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Autore: SSJD    30/12/2024    6 recensioni
Agata e Mattia.
La storia breve ma intensa di due persone unite e divise dall'ineluttabilità della morte.
Storia partecipante al contest "Un cocktail mortale", indetto da AndromacaNyx sul Forum di Efp.
Pacchetto Old Fashioned
Colori: Oro/Rosso
Causa della Morte: Esplosione
Genere: Angst
Genere: Angst, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo V



“Un Old-fashioned, per favore”
“Due, grazie”.
La voce di un uomo si accavallò a quella della dottoressa mentre, seduta al bancone di un bar in centro, ordinava da bere in attesa che Mattia la raggiungesse.
Nelle due settimane che erano seguite al loro ritorno dalla casa sul lago, tutto sembrava essere tornato alla normalità. Agata e Mattia avevano festeggiato insieme il Natale e il ragazzo aveva potuto cominciare a uscire di casa. Per camuffarsi, si era fatto crescere la barba e, con degli occhiali dalla montatura nera, era quasi irriconoscibile. 
Tutto sembrava essere sospeso tra un fortemente desiderato stato di quiete e un fastidioso senso di malessere dovuto al fatto che, dalle ultime notizie che avevano ricevuto, l’ormai ex commissario Villa e il suo collaboratore erano spariti nel nulla.  
Di fatto la dottoressa Rizzi viveva sempre con addosso un leggero stato di apprensione e aveva iniziato a sospettare di tutto e di tutti. 
Per questo motivo, la voce di quell’uomo giunta alle sue spalle per ordinare il suo stesso cocktail la fece sobbalzare. Si voltò per vedere se fosse Mattia che le aveva fatto uno scherzo, camuffando leggermente la voce, ma quando si accorse che chi aveva ordinato era un individuo di mezza età, la sua ansia iniziò a crescere. 
L’uomo le si sedette a fianco.
“Immagino sia libero questo posto”, le disse con fare spocchioso.
Agata alzò gli occhi al cielo. 
Il solito che cerca di rimorchiare…’, pensò scocciata. 
Quando il barista porse loro i calici, lei fece per prenderlo e andarsene, ma lui la fermò, afferrandola per un braccio e tirandola a sé, per mormorarle nell’orecchio:
“Fossi in lei non mi muoverei”.
Terrorizzata, Agata seguì il movimento del braccio destro dell’uomo che, con la mano libera, spostava leggermente il lembo della giacca, mostrandole l’impugnatura di una pistola che sporgeva dalla cintura dei pantaloni. 
Lo guardò terrorizzata e poi gli chiese:
“Chi-chi è lei? Cosa vuole da me?”
“Sono Villa. Il commissario, Villa. Beva il suo cocktail e non faccia sciocchezze. Se collabora e tutto va come deve andare, domani sera potrà festeggiare il veglione di Capodanno insieme a chi vuole, ok? Ora beva…”, le intimò l’uomo, con fare calmo ma minaccioso.
La dottoressa non poté fare altro che eseguire quell’ordine. Bevve l'Old-fashioned tutto d’un fiato e, poco dopo, capì che alla bevanda era stato aggiunto qualcosa che la stava facendo cadere nel totale oblio. L’uomo le ordinò di alzarsi e di seguirlo. Appena fuori dal locale, la dottoressa svenne tra le braccia del commissario. Lui non fece altro che portarla verso la sua macchina, caricarla nel bagagliaio come se fosse un sacco di patate e sedersi al posto di guida. 
Pensando che nessuno avesse visto quella che di fatto era la fase iniziale di un vero e proprio rapimento, mise in moto l’auto e partì immergendosi nel traffico cittadino, seguito inconsapevolmente da una motocicletta con a bordo la figura esile di un uomo, o forse di un ragazzo che, avendo assistito alla scena, aveva deciso di pedinarlo.
L’auto si recò fuori città. Il motociclista a debita distanza riuscì a seguire il veicolo fino a quella che sembrava essere una vecchia fabbrica abbandonata. Fiocchi di neve iniziavano a cadere leggeri saturando l’aria con un leggero fruscio. L’auto parcheggiò in una sorta di piazzale sterrato, proprio di fronte alla porta di ingresso di una specie di piccolo edificio separato dal resto. 
Mattia, sulla motocicletta appartenuta un tempo al padre di Agata, spense il motore a circa un centinaio di metri dal cancello della fabbrica, per non essere notato. La lasciò parcheggiata tra gli alberi del boschetto che circondava l’edificio, che sembrava tanto vecchio quanto sinistro. Si avvicinò silenzioso alla costruzione dove l’uomo aveva portato Agata e, solo quando fu sufficientemente vicino, si rese conto che si trattava di un vecchio laboratorio. 
La fioca lampada al neon accesa all’interno proiettava all’esterno un quadrato di luce attraverso una finestra rotta da chissà quanti anni. Mattia si mise a sbirciare cosa stesse succedendo all’interno del laboratorio. Si indignò nel vedere la sua dottoressa, legata mani e piedi, sdraiata sul pavimento lurido e pieno di vetri rotti, cartacce di ogni tipo e chissà quale altra schifezza.
L’uomo che l’aveva rapita prese il cellulare e fece una telefonata inquietante. 
Disse che aveva la dottoressa e che l’avrebbe rilasciata solo nel caso in cui, entro la mezzanotte, l’ospedale avesse depositato cinque milioni di euro sul suo conto.
Se non avessero effettuato il bonifico in tempo, o se avessero chiamato la polizia, lui avrebbe ucciso l’ostaggio, rassicurandoli che sapeva come farlo sembrare un incidente.
L’uomo chiuse la telefonata e si accese una sigaretta.  
Fu in quel momento che il ragazzo capì che doveva fare qualcosa. Si sentiva in colpa per quanto era successo. Se non avesse mai fatto quel bonifico, ora lui e Agata non si sarebbero trovati in quella assurda situazione. Decise di provare ad entrare. Fece il giro attorno all’edificio e trovò delle scale in metallo semi-arrugginito che portavano a quello che sembrava essere il piano inferiore del laboratorio. Scese gradino dopo gradino con una lentezza esasperante, nel tentativo di non fare rumore. Arrivato alla porta tagliafuoco in fondo alla scala, tirò un sospiro di sollievo nel constatare che qualcuno, prima di lui, aveva pensato bene di scardinarla per poter entrare alla ricerca di chissà quale tesoro. Si ritrovò in un corridoio buio, sotto i suoi piedi sentiva lo scricchiolare di foglie e rami che si rompevano al suo passaggio. Fece pochi passi e poi, fortunatamente, una debolissima luce al neon si accese timidamente, dapprima sbofonchiando qualche sprazzo intermittente di luce e poi fissandosi donando all’ambiente la stessa quantità di luminosità che avrebbe potuto fornire un cerino. Mattia sbuffò per poi dire tra i denti un impercettibile ‘meglio che niente’.
La fioca luce gli permise di vedere cosa lo circondava: un semplice corridoio abbandonato all’incuria del tempo. 
Se qualcuno non avesse divelto la porta tagliafuoco, probabilmente la natura non avrebbe avuto nemmeno una misera via d’accesso e il pavimento in linoleum sarebbe rimasto come nuovo.
Mattia fece ancora qualche passo e notò una porta alla sua sinistra. Aprendola, una folata di aria molto fredda lo investì facendogli venire i brividi. Sbirciò all’interno della stanza e capì immediatamente che si trattava di una sorta di casamatta. Bombole di diverso colore e dimensione, tenute in sicurezza da catenelle fissate ai muri, ornavano le pareti. Non trovando niente di interessante, decise di proseguire. Subito dopo la casamatta c’era l’apertura di un montacarichi per le bombole incredibilmente perfettamente funzionante. Aprì la saracinesca e dovette constatare che lo spazio era veramente angusto, adatto a trasportare a fatica una sola persona. 
Premette il pulsante esterno con rappresentata una semplice freccia verso l’alto. Salì sul piano del montacarichi e chiuse la saracinesca. Il piccolo ascensore arrivò al piano superiore e Mattia aprì lo sportello cercando di fare meno rumore possibile.
Si ritrovò in un laboratorio e cercò di capire se fosse quello dove aveva visto Agata sdraiata sul pavimento. Intorno a lui, banconi rivestiti di mattonelle di ceramica lucida, armadi pieni di vetreria, gabbie con bombole ancora dotate di manometro. Fece un sobbalzo quando sentì squillare un telefono cellulare. Un solo squillo che lo spaventò a tal punto che dovette chiudere gli occhi per un istante per riuscire a riprendere fiato.
Si mise a origliare e riuscì a sentire il rapitore dire chiaramente:
“Sì, al laboratorio sequestrato. Dorme…”
Poi continuò a parlare e Mattia capì che era il momento di agire. Si abbassò e si mise a gattonare sul pavimento in cerca della sua dottoressa che trovò esattamente sotto la finestra da cui era riuscito a spiare da fuori l’interno della stanza. 
Prese il mazzo di chiavi di casa e della moto legate con un anello di metallo a un coltellino svizzero. Cercò la lama e, mentre tagliava le corde che bloccavano piedi e mani della donna, prestava attenzione alla conversazione dell’uomo, ancora al telefono. 
Una volta libera, la donna si destò. Mattia le mise una mano sulla bocca e sottovoce le chiese se stesse bene. 
Era decisamente frastornata. 
“Riesci a seguirmi?”, le domandò speranzoso.
Lei chiuse gli occhi e fece un leggero cenno positivo con la testa. Si mossero lentamente verso il fondo del bancone, ripercorrendo la stessa via che poco prima aveva scelto Mattia.
Fecero appena in tempo a girare l’angolo, che l’uomo chiuse la telefonata. I due si bloccarono trattenendo il fiato. Agata prese la mano di Mattia e la strinse forte e gli chiese:
“Cosa facciamo?”
Lui si guardò intorno e notò che negli armadietti aperti sotto il bancone a fianco a quello dietro cui erano nascosti, c’erano delle bottigliette contenenti sostanze chimiche. 
“Ci vuole un diversivo. Qualche miscela… interessante?”, le chiese con un sorriso, cercando di tranquillizzarla. 
Lei si sporse leggermente per vedere cosa contenesse l’armadietto. 
Interessante lo era veramente.
Si guardò in giro per cercare di capire come ‘costruire’ il diversivo di cui avevano bisogno. Scorse un barattolo di medie dimensioni e una piccola bottiglietta con il tappo blu. 
Indicò a Mattia i due recipienti e poi mimò se stessa che prendeva i liquidi che le servivano. 
I due si mossero talmente piano che fu per loro addirittura possibile udire la rondella di uno Zippo ruotare un paio di volte prima di accendere la fiamma. 
Agata recuperò una bottiglia di vetro scuro e una di plastica bianca di dimensioni più ridotte. 
Mattia sgranò gli occhi nel leggere le etichette e mimò con le mani una grande esplosione. 
La dottoressa fece spallucce, come a dire che di meglio non aveva trovato. 
Mise il liquido della boccia marrone, la cui etichetta scolorita portava la scritta ‘acido nitrico conc.’, nella bottiglietta col tappo blu. La chiuse bene e la depose all’interno del barattolo, che riempì fino a metà con il liquido ben conservato nel contenitore di plastica, la cui etichetta penzolante riportava come sostanza ‘ammoniaca’.
La dottoressa fece uno sforzo immane per cercare di svolgere tutta la delicata operazione senza che le tremassero le mani. L’adrenalina che aveva in corpo aveva annullato l’effetto del sonnifero presente nel maledetto cocktail che il commissario l’aveva forzata a bere.
Sapeva che le loro vite erano in pericolo. Se il commissario si fosse accorto del suo tentativo di fuga, quasi sicuramente avrebbe ucciso sia lei che Mattia. Decise di concentrarsi sul piccolo incarico che stava svolgendo, quindi chiuse il barattolo e mimò il gesto di lanciarlo nella direzione del commissario Villa.
Mattia fece un cenno positivo con la testa. Stavano per entrare in azione quando sentirono una macchina sopraggiungere e fermarsi davanti al laboratorio. 
Rimasero immobili aspettando di capire chi fosse arrivato.
La porta si aprì e subito si sentì Villa salutare con enfasi quello che sembrava essere un complice.
Mattia si sporse leggermente dal bordo del bancone e vide che i due uomini che parlavano fra loro erano esattamente gli stessi che la domenica della sua presunta morte erano andati a casa degli zii invitandoli a seguirli in centrale.
Fece un sospiro. 
Era stanco.
Stanco di quello schifo.
Stanco di dover scappare, nascondersi, temere per la propria vita e ora anche per quella della dottoressa.
Prese la bomba artigianale preparata da Agata in una mano e diede l'altra a lei, stringendola forte. 
Le fece un cenno e, quando lei fu pronta, avvenne tutto in un istante.
Si alzarono in piedi.
I due poliziotti non si resero nemmeno conto di cosa stesse succedendo. 
Mattia lanciò il barattolo, che volò per tutto il laboratorio mentre lui e Agata correvano verso il montacarichi. 
Il barattolo si frantumò alle spalle del poliziotto appena arrivato provocando una deflagrazione di modeste dimensioni. Il boato fu assordante e fiamme rosse misto oro si diffusero velocemente nell’aria investendo l’agente che, con il suo corpo, fece da scudo al commissario. Villa urlò, mentre il suo fianco sinistro prendeva fuoco e l’odore acre di tessuto umano carbonizzato si diffondeva nell’aria.  
Mentre l’uomo si agitava a terra, nel tentativo disperato di spegnere le fiamme che stavano bruciando il suo corpo, Mattia stava già aiutando Agata a salire sul montacarichi.
“Vai prima tu”, le disse senza pensarci nemmeno un istante.
Agata salì sul piccolo ascensore con il cuore in gola. Non voleva lasciare Mattia. Non voleva scappare per prima o meglio, non voleva andarsene senza di lui perché lasciarlo lì, anche se solo per pochi secondi, in quella situazione, era come abbandonarlo alla sorte.
E lei alla sorte non aveva mai creduto.
La donna non fece in tempo a reclamare, il ragazzo aveva chiuso la saracinesca e schiacciato il bottone a lato con la freccia verso il basso.
Non appena vide la luce sulla pulsantiera spegnersi, capì che la dottoressa era in salvo. Stava per richiamare l’ascensore al suo piano, quando sentì uno sparo. Si voltò e vide il commissario sdraiato sul pavimento che gli puntava l’arma contro. D’istinto cercò di spostarsi di lato, per nascondersi dietro al bancone, ma il poliziotto continuò a sparare. 
Fu un attimo.
Un colpo prese in pieno una bombola dal cappuccio rosso.
L’esplosione fu così violenta che fece addirittura volare la porta d’ingresso al laboratorio a decine di metri. I corpi delle persone presenti nella stanza furono investiti da una fiammata a una temperatura così elevata che vennero carbonizzati nel giro di pochi minuti.
Agata, al piano di sotto, non appena udì il boato fortissimo, cercò riparo aprendo la porta a fianco del montacarichi e si chiuse nella casamatta.
Sentì i battiti del suo cuore aumentare spropositatamente e un senso di nausea pervaderle il corpo. Lo stato di ansia divenne insopportabile e la dottoressa Rizzi, da sola, nel freddo buio di quella casamatta che l’aveva protetta, vomitò tutto il suo malessere sul pavimento in cemento armato.
Poi si sedette a terra e scoppiò a piangere. Sapeva che non avrebbe mai più rivisto Mattia.
Rimase lì, in quel luogo freddo e buio fino a quando sentì le sirene dei pompieri circondare l’edificio.
Si fece forza.
Impose a se stessa di alzarsi sulle sue gambe e uscire da quel posto orribile.
Lo fece solo perché Mattia aveva voluto che lei salisse per prima sul montacarichi.
Seguì il corridoio fino all’uscita con la porta divelta da cui era entrato il giovane e salì le scale di metallo arrugginito tossendo anche l’anima, a causa del fumo nero e denso che proveniva dal laboratorio ancora in fiamme.
Un uomo la vide e l’andò a soccorrere. Lei svenne tra le sue braccia e poi fu tutto nero.
 
 
***
 
Al suo risveglio, la dottoressa riconobbe prima la finestra di una delle camere del suo ospedale e, subito dopo, incrociò lo sguardo dolce e sorridente del suo caporeparto.
“Bentornata. Come ti senti, dottoressa?”, le chiese con un tono rilassato.
Lei chiuse gli occhi e sospirò.
“Cosa è successo? Da quanto tempo sono qui?”, chiese confusa.
“Due settimane. Un vigile del fuoco ti ha tratta in salvo da un incendio scoppiato in un laboratorio abbandonato, appena fuori città. La persona che ti aveva rapita è probabilmente deceduta nell’esplosione. Per fortuna sei è riuscita a scappare prima che scoppiasse tutto”, spiegò in modo sintetico il medico.
“Probabilmente?”, chiese lei preoccupata.
“Sì, gli investigatori hanno detto che delle bombole di idrogeno sono scoppiate, anche se non sanno come… la temperatura era così elevata che il corpo è stato completamente carbonizzato. Non hanno trova nulla di lui, nemmeno un singolo filamento di DNA. È un miracolo che tu sia riuscita a scappare e che ne siate usciti incolumi”, spiegò l’uomo con estrema calma.
Lei lo guardò con aria spaesata.
Per un attimo sperò che quel plurale usato dal suo collega comprendesse per qualche strano miracolo Mattia.
“Si è salvato qualcun altro dall’incendio?”, chiese la donna in attesa di spiegazioni.
Lui le fece un sorriso benevolo e le rispose solo:
“Sì, certo, il tuo bambino”.
“Bam-bambino?”, chiese a quel punto spaesata.
“Sì, dottoressa, sei incinta di quattro settimane. Il tuo dispositivo anticoncezionale si era spostato e lo abbiamo rimosso senza alcun problema per l’embrione. Naturalmente, come sai, hai ancora tempo per decidere se abor…”, il medico si interruppe non appena vide una lacrima scendere sulla guancia della collega. Le porse un fazzoletto di carta e si sedette sul fianco del letto.
Le prese la mano per cercare di darle conforto e le disse:
“Posso fare qualcosa per te?”
La dottoressa lo fissò con uno sguardo così triste che al dottore si strinse il cuore.
“Qualsiasi cosa”, ripeté stringendole la mano.
Per un istante Agata pensò di confessare tutto. Gridare al mondo che persona meravigliosa fosse il padre del bambino e di come si fosse sacrificato per salvarla, ma poi capì che raccontare tutta la verità non avrebbe comunque riportato in vita Mattia.
Si asciugò le lacrime con il fazzoletto e rispose:
“Grazie, hai già fatto molto salvando il mio bambino. Non preoccuparti per me, starò bene… un giorno”.
 
 
***
 
Una piccola mano paffuta depositò una rosa rossa arricchita da un soffio di brillantini dorati davanti a una lapide bianca come la neve.
Una bimba con un cappottino rosso teneva per mano una donna che recitava una preghiera davanti alla tomba.
“Chi è questo signore, mamma?”, chiese la piccola alzando lo sguardo verso la madre e indicando con il dito la foto sulla lapide.
Lei si mise in ginocchio davanti alla bambina, per poterla guardare negli occhi di cristallo. Si asciugò una lacrima sfuggita al suo controllo e poi rispose:
“Questo signore si chiamava Mattia. Lui era… lui è il tuo papà. È morto per salvare la mia vita e la tua. Quando sarai più grande ti racconterò tutto di lui, ok, amore mio? Ora andiamo a casa a fare l’albero di Natale. Ti va?”
“Ok”, rispose la bimba con un sorriso. 
Lo stesso, identico, che avrebbe mostrato suo padre. 
 

FINE
 
NA: Ringrazio tutti coloro che sono passati a leggere e, ancora di più tutti i lettori che hanno lasciato un commento. Siete la motivazione per continuare a scrivere. Un ringraziamento in particolare a P. per avermi suggerito la corretta terminologia ospedaliera.
Grazie di nuovo e alla prox!
SSJD




 











 
   
 
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