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La luce entrava attraverso la magnifica vetrata, composta di moltissimi tasselli di una tinta prevalentemente blu, che facevano da sfondo ad un incastro di tessere dai mille colori, raffiguranti una magnifica figura di donna quasi nuda, un poco stilizzata, con i capelli abbandonati sulle spalle, avvolta in un leggero scialle trasparente ed ondeggiante in una brezza ed un fiore stretto in mano, circondata da ghirlande di corolle e foglie intrecciati tra loro, andando ad illuminare, con migliaia di diverse sfaccettature e sfavillii, il pavimento splendente della grandiosa costruzione; ed un raggio di sole colpiva in pieno la figura austera ed impeccabile del commissario Pancrazio Del Pollaio, un uomo tutto d’un pezzo, che teneva tanto alla disciplina quanto alla perfetta riuscita di qualsiasi indagine gli capitasse di svolgere, fosse la caccia ad un ladro o la ricerca di un portafoglio perduto.
Eppure, in quell’occasione, il famoso commissario doveva ammettere di essere arrivato troppo tardi, di avere miseramente fallito il proprio incarico; ma, e questo lo confortava, lui non aveva alcuna colpa, perché aveva fatto il proprio lavoro nella maniera più ineccepibile, come sempre, del resto, e nulla aveva da rimproverarsi. Se c’era da incolpare qualcuno, per quel fallimento, era sicuramente quella testa vuota del giudice Abbondanzio Dalla Via; quell’uomo tronfio, difatti, per paura di sporcarsi le mani con qualche personaggio importante, aveva combinato un enorme pasticcio. Ma il commissario era più che sicuro che la colpa, alla fine, sarebbe ricaduta tutta su di lui, come sempre, in quei casi. E ne prendeva atto imperturbabilmente, tanto più che non avrebbe potuto farci assolutamente nulla.
D’altra parte, Del Pollaio era ben consapevole di come le forze dell’ordine fossero sempre prese di mira dall’opinione pubblica, come se c’entrassero qualcosa, loro, con le pazzesche decisioni dei giudici e dei loro degni consimili; ma egli era anche certo di avere la coscienza pulita e di non avere fatto altro che il proprio dovere di cittadino e di difensore della legalità, come del resto non aveva mai trascurato di fare.
Aveva fatto tutto il possibile per assicurare alla giustizia un uomo malvagio, colpevole di un crimine contro lo Stato, ed il fallimento non era stato opera sua, ma del giudice; solo a quest’ultimo, infatti, era da addebitare la cattiva riuscita dell’indagine, una inchiesta tanto importante che, se fosse andata a buon fine, probabilmente il commissario sarebbe stato promosso immantinente ed avrebbe anche ricevuto le lodi del ministro dell’interno in persona, come minino.
Nonostante questa convinzione, mentre girovagava per la bellissima villa, costruita secondo lo stile dell’art nouveau, oramai irrimediabilmente vuota ed abbandonata, abitata forse solamente dai fantasmi, e magari non più nemmeno da quelli, il commissario non soffriva per avere perso un’occasione importante, non era quella la causa che lo faceva sentire come se fosse stato indisposto; non erano i meriti personali ad interessarlo, no.
Il motivo per cui non riusciva a godersi quei magnifici colori che penetravano dalle vetrate, e per cui si sentiva montare dentro un senso di rabbia crescente, era legato esclusivamente al fatto che mesi e mesi di indagini e lunghe veglie notturne trascorse su carteggi e documenti vari e di difficile interpretazione fossero stati vanificati a causa di un borioso uomo, smanioso di rendersi amico di personaggi apparentemente importanti e potenti, e di obbedire prontamente alle loro richieste; e nella sua mente immaginava, non senza un certo gradimento, di raggiungere quel buono a nulla di un giudice e prenderlo a calci fino a polverizzargli l’enorme deretano di cui la natura lo aveva provvisto.