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Autore: Onirica    09/12/2024    0 recensioni
Quattro giovani e nobili campioni si sfidano alla storia migliore nella città medioevale di Bonomìa
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LA CONTESA DEI QUATTRO ELEMENTI

Dopo i sanguinosi scontri tra i sostenitori dell'Imperatore Barbarossa ed i difensori del potere papale, la città di Bonomia è ridotta allo stremo. Ma per organizzare una resistenza interiore, i giovani di cui la città pullula da almeno un secolo per gli studi di diritto all'Università, per goliardia e piacer d'incontro altrui mettono in piedi una balda contesa senz'arma, che si disputi con lealtà e soltanto in forza della propria capacità retorica.

E vanno in delegazione gli studenti per ogni zona della città, immaginata come tagliata in quattro parti secondo i punti cardinali; ciascuno di questi popoli nominato con uno dei quattro elementi naturali quali descritti dal filosofo greco. Si hanno così a nord il popolo delle montagne, custode dell'Aria, a sud il popolo dei boschi, custode del Fuoco, ad est il popolo della pianura, custode della Terra , ad ovest il popolo del fiume, custode dell'Acqua. Di buon grado la popolazione sfinita da sacrifici ed orrore, accoglie l'accorato appello degli esuberanti studenti ad eleggere fra loro un campione da presentare alla contesa. Si mette a regola anche che dovrà trattarsi complessivamente di due uomini e due donne valenti nel narrare istorie e di età inferiore alle venti primavere. 

Nel documento originale del 1183 scritto in buon latino, custodito tra le mura della  Magnifica Accademia, come e perché arrivò in tal sede resta misterioso, si diceva all'incirca: "Nella città di Bonomia, in piazza Magna, davanti ai reggitori del Comune ed alle rappresentanze di studenti, professori e cittadini, quattro campioni si affronteranno. Con perfetta lingua dovranno sfidarsi, avanti il popolo cittadino ch'eleggerà qual narratore è il migliore in tutta la città, a congegnar una fiaba secondo l'elemento naturale loro affidato in custodia. Siano prescelti quattro ragazzi d'animo nobile, due donne e due uomini, e con essi parta una delegazione dai quattro angoli della città. Converranno nel giorno del Santo Patrono alla piazza Grandissima ove declameranno il buon proposito secondo i criteri che già furono dei più grandi favolisti dell'antichità. La popolazione tutta eleggerà il principe dei retori che sarà in carica per tutto l'anno a venire.”

E di seguito sono trascritte le favole congegnate dai campioni.

“La fiaba del popolo custode della Terra, raccontata da Gaia Viridis, a lungo dimorante presso il monastero di Ildegarda da Bingen, e novizia.

Un tempo molto antico la Terra che si chiamava Gaia, esattamente come me, dava origine a tutti gli esseri viventi. Ecco perché si dice ancora "la terra che mi ha dato i natali". Come un bambino nel ventre della madre così essa generava nelle grotte ipogee un cane, un rovere, una mosca, una civetta e persino un persico: quando erano bell'e pronti dalle fessure delle grotte uscivano all'aperto con le loro chiome, o fiorivano in superficie, piombavano nei corsi d'acqua o prendevano il volo nell'aria. Gaia generò insieme al suo consorte Urano anche i Titani, i quali però, a differenza di tutti gli altri viventi, si atteggiavano con prepotenza verso le creature della madre, poiché avevano preso coscienza che nessuno aveva la capacità di contrapporsi loro. Erano enormi, golosi ed avidi al punto di considerare con sufficienza gli altri abitanti del pianeta Li soggiogavano seviziandoli, ne usavano a spreco e non si saziavano con violenze e crudeltà vili, maltrattandoli senza misura. Gaia, sdegnata per la tracotanza dei figli, smise di concedere il suo generoso ventre per creare i viventi; così facendo i Titani si trovarono privati di nutrimento e deboli di fronte alla nuova divinità che stava crescendo, ovvero Zeus; quest'ultimo li soggiogò e costrinse ad un comportamento rispettoso, della madre quanto delle sue creature, e, poiché la terra rischiava di restare spopolata, non costrinse la sua ava Gaia a nuovi estenuanti parti, ma, modificando la natura della vita stess,a agì trasformando le creature, dotandole del sesso dove necessario e le istruì affinché aumentassero di numero e specie nella maniera che ora tutti conosciamo, e non più attraverso la genesi nella parte ipogea del nostro pianeta.”

Quindi per tutti voi che udite, non sia mai più che manchiate di rispetto alla vita per la vostra avidità o crudeltà

La fiaba del popolo custode dell'Acqua, raccontata da Miriam dell'Onda nata a Gerusalemme e tornata alle nostre terre al rientro dalla crociata per mare a seguito del padre da cui il suo cognome. “La vicenda che vado a raccontare si è svolta nella terra contesa dalla quale provengo, proprio al tempo in cui nacque il nostro Salvatore Gesù. Dovete sapere che insieme a quei saggi re che fecero omaggio all'Emmanuele nella grotta nei suoi primissimi giorni di vita, proprio insieme a loro che stavano seguendo la Stella, c'era una donna, regina orientale anch'essa, istruita e sapiente come ed anche più degli altri nobili di quel tempo. Sfuggita anzitempo, rispetto agli altri tre Magi, alle lusinghe di Erode, curioso di conoscere il Bambino figlio di Dio per sopprimerlo, appena ebbe saputo in anticipo dell'orribile proposito del monarca del tempo di massacrare tutti i primogeniti onde evitare di essere spodestato, si adoperò onde trarre in salvo il maggior numero possibile di infanti; mandando suoi emissari in ogni direzione nella città, chiese che si recassero le madri con i poppanti presso il fiume, onde attraversarlo ed aver salva la vita; ma giunte là, i soldati le accerchiavano e tentavano in tutti i modi di sopprimere le giovani creature. Come Miriam della quale porto il nome si adoperò a salvare il suo fratello Mosè attraverso una cesta nelle acque del Nilo, così la Regina Maga trasformò all'istante i piccoli in vivaci trote che sgusciarono nel torrente ed ella stessa per garantire la salute ai piccoli, si trasformò in una lucente fario; risalendo le acque sfuggirono ai malintenzionati.

Quindi per tutti voi che udite, non si manchi mai di rispetto alle creature viventi che abitano le acque, memori di questa novella appena terminata.”

La fiaba del popolo custode dell'Aria, raccontata da Celestino Leggero detto Nefòs, discendente dagli antichi abitanti della città sin dal regno di Bisanzio. “Gli uccelli del cielo si racconta andarono un bel giorno a lamentarsi con il dio dell'aria e dei venti Eolo in merito al comportamento degli uomini della loro città che, per produrre legna e carbonella, avevano abbattuto la loro foresta, quindi la loro casa, ma avevano anche ammorbato tutta l'aria nella quale si trovavano per loro natura ad abitare e quindi non avevano di che nutrirsi e sopravvivere. Eolo rassicurò le creature alate che si sarebbe fatto carico di buon grado del problema. Fiducioso nel buon senso degli uomini ai quali era molto affezionato, si propose loro in sembianze da viandante ed andò per le loro piazze a far presente le lamentele dei suoi protetti, gli uccelli. Fu scacciato deriso e preso per pazzo l'uomo che parlava con  gli uccelli: diventò uno zimbello di tutte le città che aveva attraversato. Il comportamento degli umani peggiorò, facendosi ancor più irrispettoso e tracotante, sì che il dio s'adirò profondamente con essi. Come le orecchie di essi erano chiuse, così anche i rubinetti del cielo cessarono di far fuoriuscire l'acqua; l'amica di Eolo, infatti, Ombria, impediva alle nuvole di formarsi e rovesciare il generoso stillicidio sulla terra. Nè più le brezze resero le giornate gradevoli, o la rugiada nutriva i fiori. Ineluttabile e quotidiano, il sole bruciava le aride zolle, ora private della preziosa ombra degli alberi. Terminata l'estate rovente, oscurati i cieli dai grevi fumi neri prodotti dalla combustione della terra incandescente ed a causa del fumo levato per la trasformazione di legna in carbonella, l'aria s'ammorbò e divenne nera; da insana presenza inquietante, si oscurò la nostra stella e non fu in grado di lasciar passare nemmeno un raggio di sole. All'estate afosa ed opprimente, si alternò un inverno buio e gravido di gelo, determinato a sterminare il genere umano sul pianeta.

Gli empi perirono ed, i pochi timorati del Dio, pentendosi amaramente per la tracotanza di cui si erano macchiati, chiesero perdono per le loro folli azioni con riti propiziatori e sacrifici e preghiere. Pregando tanto Zeus quanto Eolo costruirono case per gli uccelli e ripresero a seminare alberi, per ridare alloggio e dignità a tutte le creature volgarmente considerate. Le due divinità si commossero: pur scatenando un vento potentissimo con orribili fulmini per dare un esempio del loro potere, li salvarono dal morbo. 

Quindi per tutti voi che udite, non siate tracotanti né verso gli dei né verso la natura.”

La fiaba del popolo custode del fuoco, raccontata da Glauco Flamma, patrizio di famiglia antichissima, di quando ancora c’era in città il dominio dell’Impero Romano.

“La mia storia è meno risalente di quella degli altri campioni, già erano stati inventati molti degli artifici che rendono la vita più gradevole; ciò nondimeno spesso le città si davano battaglia per la supremazia sui mari, in particolare quelle due di cui io narrerò erano state edificate lungo la costa del mare e si contendevano la superiorità nei commerci nonostante fossero l’una generatrice dell’altra. Accadeva infatti che, a seguito della gloria economica della propria colonia, la città madre volesse riunirla a sé per ottenerne dazi ed altri vantaggi, ma quest’ultima si rifiutasse per non farsi privare della propria autonomia. Si era giunti ad un lunghissimo assedio nato da un dissidio per tasse non onorate tra Metropoli e la sua colonia, Demo, la quale si dichiarava ormai emancipata dalla città che aveva dato i natali ai suoi fondatori. Demo significa “Popolo”, è una denominazione generica; perciò descrivere meglio dove il fatto accadde non è facile, ma ugualmente spero non vi dispiacerà il mio racconto. Dunque nelle carceri più profonde giaceva in abbandono insieme ad altri cittadini inviati da Metropoli un famoso erudito di quel tempo mandato a trattare la pace. La battaglia stazionava in una stressante situazione di stallo , che nuoceva non tanto all’esercito nemico, sistemato alle porte della città, regolarmente approvvigionato di ogni bene necessario dalla Metropoli, quanto per gli assediati, privati di ogni accesso alle fonti d’acqua ai proprio commerci ed alle forniture di cibo. Per un puro caso, mentre i prigionieri venivano trasferiti dal carcere al palazzo di giustizia, accadde che uno dei giovani maggiorenti della città riconoscesse il suo antico maestro ed istitutore, originario della fazione nemica, condotto in catene nella più misera delle condizioni umane, la privazione della libertà. Dopo averlo chiamato, fece di tutto per seguirlo a palazzo ed interessarsi del suo destino; tanto fu scosso dall’aver visto questi esseri umani tradotti in catene come vili traditori, che chiese immediatamente udienza al proprio tiranno e perorò la causa del suo amato maestro; ne lodò le incredibili doti di stratega, matematico e retore, fu tanto convincente da persuadere il regnante a dargli udienza ed ottenere una sospensione della pena per quegli in persona e per tutto il suo seguito, garantendo personalmente per ciascuno di essi.  Il nostro campione, di nome Diomede, potè incontrare e riabbracciare l’antico istitutore, accogliendolo presso la sua dimora. Ebbero un’intera giornata per concordare una linea difensiva per recuperare la dignità per sé e per il suo seguito, mentre guardie armate attendevano a tutti i capi della tenuta. Preso atto della attuale condizione che impegnava entrambe le parti in reciproco detrimento si stipulava un accordo, alla presenza di tre nunzi della parte avversa, per la vantaggiosa condivisione di tutti i migliori: le eccelse terme, la fornitissima biblioteca, ricca di volumi rarissimi e papiri antichi, i teatri ed ogni forma di felice svago della città, al fine di una pacifica e gioiosa riconciliazione.  Le conoscenze fisiche e chimiche dello studioso avrebbero potuto consentire anche una soluzione altrimenti più sanguinosa, ma per la fama di questi, ben noto in patria, si addivenne all’armistizio, e, nei mesi a seguire, nel definitivo cessate il fuoco con abbandono del faticoso assedio. Dunque si abbia rispetto per la conoscenza e lo studio, che sono tanto formidabili nella nostra città.”

Non fu decretato chi ottenne la vittoria, o non ne giunse testimonianza. Certo è che le tenzoni di storie straordinarie sono sempre attuali ed assai partecipate anche nella modernità e forse, finché l’uomo popolerà la dolce Terra, sempre ne verranno bandite. 

Ch’io sia fortunata nell’avervi proposto la mia!

 
   
 
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