I.
LO SCATOLONE DI SABBIA
«Vaccagare» bofonchiò ingoiando le parole, come suo solito quando era nervoso per qualcosa, il fante Venanzio Tartufelli, un uomo alto, un po’ incurvato verso il basso, e dai capelli neri come la pece, socchiudendo gli occhi azzurri a causa del sole abbagliante e guardandosi attorno scoraggiato da quanto lo circondava. E, a conti fatti, tutt’attorno non c’era proprio niente, all’infuori di un’infinita distesa di ruvida sabbia che sembrava proseguire fino all’orizzonte per poi fondersi con il sole. «Vaccagare Palamidone e vaccagare il Re e vaccagare anche Pascoli, che di quelli lì non se ne vede neppure l’ombra, qui in giro, eppure erano loro i primi a strepitare per arrivarci, come se fosse il paradiso o chissà che!»
«Ohé, camerata!» gli fece il compagno, il soldato Pammachio Del Pollaio che, al contrario, era molto basso e con il capo completamente rasato a causa della calvizie, che lo aveva perseguitato sin dall’infanzia; per questa ragione, dunque, non toglieva praticamente mai l’elmetto o il cappello, forse per paura di un’insolazione o, può darsi, per celare a tutti quel suo difetto fisico. «Si può sapere che accidente hai mai da continuare a lamentarti? È un’ora buona, che vai avanti con questa solfa!»
«E che vaccagare dovrei fare, secondo te?» ribatté Tartufelli, decisamente seccato. «Mi spieghi cosa ci facciamo, in questo postaccio della malora? Sono mesi che siamo qui a sparare alle dune e a morire di caldo… e non riesco a capirne il perché!»
Il suo amico, a quell’uscita, parve decisamente stupito. Possibile che il fante Tartufelli fosse l’unico, tra tutti coloro che avevano preso parte a quell’audace impresa, a non conoscerne il motivo? Non sentiva, lui, il richiamo fulgido della patria? Davvero non avvertiva sulla pelle la sensazione di essere parte di una grandiosa schiera di eroi i cui nomi, al pari di quelli celebrati da Omero, sarebbero riecheggiati nei secoli a venire? Francamente inconcepibile!
«Ma come fai a non saperlo!» sbottò, meravigliato, battendo le mani due volte. «Siamo venuti a buttare fuori gli arabi e a riprenderci questa terra, che era nostra per antico diritto di possesso!»
«Terra? Ma quale terra?» quasi gridò l’altro, con tono esasperato, dando un calcio alla sabbia e sollevando tutto attorno una nuvola di polvere rossiccia che, per poco, non li soffocò entrambi. «Io mi guardo intorno e non vedo altro che sabbia, sabbia e ancora sabbia! E, dove finisce la sabbia, ci sono soltanto palme e palme e poi cammelli puzzolenti e pieni di pulci! E dopo questi inizia il cielo e non c’è altro fino a quando non si incontra il mare, così salato che non puoi usarlo nemmeno per berti un goccio d’acqua e toglierti questa dannatissima sabbia dalla gola! Che lo conquistiamo a fare un grosso scatolone di sabbia, me lo vorresti spiegare?! Per costruirci castelli da far abbattere al vento?! Diritto di possesso, dici?! Ma quale diritto, poi?! Ma vaccagare pure questo paese di sabbia, io stavo così bene al mio paese, con le Alpi sullo sfondo, ma per loro non dovevo restarci, perché quegli intriganti di politicanti dovevano venire a dirmi di armarmi e di buttarmi a fare la guerra agli arabi! Vaccagare!»
Pammachio si prese qualche istante per strofinarsi gli occhi arrossati dalla sabbia, prima di replicargli di nuovo.
«Camerata, noi non siamo venuti ad impossessarci di un po’ di sabbia, non siamo mica stupidi, sai? Siamo qui, sulla quarta sponda, per crearci anche noi il nostro impero! Proprio come gli inglesi e come i francesi! E i tedeschi e gli austriaci! Così nessun italiano, d’ora in avanti, dovrà andare a cercare lavoro in America o in qualsiasi altro paese selvaggio ed essere costretto a chinare il capo di fronte agli stranieri per la vergogna! Nelle miniere dell’America ci andranno gli americani, nei campi dell’Australia gli australiani! Non più noi italiani! Noi ce ne andremo in giro a testa alta, invece, proprio come facevano gli antichi Romani nel loro grande impero, che si estendeva da un confine all’altro del mondo, America e Australia comprese!» Il militare assunse un cipiglio fierissimo e, nella sua divisa coloniale lisa e impolverata, parve veramente splendere di fulgore come un antico e glorioso legionario rifulgente nella sua armatura, il gladio in una mano e le insegne imperiali nell’altra. «Perché noi, caro amico Tartufelli, siamo i veri e soli eredi di Roma ed è nostro pieno diritto quello di costruirci un grande dominio sul Mediterraneo… ma che dico sul Mediterraneo, su tutto l’orbe terracqueo! E, per cominciare, lo faremo a danno dei turcomanni, che hanno avuto l’ardire di impadronirsi di ciò che, un tempo, fu nostro! E, dopo, quando noi avremo spianato la via, nulla potrà più fermarci! Un giorno, il nostro leggendario e imperituro Tricolore sventolerà sulle sommità dei più alti monti e negli abissi dei più profondi oceani… ma che dico monti e oceani, esso sventolerà persino sulla Luna e su Marte. Già lo vedo! Oggi gli arabi, domani tutti gli altri, e presto anche i marziani e i lunatici saranno come noi: italiani!»
Tartufelli ascoltò quella specie di indemoniato proclama senza capo né coda con il volto contratto da una smorfia palesemente disgustata.
«Vaccagare anche l’impero e tutti i marziani che lo abitano!» sbraitò. «Che me ne deve importare, a me, dell’impero? Ho una fabbrica pluridecorata di sottaceti, in Italia, che si esportano in Europa e in America e perfino in Australia anche senza bisogno che ci sia nessun impero della malora, e se solo disponessi di una molla gigante li spedirei anche ai lunatici e ai marziani e pure ai seleniti, che certo li apprezzerebbero! Ma, invece, non posso mandarla avanti come vorrei perché mi trovo qui, sotto il sole e in mezzo alla sabbia, a sparare agli arabi! Ma che c’hanno mai fatto di male a noi, poi, questi arabi?»
«Be’, sono arabi, no? Mi sembra una spiegazione logica, quella di sparargli!» replicò l’altro, con un’alzata di spalle.
«Sparare alla gente solo perché abita in mezzo alla sabbia, porcherie senza motivo!» ululò Venanzio, battendo i piedi. «Poi, tra cento anni, che nessuno venga a lamentarsi se loro si vendicheranno venendo a spararci o a invaderci o a riempirci di sabbia le città e…!»
«E smettila di lamentarti, una buona volta, altrimenti ti prenderà un colpo» lo interruppe il compagno, «e fai piuttosto come il nostro poeta, qui, che se ne va in giro a cantare e a godersi il sole meraviglioso dell’Africa nostra!»
E, sollevata una mano, indicò un ufficiale, un bell’uomo sui trentacinque anni, dal pizzetto perfettamente curato, impeccabile nella propria divisa pulita e con gli occhi riparati da un paio di occhiali dalle lenti tonde e nere, che teneva il caschetto coloniale sotto braccio; l’uomo stava avanzando verso di loro a passo di marcia, cantando a gran voce e con perfetta intonazione una canzone nata in quei giorni, scritta apposta per l’occasione di quella guerra: «Sai dove s’annida, più florido il suol? Sai dove sorride, più magico il sol? Sul mar che ci lega con l’Africa d’or, la stella d’Italia ci addita un tesor! Tripoli, bel suol d’amore, ti giunga questa mia canzon! Sventoli il Tricolore sulle tue torri al rombo del cannon! Naviga, o corazzata: benigno è il vento e dolce la stagion! Tripoli, terra incantata, sarai italiana al rombo del cannon!»
Venanzio lo fissò con disprezzo, sputò in terra e disse, biascicando le parole mentre guardava la propria saliva venire assorbita in un solo istante dal suolo riarso: «Vaccagare, quel duca è un ufficiale, mica deve fare come noi, che siamo costretti a correre verso i negri urlando con le baionette puntate e la sabbia negli stivali e in bocca! Mentre gli altri sparano lui se ne resta all’ombra delle palme a bere acqua di cedro! Fa presto, uno come lui, ad avere voglia di cantare!»
L’ufficiale in questione, come accennato dal Tartufelli, era un nobile, più precisamente il duca Casimiro Ambrosiano Ulfo dei Polentoni - Uccelli, ricco uomo che viveva di rendita, grazie al patrimonio ereditato dalla sua famiglia, di cui era l’unico esponente rimasto, e scrivendo poesie. Egli aveva accettato, solo per distrarsi dalla noia quotidiana, di andare a combattere in Libia; Venanzio, la cui fabbrica di sottaceti sorgeva in prossimità della grandiosa villa del poeta, lo odiava sopra ogni cosa e, quando aveva scoperto di essere divenuto un suo sottoposto, aveva imprecato ininterrottamente per un giorno intero, fermandosi soltanto quando gli si era ormai seccata la gola ed era, quindi, stato costretto a bere una sorsata d’acqua. Fino a quel momento, tuttavia, i due non si erano ancora incontrati, il che aveva dato al fante Tartufelli un certo sollievo e aveva migliorato la sua permanenza sul suolo africano.
«Si batte la fiacca, soldati?» gridò il duca, smettendo di cantare e raggiungendoli. Poi, riconosciuto Venanzio, urlò, arricciandosi i lunghi baffi: «Ah, ma è il signore dei sottaceti! Anche lei, qui, carissimo Tartufelli? Com’è piccolo, il mondo!»
«Vaccagare» mormorò tra i denti il soldato.
«Come, prego?» chiese soavemente il duca e, senza attendere risposta, aggiunse, con aria onirica: «Non trovate che sia tutto magnifico, qui? Il sole incantevole, le palme ombrose, il magico deserto, con le sue atmosfere incantate. E le donne, poi, e che donne! Mi viene quasi da comporre nuovi versi! Sentite un po’: E mentre il sol colpisce la tua pelle / o soave fanciulla figlia d’Africa / accarezzo il tuo ebaneo seno morbido!»
«Che schifo di poesia» constatò Del Pollaio, senza farsi udire. «Perlomeno la canzone era in rima.»
«Vaccagare, ma poi qui intorno non si vede una donna da almeno un mese!» gli fece eco l’altro. «E l’ultima che abbiamo incontrato avrà avuto perlomeno novant’anni, aveva attaccate davanti due aringhe cadenti, altro che seno morbido!»
Tuttavia, non udendo i loro bisbigli e neppure vedendoli borbottare tra loro, essendo la sua mente ed il suo sguardo persi lontano, sullo splendente deserto circostante e sul cielo blu e terso, il duca interpretò quel silenzio come un muto apprezzamento della sua poesia, e annunciò, soddisfatto: «Appena farò ritorno alla mia splendida villa, inserirò i miei versi africani in una raccolta che intitolerò Sogno d’Africa! In questo modo, potrò far partecipi, tramite la sublime arte letteraria, tutti gli italiani e le italiane dello splendore della nostra nuova perla africana.»
Poi, si allontanò rapido, col suo sguardo di vaneggiatore perso nel vuoto, riprendendo a marciare e a cantare.
«Appena torno a casa gliela brucio, quella sua dannata villa!» disse con asprezza Venanzio.
«Che villa sarebbe, poi?» volle informarsi Del Pollaio.
«Si è costruito una villa da gran signore nei pressi della mia fabbrica di sottaceti, quell’enorme cafone! Con tutti i posti che c’erano, proprio quello doveva scegliere. Ed è venuto almeno cento volte a scassarmi i cosiddetti per l’odore di aceto. Vaccagare! La mia ditta è lì da trent’anni, da quando l’ha aperta mio padre Ischirione, che Dio l’abbia in gloria per sempre presso di sé, ed è stata premiata dal re Umberto in persona, e pure lui sia beato accanto al Signore, altro che storie!» – udendo queste ultime parole, il soldato Del Pollaio si mise sull’attenti e gonfiò marzialmente il petto, come se lo spirito di Re Umberto fosse disceso dall’empireo e si trovasse presente in mezzo a loro – «E adesso quel dannato lavativo, pur essendo l’ultimo arrivato, pretenderebbe che io smettessi di produrre sottaceti solo per fargli piacere. Speravo di essermene liberato per un po’, e invece me lo ritrovo pure qui in Egitto o dove vaccagare siamo!»
«Non siamo in Egitto! Siamo in Libia!» sbottò l’altro, un poco stizzito da quella mancanza di interessamento per le gloriose e patrie imprese coloniali. Fece un sospiro rassegnato e soggiunse, facendosi forte della sua cultura evidentemente più ampia di quella dell’amico. «Non ti sei accorto che non ci sono quei triangoloni di pietra? E neppure il gatto di pietra insabbiato, la Sfinge?»
«Vaccagare anche te e i tuoi gatti di pietra. Qui c’è solo sabbia, altro che triangoloni! Sabbia e poeti effeminati col naso fino!»
La grande proletaria si mosse, come affermò Giovanni Pascoli in un suo celebre discorso, e chissà se fu anche per tutte le ingiurie e le maledizioni che gli lanciò il Tartufelli che, di lì a poco, il grande poeta trapassò ancora relativamente giovane, distrutto dall’abuso di alcol, senza fare neppure a tempo a vedere compiuta l’impresa di Libia, la terra irredenta, come l’aveva definita.
Ma la grande proletaria, quella volta, si mosse tanto goffamente che fu tuttavia costretta a trasferirsi sulle isole del Dodecaneso, a oltre mille chilometri da quella terra, per riuscire a portare a termine la conquista del Paese africano, una mossa forse un po’azzardata che, però, considerati i risultati, diede i propri buoni frutti.
E, così, isole e sabbia divennero parte del Regno d’Italia, strappate a forza all’Impero Ottomano, che le dominava da secoli; la Sublime Porta, da quel momento, cominciò a cigolare sempre più sonoramente sui propri cardini, e non sarebbero bastate neppure dieci oliate generose per far cessare quel fastidioso rumore.
Il fante Venanzio Tartufelli fu, infine, congedato con il grado di partenza, mentre il soldato Pammachio Del Pollaio, che mai si era lamentato degli ordini ricevuti, fu rispedito a casa con quello di caporale, vittoriosamente conquistato sul campo di battaglia.
Il duca poeta, da tenente quale era, divenne ovviamente capitano, senza aver mai mosso neppure un dito in quella guerra che, a conti fatti, non portò poi il gran beneficio sperato agli italiani, e non fece altro che scatenare polemiche in Parlamento per il trattamento riservato ai libici, catturati ed impiccati senza processo, nonché aspre contese giornalistiche sul da farsi. Già: che farsene, adesso che lo si era conquistato, di uno scatolone di sabbia in apparenza del tutto inutile? Mistero insolubile, che tale sarebbe rimasto fino a quando, molti anni dopo, partiti gli italiani, si scoprì che sotto la sabbia c’era nascosto oro nero in quantità tale da far girare la testa. Ma questa è un’altra storia, lontana nel tempo e nello spazio.
In quanto al soldato Tartufelli, salendo la scaletta della corazzata militare a vapore che, salpando da Rodi e seguendo una lunga crociera nel Mediterraneo, lo avrebbe ricondotto finalmente, dopo un lunghissimo anno di campagna bellica tra sabbia e mare, alla sua casa e alla sua fabbrica, volle dire la propria opinione nei riguardi delle guerre: «Speriamo che questa sia l’ultima, perché ho altro e di più importante da fare che sparare contro gente che nemmeno conosco e che non mi ha fatto proprio niente, solo per compiacere politici furbi e poeti pazzi e portare a casa un po’ di sabbia. Vaccagare!»