa si alzò molto lentamente e la sua angoscia crebbe ancora di più quando, una volta in piedi, si accorse che il giovane se ne stava seduto tranquillo sul bordo, con le gambe a penzoloni e la testa leggermente inclinata.
La dottoressa girò attorno al tavolo, per poterlo guardare in volto.
Era pallidissimo. Profonde occhiaie gli incorniciavano due occhi di cristallo dallo sguardo vitreo.
La donna inghiottì il niente.
Istintivamente prese un lenzuolo da una branda vicina e glielo porse, per permettergli di coprirsi sia dal freddo della sala che dalla vergogna di trovarsi nudo davanti a una sconosciuta.
Il ragazzo non si mosse. La guardava impassibile, come se lei fosse in qualche modo trasparente. Decise di farsi coraggio e di avvicinarsi per coprirlo lei stessa con il telo. Lui semplicemente la lasciò fare senza dire niente, senza muovere un muscolo.
La dottoressa si ritrasse di nuovo di un passo e fece un sospiro. Si inumidì le labbra e si decise a parlare.
“Mi chiamo Agata. Agata Rizzi. Sono un medico. Tu come ti chiami?”
“Mattia”
Sussurrò sottovoce.
“Sai dove ti trovi?”, chiese lei mordendosi la lingua subito dopo: ‘ma che bella domanda idiota, brava dottoressa Rizzi, sei la campionessa di psicologia’, si arrabbiò con se stessa.
Il ragazzo inclinò la testa di lato e non rispose.
Come poteva spiegargli che si trovava all’obitorio in quanto ritenuto morto per un malore ancora senza spiegazione?
La dottoressa si mise a cercare le parole giuste per non farlo spaventare, ma prima di potergli fornire una spiegazione il ragazzo disse:
“Ho freddo e fame e sete, anche”.
La donna accennò un sorriso. Pensò che se un bambino appena nato avesse potuto parlare, sicuramente si sarebbe lamentato delle stesse cose.
Che Mattia fosse rinato in una nuova vita?
Le priorità in quel momento erano altre.
Andò al distributore e riempì un bicchiere di acqua a temperatura ambiente. Glielo porse, pregandolo di bere con molta calma.
Agata pensò che doveva portarlo al caldo e trovargli qualcosa di nutriente da mangiare.
“Vieni, ti porto via di qui, così ti aiuto a rimetterti in forma e potrai tornartene a casa, ok?”, gli disse invitandolo a spostarsi su una sedia a rotelle.
“No, niente casa, niente ca…”
Non riuscì a finire la frase che svenne adagiandosi sul tavolo delle autopsie.
“Cazzo, no!”, mormorò la dottoressa fra sé.
Prese in fretta lo stetoscopio e auscultò il torace del giovane alla disperata ricerca di un battito, un sibilo.
Trattenne il fiato per qualche secondo fino a quando, limpido come il gocciolamento di un rubinetto in piena notte, sentì il cuore del giovane pompare a ritmo regolare.
Fece un sospiro di sollievo, poi prese una barella dotata di rotelle, di quelle in dotazione ai portantini per trasportare i cadaveri all’obitorio e la affiancò al tavolo. Con non poca fatica riuscì a sistemare il ragazzo sulla lettiga e lo coprì con un lenzuolo.
Come si fosse svegliato dalla morte era un mistero che voleva risolvere, ma decisamente dopo aver capito come fosse finito all’obitorio e anche il motivo per cui non voleva tornare a casa. Mentre percorreva il corridoio sotterraneo che conduceva agli ascensori, le luci si accendevano automaticamente al passaggio della barella spinta dalla dottoressa, per poi spegnersi subito dopo avvolgendo la via già percorsa in un buio tetro.
Arrivata agli ascensori la donna premette l’unico pulsante presente di lato, quello con la freccetta verso l’alto. Le porte si aprirono proiettando un quadrato di luce fioca e intermittente nel corridoio.
“Ma cambiare ‘sti cavolo di neon, ogni tanto, no, eh?”, mormorò nervosa fra sé.
Premette il pulsante corrispondente al terzo e ultimo piano, dove si trovava il suo studio e il reparto di terapia intensiva, in cui avrebbe voluto trovare una stanza per Mattia.
Arrivata al piano, uscì dall’ascensore spingendo la barella fino alla saletta dove normalmente gli infermieri pranzavano o facevano pausa. Consultò la lista delle camere per controllare se ce ne fosse una libera per il suo paziente, ma non ebbe fortuna. Decise quindi di portare la barella direttamente nel suo studio, almeno lì il ragazzo sarebbe stato al caldo.
Una volta entrata, si stropicciò gli occhi, per cercare di fare mente locale su quali fossero le priorità e, come prima cosa, si rese conto che la temperatura della stanza era molto gradevole. Ciononostante, doveva assolutamente trovare degli abiti caldi e puliti per il giovane, oltre che del cibo e cercare il suo responsabile per informarlo di quella che lei considerava un’ottima notizia: il risveglio di Mattia.
Si avvicinò con l’orecchio al naso del ragazzo per sentire il lieve respiro che usciva dalle narici.
Lo lasciò a dormire e uscì dallo studio chiudendo la porta a chiave.
Mentre percorreva il corridoio verso gli ascensori si rese conto che qualcosa di strano doveva essere successo, quella mattina. In giro non c’era personale. Dove erano finiti medici e infermieri di quel reparto? Pensò che fossero in qualche camera per visitare dei pazienti o che fossero andati tutti a pranzo. Poco importava, prima o poi avrebbe incrociato il suo responsabile da qualche parte, visto che l’ospedale non era così grande.
Prese l’ascensore per il piano terra, dove si trovava il pronto soccorso e una grande sala al cui centro c’era un bancone circolare con sopra un cartello riportante a caratteri cubitali la scritta ‘ACCETTAZIONE’. Lungo la parete sinistra, una serie di macchinette distributrici di cibo e bevande di tutti i tipi era lì a soddisfare le esigenze dei gusti più disperati, dai vegani ai celiaci, dai diabetici ai cardiopatici.
Fu quando le porte dell’ascensore si aprirono che la dottoressa capì dove fossero finiti tutti. Il pronto soccorso era l’inferno. C’erano barelle ovunque con feriti e persone che si lamentavano. Chi piangeva, chi gridava ‘aiuto’, chi fermava infermieri per chiedere informazioni. Agata sgranò gli occhi e, senza pensarci un secondo, si buttò in quel marasma senza fine.
Si avvicinò al bancone dell’accettazione e alla segretaria, che disperata cercava di rispondere a tutti, chiese cosa fosse successo e se poteva dare una mano.
“Un’autobus… la pioggia… c’è stato un incidente… non so altro”, le rispose la ragazza.
Fu in quel momento che la dottoressa capì che le sue priorità per quella mattina erano appena cambiate. Si rimboccò le maniche e, poco alla volta, si occupò prima dei pazienti più gravi e poi di quelli meno urgenti. Stava giusto finendo di firmare un referto, quando sentì alle sue spalle la voce del suo responsabile. Si voltò e lo vide sfrecciare nel corridoio scortando una barella su cui giaceva un ferito grave.
“Presto, in sala operatoria!”
La dottoressa lo seguì e, quando il medico la vide, senza smettere di correre dietro alla barella, le disse:
“Ah, Agata! Grazie che sei venuta ad aiutare! Già che ti vedo, ti informo di lasciar perdere l’autopsia del Volpi; la famiglia ha chiesto di mandare subito il corpo al crematorio”.
“Ma… veramente”, cercò di interromperlo la donna, per avvisarlo del risveglio del ragazzo.
Il medico nemmeno la sentì, preso com’era dall’urgenza dell’operazione che stava andando a svolgere. Lei lo vide salire in ascensore e l’ultima cosa che riuscì a capire, prima che si chiudessero le porte fu: “La famiglia vuole fare i funerali domani”.
La dottoressa strabuzzò gli occhi. Com’era possibile che dei genitori, che avevano perso un ragazzo così giovane, non volessero sapere quale fosse la causa della morte? Non era mai capitato, in tutti i suoi anni di carriera, che una famiglia chiedesse di non effettuare un’autopsia per una morte così prematura.
Frastornata si guardò intorno per capire se qualcun altro aveva bisogno di assistenza. Quando realizzò che il suo aiuto al pronto soccorso non era più richiesto, guardò l’orologio e sgranò gli occhi nel constatare che aveva lasciato Mattia da solo, chiuso nello studio, per più di due ore. In tutta fretta andò a cercare qualcosa da mangiare e da bere ai distributori automatici, che però erano stati letteralmente depredati di tutto quanto contenessero dalla miriade persone che erano in attesa dei loro cari dimessi dal pronto soccorso. Trovò solo un paio di tramezzini al tonno e una bottiglietta di bevanda energetica, che si accaparrò prima che un signore grande e grosso riuscisse a farsi cambiare in moneta una banconota da venti euro.
Poi passò dal guardaroba dove si cambiavano gli infermieri del pronto soccorso per recuperare una divisa pulita e, molto velocemente, tornò al suo studio. Fu quando entrò che il cuore le saltò in gola. Depositò tutte le cose che aveva in mano sulla scrivania e andò in fretta a soccorrere il ragazzo il cui corpo giaceva scomposto sul pavimento.
“Hey, Mattia! Mattia, svegliati! Come hai fatto a cadere dalla branda? Dai, vieni che ti aiuto a rialzarti!”, lo incitò.
Lo fece sedere sul lettino che lei usava quando aveva il turno di notte in reparto.
Lo aiutò a vestirsi e poi gli porse i due panini e la bibita.
Il ragazzo mangiò tutto lentamente, bevve a canna il liquido arancione ipervitaminico e alla fine si pulì la bocca con il dorso della mano.
“Grazie, sto meglio”, disse solo.
Gli si sedette accanto e lo osservò con occhio critico.
“Come ti senti, hai dolore da qualche parte? Senti ancora freddo?”, gli chiese poggiandogli la mano sulla fronte, per verificare se avesse qualche linea di febbre.
Constatò con un sospiro di sollievo che la temperatura del corpo era pressoché uguale alla sua.
Poi gli prese il polso tra le dita e contò i battiti che sembravano decisamente regolari, quelli di un ragazzo in perfetta salute.
Lui si fece visitare senza dire nulla.
Fu quando la dottoressa prese una pila e tentò di verificare la risposta oculare, che lui si ritrasse indispettito.
“No, no! Questo è brutto! No!”.
Lei spense la pila e la rispose nella tasca del camice.
“Ok, scusa. A parte il fastidio alla luce, c’è altro?”, chiese a bassa voce.
“No, sto bene. Mi può dire cosa è successo? Come sono finito qui? Ricordo le palle rosse e dorate dell’albero di Natale e poi che mi sono sentito male e… gente che… parlava attorno a me…”, chiese lui un po’ frastornato.
“L’altro ieri sera ti hanno trovato disteso sul pavimento del salotto di casa tua, privo di vi… apparentemente privo di vita. È stata chiamata l’ambulanza e la polizia. Accertato che non respirassi più, sei stato portato all’obitorio, dove io stavo per farti l’autopsia…”
La dottoressa a quel punto si alzò e andò a guardare fuori dalla finestra, ripensando a quanto fosse stato proverbiale il suo controllo del battito cardiaco prima di prendere in mano il bisturi.
Si voltò solo quando il ragazzo la interpellò con una domanda che la stupì non poco.
“È venuta lei a constatare che fossi morto?”
Lei incurvò le sopracciglia in uno sguardo serio e prese in mano la cartellina relativa all’autopsia che avrebbe dovuto svolgere.
Guardò la firma, o meglio lo scarabocchio, in calce al documento di morte accertata dal medico legale di turno e non riconobbe il nome di nessuno dei suoi colleghi.
“Dottoressa?”, la distrasse Mattia, in attesa di una risposta.
“No, non ero io… purtroppo…”, mormorò.
“Sa, io non credo di essere mai morto. Voglio dire… io ricordo delle cose, a sprazzi. Mi hanno messo in una sacca nera, può essere?”, domandò confuso.
La dottoressa fece mente locale per capire a cosa si stesse riferendo il giovane. Sgranò gli occhi preoccupata quando intuì il motivo per cui qualcuno avesse deciso di mettere un corpo in quel tipo di sacca.
“Mattia, devo farti un’analisi del sangue, ok?”, disse evidentemente ansiosa.
“Aspettami qui, non fare rumore. Arrivo subito”, gli ordinò uscendo dalla stanza e chiudendo a chiave la porta alle sue spalle.
Scese le scale di sicurezza in caso di incendio, passò dal corridoio di ortopedia e raggiunse il laboratorio di analisi dove recuperò il necessario per il prelievo e una flebo di soluzione salina. Durante il tragitto ripensò alle parole del ragazzo e si rese conto che in tutta quella faccenda c’era qualcosa di strano, qualche conto che non tornava, la scocciante mancanza di qualche puntino su alcune ‘i’ che disturbava il flusso degli eventi che per legge, o etica professionale?, si sarebbero dovuti seguire.
Chi aveva portato quel povero ragazzo all’obitorio? Lo avevano chiuso in una sacca da contagio quando era ancora vivo rischiando di ucciderlo sul serio, vista l’impermeabilità all’aria del materiale di cui sono costituite quelle sacche. La dottoressa capì che doveva assolutamente capire se Mattia fosse stato contagiato da qualcosa e, in caso affermativo, da cosa esattamente.
Tornata al suo studio, effettuò il prelievo a fatica e poi attaccò la flebo di soluzione salina al ragazzo, che si sdraiò sul lettino tranquillo.
La donna guardò attentamente le due provette di sangue che era riuscita a prelevare e sospirò:
“È troppo poco per un’analisi completa. Mi puoi aiutare a capire cosa cercare?”
Il ragazzo si morse il labbro e poi rispose:
“Non saprei come aiutarla…”
“Devi solo rispondere sinceramente a un paio di domande, ok?”
Mattia si limitò a fare un cenno con la testa.
“Usi droghe?”, chiese lei per sapere su quale tipo di sostanza orientarsi, eventualmente.
“No, mai, non fumo nemmeno”, rispose convinto.
“Che tu sappia hai allergie alimentari gravi o malattie”, insistette lei, cercando di restringere il campo delle probabili cause dello svenimento del ragazzo.
“No, niente, ma sono stato molto male, prima di… morire o… perdere i sensi. Tutto è accaduto in pochi istanti e, non so… non c’era nessuno con me… non riuscivo a respirare e sentivo… caldo…”, spiegò tutto agitato.
“Ok, ok, Mattia, calmati. Non preoccuparti, ora ci penso io a farti stare meglio. Vado a fare questa analisi e spero di avere fortuna e trovare la causa del tuo malore. Va bene? Tu stai qui e cerca di riposare”.
La dottoressa Rizzi fece il suo ingresso sbuffando.
Odiava la pioggia.
Odiava il traffico generato dalla pioggia e le pozzanghere profonde come stagni ai lati delle strade. Soprattutto detestava l’imbecillità del tizio che, senza alcun rispetto per l’altrui presenza, era deliberatamente passato con la sua merda macchina radente al marciapiede, generando uno tsunami di ragguardevoli dimensioni, che l’aveva investita bagnandole addirittura i capelli.
Inutile stramaledirlo.
Più precisamente, nel suo caso particolare era meglio non stramaledire nessuno, visto quanto accaduto qualche anno prima.
Un altro emerito idiota la stava per investire sulle strisce pedonali. Non si era nemmeno scusato e l’aveva mandata a quel paese. In tutta risposta lei aveva ingenuamente sussurrato un comunissimo ‘che ti venisse un colpo'. Tre giorni dopo, l’uomo era sul tavolo freddo dell’obitorio con lei che lo guardava esterrefatta.
Infarto del miocardio. Tipico di chi beve e fuma troppo e a quarant’anni ha il fisico di un ottantenne.
Non valeva nemmeno la pena perdere tempo a fargli l’autopsia richiesta dalla famiglia.
La dottoressa sapeva bene cosa avrebbe trovato aprendo una grossa Y sul torace dell’uomo: polmoni neri come catrame, cuore accartocciato e indurito dall’infarto e, con molta probabilità, un fegato ridotto a brandelli dall’alcool.
Se fosse stato per lei, sul referto dell’autopsia avrebbe aggiunto una delle cause di morte in assoluto più comuni al mondo: idiozia.
Da quel giorno aveva imparato a non stramaledire più nessuno. Semplicemente chiudeva gli occhi, faceva un respiro profondo e poi, ritrovata la dovuta calma, riprendeva la sua giornata come se nulla fosse accaduto.
Alcune volte, però, non era così semplice. Di fatto arrivare a lavoro completamente fradicia e dover rimanere al freddo dell’obitorio per ore con capelli e vestiti bagnati non era l’ideale.
Buttò il misero ombrellino ‘usa e getta’ da cinque euro comprato da un extracomunitario appena fuori dalla metro nel bidoncino della spazzatura del guardaroba. Si spogliò dei vestiti fradici e s’infilò una casacca a maniche corte, un paio di pantaloni di cotone e un camice bianco, giusto per cercare di non prendersi una polmonite. Si legò i capelli in una coda alta e uscì dal guardaroba con in mano la cartellina dell’unico ‘paziente’ che avrebbe dovuto analizzare quella mattina.
Un brivido di freddo le percorse le ossa appena il suo corpo venne in contatto con i meravigliosi sedici gradi della stanza di lavoro. Mentre si infilava i guanti in lattice, guardò il foglio stampato sulla cartellina e strabuzzò gli occhi: maschio, 17 anni.
‘Povera creatura…’, il suo unico pensiero, prima di aprire la cella frigorifera numero 6.
La maniglia scattò con il consueto click di sempre, lo sportello si aprì su un quadrato stranamente buio.
Di norma, il carrello estraibile, su cui era posto il corpo del defunto, spiccava nel suo freddo e luccicante metallo lungo il bordo inferiore dell’apertura.
La dottoressa arrivò a domandarsi se avesse aperto la cella sbagliata o forse qualcuno aveva riportato un numero errato sul fascicolo.
Fece spallucce e infilò la mano, per cercare di acchiappare la barra fissata alla testa dell’asse ed ebbe la stranissima sensazione che le sue dita, il palmo e parte del polso non venissero avvolti dal buio e dal freddo, ma da un denso fumo caldo.
Afferrò la barra con una certa inquietudine ed estrasse il carrello.
Per poco non le venne un colpo nel constatare che le palpebre del ragazzo erano state lasciate aperte e due iridi cristalline fissavano il vuoto.
‘Bello scherzo del cazzo…’
Sospirò cercando di riprendersi e chiudendo, uno dopo l’altro, gli occhi del giovane.
Senza ulteriori indugi, fece scorrere l’asse di metallo sull’apposito carrello necessario per spingere i cadaveri nello stanzino riservato alle autopsie.
Accese la lampada al centro della stanza, prese uno sgabello, la cartellina relativa al corpo da esaminare e iniziò, con la consueta precisione, il suo lavoro.
Si assicurò che il nastro del registratore fosse nuovo e premette il tastino nero di ‘play’ e, contemporaneamente, quello rosso di ‘rec’, per dare il via alla registrazione dell’intera autopsia.
Da molto tempo la dottoressa Rizzi svolgeva questo lavoro con minuziosa dedizione. Mai, in tre lunghi anni di carriera, aveva saltato un passaggio fondamentale dell’autopsia che stava svolgendo. Una delle prime procedure che era abituata a non trascurare, non esattamente da protocollo, visto che era più per screzio personale che per effettiva necessità, era quella di auscultare il cuore del malcapitato. Lo faceva per puro scrupolo. Sapeva che mai e poi mai avrebbe avuto la fortuna di trovarsi di fronte a una presunta morte, rivelatasi erroneamente classificata come decesso.
Si infilò gli auricolari dello stetoscopio nelle orecchie e appoggiò il piattello sul torace del giovane.
Nel silenzio della sala il cuore le saltò in gola non appena vide dei brividi percorrere la pelle del ragazzo.
Fece un passo indietro e andò inavvertitamente a sbattere contro il carrello su cui era appoggiato il registratore che, inevitabilmente, cadde a terra sparpagliando batterie e nastro magnetico sul pavimento.
‘Merda’, mormorò chinandosi per raccogliere tutti i pezzi.
Fu quando stava per rialzarsi che li vide.
Lasciò cadere di nuovo il registratore a terra e si portò le mani alla bocca per soffocare un grido di spavento.
Dal bordo del tavolo su cui giaceva il suo paziente, pendevano due piedi rosacei, magri e lunghi.
Trattenendo il fiato la dottoressa si alzò molto lentamente e la sua angoscia crebbe ancora di più quando, una volta in piedi, si accorse che il giovane se ne stava seduto tranquillo sul bordo, con le gambe a penzoloni e la testa leggermente inclinata.
La dottoressa girò attorno al tavolo, per poterlo guardare in volto.
Era pallidissimo. Profonde occhiaie gli incorniciavano due occhi di cristallo dallo sguardo vitreo.
La donna inghiottì il niente.
Istintivamente prese un lenzuolo da una branda vicina e glielo porse, per permettergli di coprirsi sia dal freddo della sala che dalla vergogna di trovarsi nudo davanti a una sconosciuta.
Il ragazzo non si mosse. La guardava impassibile, come se lei fosse in qualche modo trasparente. Decise di farsi coraggio e di avvicinarsi per coprirlo lei stessa con il telo. Lui semplicemente la lasciò fare senza dire niente, senza muovere un muscolo.
La dottoressa si ritrasse di nuovo di un passo e fece un sospiro. Si inumidì le labbra e si decise a parlare.
“Mi chiamo Agata. Agata Rizzi. Sono un medico. Tu come ti chiami?”
“Mattia”
Sussurrò sottovoce.
“Sai dove ti trovi?”, chiese lei mordendosi la lingua subito dopo: ‘ma che bella domanda idiota, brava dottoressa Rizzi, sei la campionessa di psicologia’, si arrabbiò con se stessa.
Il ragazzo inclinò la testa di lato e non rispose.
Come poteva spiegargli che si trovava all’obitorio in quanto ritenuto morto per un malore ancora senza spiegazione?
La dottoressa si mise a cercare le parole giuste per non farlo spaventare, ma prima di potergli fornire una spiegazione il ragazzo disse:
“Ho freddo e fame e sete, anche”.
La donna accennò un sorriso. Pensò che se un bambino appena nato avesse potuto parlare, sicuramente si sarebbe lamentato delle stesse cose.
Che Mattia fosse rinato in una nuova vita?
Le priorità in quel momento erano altre.
Andò al distributore e riempì un bicchiere di acqua a temperatura ambiente. Glielo porse, pregandolo di bere con molta calma.
Agata pensò che doveva portarlo al caldo e trovargli qualcosa di nutriente da mangiare.
“Vieni, ti porto via di qui, così ti aiuto a rimetterti in forma e potrai tornartene a casa, ok?”, gli disse invitandolo a spostarsi su una sedia a rotelle.
“No, niente casa, niente ca…”
Non riuscì a finire la frase che svenne adagiandosi sul tavolo delle autopsie.
“Cazzo, no!”, mormorò la dottoressa fra sé.
Prese in fretta lo stetoscopio e auscultò il torace del giovane alla disperata ricerca di un battito, un sibilo.
Trattenne il fiato per qualche secondo fino a quando, limpido come il gocciolamento di un rubinetto in piena notte, sentì il cuore del giovane pompare a ritmo regolare.
Fece un sospiro di sollievo, poi prese una barella dotata di rotelle, di quelle in dotazione ai portantini per trasportare i cadaveri all’obitorio e la affiancò al tavolo. Con non poca fatica riuscì a sistemare il ragazzo sulla lettiga e lo coprì con un lenzuolo.
Come si fosse svegliato dalla morte era un mistero che voleva risolvere, ma decisamente dopo aver capito come fosse finito all’obitorio e anche il motivo per cui non voleva tornare a casa. Mentre percorreva il corridoio sotterraneo che conduceva agli ascensori, le luci si accendevano automaticamente al passaggio della barella spinta dalla dottoressa, per poi spegnersi subito dopo avvolgendo la via già percorsa in un buio tetro.
Arrivata agli ascensori la donna premette l’unico pulsante presente di lato, quello con la freccetta verso l’alto. Le porte si aprirono proiettando un quadrato di luce fioca e intermittente nel corridoio.
“Ma cambiare ‘sti cavolo di neon, ogni tanto, no, eh?”, mormorò nervosa fra sé.
Premette il pulsante corrispondente al terzo e ultimo piano, dove si trovava il suo studio e il reparto di terapia intensiva, in cui avrebbe voluto trovare una stanza per Mattia.
Arrivata al piano, uscì dall’ascensore spingendo la barella fino alla saletta dove normalmente gli infermieri pranzavano o facevano pausa. Consultò la lista delle camere per controllare se ce ne fosse una libera per il suo paziente, ma non ebbe fortuna. Decise quindi di portare la barella direttamente nel suo studio, almeno lì il ragazzo sarebbe stato al caldo.
Una volta entrata, si stropicciò gli occhi, per cercare di fare mente locale su quali fossero le priorità e, come prima cosa, si rese conto che la temperatura della stanza era molto gradevole. Ciononostante, doveva assolutamente trovare degli abiti caldi e puliti per il giovane, oltre che del cibo e cercare il suo responsabile per informarlo di quella che lei considerava un’ottima notizia: il risveglio di Mattia.
Si avvicinò con l’orecchio al naso del ragazzo per sentire il lieve respiro che usciva dalle narici.
Lo lasciò a dormire e uscì dallo studio chiudendo la porta a chiave.
Mentre percorreva il corridoio verso gli ascensori si rese conto che qualcosa di strano doveva essere successo, quella mattina. In giro non c’era personale. Dove erano finiti medici e infermieri di quel reparto? Pensò che fossero in qualche camera per visitare dei pazienti o che fossero andati tutti a pranzo. Poco importava, prima o poi avrebbe incrociato il suo responsabile da qualche parte, visto che l’ospedale non era così grande.
Prese l’ascensore per il piano terra, dove si trovava il pronto soccorso e una grande sala al cui centro c’era un bancone circolare con sopra un cartello riportante a caratteri cubitali la scritta ‘ACCETTAZIONE’. Lungo la parete sinistra, una serie di macchinette distributrici di cibo e bevande di tutti i tipi era lì a soddisfare le esigenze dei gusti più disperati, dai vegani ai celiaci, dai diabetici ai cardiopatici.
Fu quando le porte dell’ascensore si aprirono che la dottoressa capì dove fossero finiti tutti. Il pronto soccorso era l’inferno. C’erano barelle ovunque con feriti e persone che si lamentavano. Chi piangeva, chi gridava ‘aiuto’, chi fermava infermieri per chiedere informazioni. Agata sgranò gli occhi e, senza pensarci un secondo, si buttò in quel marasma senza fine.
Si avvicinò al bancone dell’accettazione e alla segretaria, che disperata cercava di rispondere a tutti, chiese cosa fosse successo e se poteva dare una mano.
“Un’autobus… la pioggia… c’è stato un incidente… non so altro”, le rispose la ragazza.
Fu in quel momento che la dottoressa capì che le sue priorità per quella mattina erano appena cambiate. Si rimboccò le maniche e, poco alla volta, si occupò prima dei pazienti più gravi e poi di quelli meno urgenti. Stava giusto finendo di firmare un referto, quando sentì alle sue spalle la voce del suo responsabile. Si voltò e lo vide sfrecciare nel corridoio scortando una barella su cui giaceva un ferito grave.
“Presto, in sala operatoria!”
La dottoressa lo seguì e, quando il medico la vide, senza smettere di correre dietro alla barella, le disse:
“Ah, Agata! Grazie che sei venuta ad aiutare! Già che ti vedo, ti informo di lasciar perdere l’autopsia del Volpi; la famiglia ha chiesto di mandare subito il corpo al crematorio”.
“Ma… veramente”, cercò di interromperlo la donna, per avvisarlo del risveglio del ragazzo.
Il medico nemmeno la sentì, preso com’era dall’urgenza dell’operazione che stava andando a svolgere. Lei lo vide salire in ascensore e l’ultima cosa che riuscì a capire, prima che si chiudessero le porte fu: “La famiglia vuole fare i funerali domani”.
La dottoressa strabuzzò gli occhi. Com’era possibile che dei genitori, che avevano perso un ragazzo così giovane, non volessero sapere quale fosse la causa della morte? Non era mai capitato, in tutti i suoi anni di carriera, che una famiglia chiedesse di non effettuare un’autopsia per una morte così prematura.
Frastornata si guardò intorno per capire se qualcun altro aveva bisogno di assistenza. Quando realizzò che il suo aiuto al pronto soccorso non era più richiesto, guardò l’orologio e sgranò gli occhi nel constatare che aveva lasciato Mattia da solo, chiuso nello studio, per più di due ore. In tutta fretta andò a cercare qualcosa da mangiare e da bere ai distributori automatici, che però erano stati letteralmente depredati di tutto quanto contenessero dalla miriade persone che erano in attesa dei loro cari dimessi dal pronto soccorso. Trovò solo un paio di tramezzini al tonno e una bottiglietta di bevanda energetica, che si accaparrò prima che un signore grande e grosso riuscisse a farsi cambiare in moneta una banconota da venti euro.
Poi passò dal guardaroba dove si cambiavano gli infermieri del pronto soccorso per recuperare una divisa pulita e, molto velocemente, tornò al suo studio. Fu quando entrò che il cuore le saltò in gola. Depositò tutte le cose che aveva in mano sulla scrivania e andò in fretta a soccorrere il ragazzo il cui corpo giaceva scomposto sul pavimento.
“Hey, Mattia! Mattia, svegliati! Come hai fatto a cadere dalla branda? Dai, vieni che ti aiuto a rialzarti!”, lo incitò.
Lo fece sedere sul lettino che lei usava quando aveva il turno di notte in reparto.
Lo aiutò a vestirsi e poi gli porse i due panini e la bibita.
Il ragazzo mangiò tutto lentamente, bevve a canna il liquido arancione ipervitaminico e alla fine si pulì la bocca con il dorso della mano.
“Grazie, sto meglio”, disse solo.
Gli si sedette accanto e lo osservò con occhio critico.
“Come ti senti, hai dolore da qualche parte? Senti ancora freddo?”, gli chiese poggiandogli la mano sulla fronte, per verificare se avesse qualche linea di febbre.
Constatò con un sospiro di sollievo che la temperatura del corpo era pressoché uguale alla sua.
Poi gli prese il polso tra le dita e contò i battiti che sembravano decisamente regolari, quelli di un ragazzo in perfetta salute.
Lui si fece visitare senza dire nulla.
Fu quando la dottoressa prese una pila e tentò di verificare la risposta oculare, che lui si ritrasse indispettito.
“No, no! Questo è brutto! No!”.
Lei spense la pila e la rispose nella tasca del camice.
“Ok, scusa. A parte il fastidio alla luce, c’è altro?”, chiese a bassa voce.
“No, sto bene. Mi può dire cosa è successo? Come sono finito qui? Ricordo le palle rosse e dorate dell’albero di Natale e poi che mi sono sentito male e… gente che… parlava attorno a me…”, chiese lui un po’ frastornato.
“L’altro ieri sera ti hanno trovato disteso sul pavimento del salotto di casa tua, privo di vi… apparentemente privo di vita. È stata chiamata l’ambulanza e la polizia. Accertato che non respirassi più, sei stato portato all’obitorio, dove io stavo per farti l’autopsia…”
La dottoressa a quel punto si alzò e andò a guardare fuori dalla finestra, ripensando a quanto fosse stato proverbiale il suo controllo del battito cardiaco prima di prendere in mano il bisturi.
Si voltò solo quando il ragazzo la interpellò con una domanda che la stupì non poco.
“È venuta lei a constatare che fossi morto?”
Lei incurvò le sopracciglia in uno sguardo serio e prese in mano la cartellina relativa all’autopsia che avrebbe dovuto svolgere.
Guardò la firma, o meglio lo scarabocchio, in calce al documento di morte accertata dal medico legale di turno e non riconobbe il nome di nessuno dei suoi colleghi.
“Dottoressa?”, la distrasse Mattia, in attesa di una risposta.
“No, non ero io… purtroppo…”, mormorò.
“Sa, io non credo di essere mai morto. Voglio dire… io ricordo delle cose, a sprazzi. Mi hanno messo in una sacca nera, può essere?”, domandò confuso.
La dottoressa fece mente locale per capire a cosa si stesse riferendo il giovane. Sgranò gli occhi preoccupata quando intuì il motivo per cui qualcuno avesse deciso di mettere un corpo in quel tipo di sacca.
“Mattia, devo farti un’analisi del sangue, ok?”, disse evidentemente ansiosa.
“Aspettami qui, non fare rumore. Arrivo subito”, gli ordinò uscendo dalla stanza e chiudendo a chiave la porta alle sue spalle.
Scese le scale di sicurezza in caso di incendio, passò dal corridoio di ortopedia e raggiunse il laboratorio di analisi dove recuperò il necessario per il prelievo e una flebo di soluzione salina. Durante il tragitto ripensò alle parole del ragazzo e si rese conto che in tutta quella faccenda c’era qualcosa di strano, qualche conto che non tornava, la scocciante mancanza di qualche puntino su alcune ‘i’ che disturbava il flusso degli eventi che per legge, o etica professionale?, si sarebbero dovuti seguire.
Chi aveva portato quel povero ragazzo all’obitorio? Lo avevano chiuso in una sacca da contagio quando era ancora vivo rischiando di ucciderlo sul serio, vista l’impermeabilità all’aria del materiale di cui sono costituite quelle sacche. La dottoressa capì che doveva assolutamente capire se Mattia fosse stato contagiato da qualcosa e, in caso affermativo, da cosa esattamente.
Tornata al suo studio, effettuò il prelievo a fatica e poi attaccò la flebo di soluzione salina al ragazzo, che si sdraiò sul lettino tranquillo.
La donna guardò attentamente le due provette di sangue che era riuscita a prelevare e sospirò:
“È troppo poco per un’analisi completa. Mi puoi aiutare a capire cosa cercare?”
Il ragazzo si morse il labbro e poi rispose:
“Non saprei come aiutarla…”
“Devi solo rispondere sinceramente a un paio di domande, ok?”
Mattia si limitò a fare un cenno con la testa.
“Usi droghe?”, chiese lei per sapere su quale tipo di sostanza orientarsi, eventualmente.
“No, mai, non fumo nemmeno”, rispose convinto.
“Che tu sappia hai allergie alimentari gravi o malattie”, insistette lei, cercando di restringere il campo delle probabili cause dello svenimento del ragazzo.
“No, niente, ma sono stato molto male, prima di… morire o… perdere i sensi. Tutto è accaduto in pochi istanti e, non so… non c’era nessuno con me… non riuscivo a respirare e sentivo… caldo…”, spiegò tutto agitato.
“Ok, ok, Mattia, calmati. Non preoccuparti, ora ci penso io a farti stare meglio. Vado a fare questa analisi e spero di avere fortuna e trovare la causa del tuo malore. Va bene? Tu stai qui e cerca di riposare”.
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