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Autore: Orso Scrive    31/12/2024    2 recensioni
Reduce da una guerra che non voleva combattere e con lo spauracchio di una nuova guerra pronta a scoppiare tra le potenze europee a pendergli sulla coscienza, l’industriale Venanzio Tartufelli si vedrà costretto a combattere la sua personale battaglia contro una bellissima moglie infedele, un raffinato poeta deciso a tutto pur di ostacolarlo, una tremenda crisi economica e, ciliegina sulla torta, una pandemia che non lascia scampo, preludio a una dittatura destinata durare fino a chissà quando.
La posta in gioco è molto alta: la sopravvivenza della fabbrica di sottaceti avuta in eredità dal padre… riuscirà Tartufelli a trarre qualche profitto dalla finalmente redenta quarta sponda e a salvarsi dalla disfatta totale?
(Storia scritta nel 2014)
Genere: Drammatico, Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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XX.

MILLENOVECENTOCINQUANTA

 

Non era mai stato a Torino, in vita sua, e non immaginava quanto potesse essere caotica e rumorosa una città.

Quella che lui aveva sempre chiamato città, ossia il luogo in cui si recava da giovane quando aveva bisogno del notaio, o del giudice, o di uno specialista in qualsiasi campo, era in realtà niente più che un paesotto, una cittadina di poco conto, adesso se ne accorgeva veramente; ma Torino, quella sì che era una città.

Un gran viavai di persone, brulicanti come formiche, che andavano e venivano frettolose, senza guardarsi attorno; una cappa grigia di fumo, che nascondeva il cielo alla vista e rendeva l’aria quasi malsana; immensi palazzi anneriti dall’inquinamento, sopra i quali svettava imponente la Mole, quello strano ed altissimo edificio; rumori assordanti ed incessanti, che ferivano i timpani se non si era ben abituati ad ascoltarli.

Dire che si sentisse a disagio, in mezzo a quella bolgia, è poco.

D’altra parte, avendo trascorso gli ultimi dodici anni nella piccola e tranquilla casetta che s’era fatto costruire in Brasile, in un minuscolo paesino abitato perlopiù da coltivatori, i quali trascorrevano buona parte della giornata nei campi, non poteva certo aspettarsi di essere a proprio agio in un luogo tanto affollato, in una simile metropoli.

Adesso, però, compiuti i settant’anni, Venanzio Tartufelli aveva deciso di fare rientro in Italia, anche se solo per un incontro fugace; ne era fuggito, immediatamente dopo la morte del duca, per paura delle conseguenze del suo gesto scriteriato. Ma non era mai stato disturbato, ed anche al ritorno, quando aveva mostrato i documenti alla guardia doganale dell’aeroporto, nessuno aveva avuto nulla da obiettare ed era stato lasciato libero di proseguire per andare ovunque desiderasse.

Sicuramente, non era tornato perché provasse nostalgia della patria; anzi, se fosse dipeso solo da quella, se ne sarebbe rimasto volentieri nel clima caldo ed umido, e soprattutto ancora incontaminato, del Sud America, e non avrebbe mai più rimesso piede in Italia in vita sua.

No, ciò che lo aveva spinto a ritornare in quei luoghi ed a respirare i miasmi di una metropoli come quella, era un altro tipo di malinconia.

Voleva ardentemente rivedere il suo amico Pammachio Del Pollaio, l’unico vero amico che avesse mai avuto, e voleva farlo prima che fosse troppo tardi; erano realmente vecchi entrambi, ormai, e il tempo a loro disposizione andava esaurendosi, continuando esso a trascorrere inesorabile, del tutto insensibile alle vicende umane. Se uno dei due fosse mancato prima di essersi rincontrati, colui che fosse sopravvissuto lo avrebbe rimpianto per sempre.

Si era annunciato scrivendo una lettera, dopo aver scoperto, presso l’ambasciata della Repubblica italiana in Brasile, l’indirizzo del suo vecchio amico; non aveva voluto, infatti, piombargli a casa all’improvviso, ben sapendo di come Pammachio e la moglie fossero convinti della sua dipartita, avvenuta tanti anni prima. Probabilmente, se lo avessero veduto entrare dalla porta senza averlo atteso, avrebbero creduto di trovarsi di fronte un fantasma; e, comunque, doveva essere stato un bel colpo anche il solo ricevere una lettera da parte di una persona creduta defunta da oltre trent’anni.

Pammachio e la moglie Egizia, da ormai qualche anno, vivevano in un bell’appartamento nel centro del capoluogo piemontese; erano finiti così lontani dal paese in cui s’erano conosciuti ed amati la prima volta perché, nel cercare lavoro, Pammachio aveva dovuto peregrinare in lungo e in largo per tutta la penisola.

Infine, era stato assunto come custode del Museo Egizio, quasi un destino, e lì aveva appreso che i triangoloni, come sempre li aveva chiamati, erano in realtà detti piramidi, e che la Sfinge non era un gatto insabbiato, bensì un leone scolpito nella pietra e recante le maestose fattezze di un antico faraone.

I due coniugi, forse a causa delle bruciature che li deturpavano, non erano molto diversi da come Venanzio ricordasse di averli visti l’ultima volta, quando lo avevano salutato dal binario mentre si allontanava in treno; Del Pollaio, per esempio, era sempre basso e pelato, identico in questo ai tempi ormai remoti della conquista della Libia, e con la pelle tirata a causa delle scottature. E lo stesso valeva per la moglie che, per quanto orribile nell’aspetto, ostentava una certa vanità nel continuare a tingersi di biondo i capelli. Agli occhi di Pammachio, invece, l’ex industriale era un gracile vecchietto dalla pelle decisamente scurita dal sole e dal tempo, sofferente per i molti acciacchi che gli minavano il debole fisico, con gli occhi rossi dietro gli occhiali dalle lenti spesse, quasi senza capelli e con la barba bianchissima che gli arrivava a mezzo petto.

Il Tartufelli e l’amico si strinsero in un fraterno abbraccio, prima di sedersi attorno ad una tavola imbandita di caffè e di pasticcini.

«Sai, m’è sempre dispiaciuto, per la tua fabbrica» gli disse Pammachio, con comprensione. «Godiva aveva insistito così tanto, sulla tua malattia, che alla fine avevo terminato per crederci io stesso, nonostante tu mi avessi raccontato ben altro. Credevo mi avessi rifilato una panzana, sul vero scopo del tuo viaggio, per non affliggermi.»

«Ed invece quello che ti avevo detto era tutto vero» rispose Venanzio, incupendosi un poco. «Ricordati che Venanzio Tartufelli può avere molti difetti, ma non è un bugiardo. Non ho mai raccontato fandonie e non lo farò mai e poi mai. Però, ormai, a quella brutta storia non ci penso quasi più, anche se la notte, ogni tanto, mi sogno ancora la mia fabbrica. Alla fine, però, quelli che sono stati malvagi sono morti tutti, mentre noi, che ci siamo comportati sempre da oneste persone, siamo ancora qui, liberi di discorrere a nostro piacere, anche se un poco acciaccati.»

«Quando Godiva si risposò con il duca, rimasi di sasso» disse Del Pollaio, continuando a ricordare il passato. «Ed ancora di più mi lasciò basito la notizia del suicidio del poeta. Non mi era mai parso uomo da poter fare una cosa del genere, era un tipo troppo materiale per potersi togliere la vita. Chissà se si comportò in questo modo perché fu preso dal rimorso per quanto fatto.»

«Evidentemente non si conosce mai abbastanza la gente, non si mai che cosa le passi per la testa» rispose Venanzio, distogliendo lo sguardo e fissando per un attimo il pavimento. Poi chiese: «Gli altri operai della fabbrica, li hai più rivisti?»

«Mai più, a parte Fifì, che una volta incontrai in Svizzera, dove si era trasferito anche se, mi disse, era in procinto di partire per la Russia. Chissà se dopo c’è andato davvero.»

«Cosa ci facevi, tu, in Svizzera?» chiese il Tartufelli. «Sei stato a lavorare anche lì?»

«No, no, non si trattava di lavoro, niente affatto! Io e l’Egizia abbiamo trascorso ogni momento di ferie in Svizzera, a girare per cimiteri» raccontò Del Pollaio, scoppiando in una fragorosa risata. «Sai com’è, volevo rendere omaggio alla tua tomba, almeno! Ho letto ogni singolo nome sopra ogni lapide di quel Paese, anche la più misera e piccola, senza cavarne mai alcun successo! Ed ecco che ora scopro perché non ti abbiamo mai trovato. Se avessimo saputo che eri al caldo in America, saremmo andati al mare!»

Anche Venanzio non poté trattenersi dal ridere, nell’immaginare l’amico intento a localizzare ogni singolo camposanto elvetico, e girarlo leggendo ogni singola pietra sepolcrale.

Poi, volle domandare: «E vostro figlio, il piccolo Pacomio, come sta? Quando sono partito non era neppure nato e non ho mai avuto occasione di fare la sua conoscenza.»

Il vecchio Del Pollaio si alzò e prese da una credenza una fotografia, che gli mostrò orgoglioso; si trattava del ritratto di un giovane militare, basso e dalla testa completamente calva.

«Eroe di guerra, il nostro Pacomio. Dopo l’otto settembre, si è unito alle brigate partigiane, ed ha combattuto per la libertà. Ha partecipato a non so quante battaglie e ne è uscito quasi sempre senza un graffio. Due anni fa si è sposato, ed a giorni dovrebbe nascere il suo primo figlio!» spiegò.

«Che bella notizia, un altro Del Pollaio! E come si chiamerà?»

«Pancrazio, i genitori hanno deciso di chiamarlo Pancrazio Del Pollaio!» intervenne l’Egizia, rompendo il mutismo in cui solitamente rimaneva rinchiusa, con la sua voce bassa da cui trasparì, tuttavia, la gioia di diventare nonna.

Tartufelli alzò il bicchiere di vino liquoroso che stringeva in mano ed annunciò: «Allora brindiamo a Pancrazio Del Pollaio, perché abbia di fronte a sé un avvenire florido e privo di guerre e tribolazioni, al contrario di quello che il destino ha riservato ai suoi nonni e ai loro amici!»

Bevvero tutti e tre e trascorsero il resto del pomeriggio in chiacchiere.

Quando fu calata la sera, Venanzio si preparò ad andarsene.

«Me ne torno in Brasile» rivelò, con gli occhi umidi per quel nuovo addio, che molto probabilmente si sarebbe rivelato il definitivo. «L’Italia, ormai, non fa più per me. Troppi ricordi brutti, qui. Io spero che un giorno ci rivedremo ancora, ma non ne sono sicuro. Il tempo stringe.»

«Ci rivedremo ancora, camerata, ne sono certo» gli rispose Pammachio, ponendogli una mano sulla spalla in segno di saluto. «Magari, io e l’Egizia verremo a trovarti. Abiti sul mare? Andarci è sempre stato il nostro sogno, ma, come ti ho detto, fino ad ora abbiamo trascorso in maniera diversa il nostro tempo libero.»

«Il mare?» ripeté il Tartufelli, con un piccolo ghigno. «Lo vedo col binocolo se salgo sul tetto di casa.»

Anche Venanzio mise la mano sulla spalla dell’amico, e i due si sorrisero.

«Addio, per ora. Ti prometto che verremo a trovarti.»

«Vaccagare, camerata Del Pollaio.»

«Vaccagare anche a te, camerata Tartufelli.»

E i due si lasciarono, in fretta, per nascondere le lacrime che stavano sgorgando dagli occhi di entrambi, questa volta copiose, come una fontana che stilli acqua a volontà.

Non ci è dato sapere se si rividero ancora, dopo di allora, o se quello fu davvero il loro ultimo saluto, perché questa storia termina poco più tardi di quell’incontro, mente il meschino Tartufelli viaggiava alla volta dell’albergo dove sarebbe rimasto una sola notte, prima di ripartire già l’indomani per il Brasile. Era stata una toccata e fuga, la sua, ma gli sembrava fosse durata un’eternità.

Come trascorse il resto dei suoi giorni, in Brasile, non si sa; e, neppure, si sa quanto tempo ancora vi rimase, prima di dare l’estremo addio al mondo. Se egli poté diventare vecchissimo, un centenario, o se morì di lì a breve, consumato dai tristi ricordi e dalla nostalgia per il passato, quando era il figlio del re dei sottaceti, è qualcosa di cui non siamo a conoscenza, perché le oscure ombre del tempo hanno avvolto con i loro tentacoli quelle informazioni, gettandole nell’oblio delle reminiscenze perdute.

Ma, dunque, invece di divagare con congetture senza fondamento, vediamo come terminò la storia a noi nota di Venanzio Tartufelli fu Ischirione.

 

Aveva trovato un giornale, abbandonato sul sedile dell’autobus, e lo stava sfogliando alla luce delle lampade accese a bordo e dei lampioni che si riflettevano attraverso i vetri dei finestrini dall’esterno ormai buio, mentre il mezzo lo dondolava lentamente, facendolo sobbalzare, di quando in quando, a causa di brusche frenate.

La sua attenzione venne istintivamente attratta da una coppia di fotografie, una delle quali raffigurava il duca dei Polentoni - Uccelli, in divisa militare, e la seconda una signora che andava verso i quarant’anni, che riconobbe immediatamente come la propria figlia Acilia.

Incuriosito, lesse l’articolo a cui le due foto erano collegate, scritto da un articolista che si era firmato semplicemente con le iniziali O. S.: «Il duca Casimiro Ambrosiano Ulfo, ultimo discendente del nobile lignaggio dei Polentoni - Uccelli, torna nuovamente a far parlare di sé. Morto suicida nel 1938, egli aveva lasciato in eredità un cospicuo patrimonio, nonché una miriade di opere letterarie, molte delle quali risultano essere, ancora oggi, inedite.

Aveva fatto notizia, qualche mese fa, l’interessamento di un noto imprenditore, Colmanno Rossi, all’acquisto della magnifica villa del poeta, che attualmente si trova in stato di completo abbandono, ma ancora oggi non si hanno ragguagli in merito, ed il signor Rossi si è semplicemente limitato a dichiarare di star meditando ponderatamente nei riguardi dell’edificio, e di non essere ancora giunto a nessuna decisione a breve termine. Dovremo pazientare ancora qualche anno, dunque, prima che qualcuno torni a glorificare la bellezza di quella tale costruzione; siamo sicuri, tuttavia, che il signor Rossi, alla fine, deciderà per l’acquisto di quella villa, la cui bellezza è indiscussa, anche in uno stato di totale sfacelo come quello in cui versa al momento attuale.

È degli ultimi giorni, invece, la novità che la signorina Acilia Tartufelli, già musa ispiratrice del poeta, abbia fondato, insieme alle altre donne che componevano la cerchia intellettuale del duca, una società che si propone di rendere pubblici i parecchi scritti inediti del Polentoni - Uccelli, nonché di continuare a stampare i poemi già editi, dando così nuova linfa vitale all’opera dell’indiscusso maestro.

La signorina Tartufelli, presidentessa della fondazione, si è dichiarata molto felice di questo incarico, in quanto in questo modo potrà tenere viva molto a lungo la memoria di colui che, per lei, oltre che un saggio mentore, fu prima di tutto un amorevole genitore adottivo. La signorina, infatti, abbandonata dal padre, che fuggì con un’altra donna, prima ancora di nascere, rimase orfana di madre in giovanissima età, ed il duca, in uno slancio di generosità, si propose di mantenerla, rinunziando agli agi di una vita mondana svincolata dalla presenza di infanti. Ancora oggi, la Tartufelli è solita proclamare pubblicamente di non credere alla versione ufficiale della morte del poeta, che le autorità fasciste etichettarono troppo rapidamente come un suicidio, senza svolgere in merito alcuna indagine.

Mi sento indignata di come il ricordo del mio amato padre, reduce di due guerre, patriota convinto, amico intimo di personaggi degni di nota, fervente cattolico e fine intellettuale, sia stato infangato dall’ombra del suicidio” ha dichiarato al nostro cronista. “Un uomo com’era lui, amante della vita, non se la sarebbe mai tolta deliberatamente. Sono convinta oltre ogni ragionevole dubbio che si sia trattato di omicidio, e che il colpevole sia ancora a piede libero, pronto ad uccidere nuovamente ignari innocenti. Ricordo che, il giorno in cui morì, vi era un uomo, un estraneo mai visto prima, che rimase solo con lui nello studio. Anche allora lo dissi ai carabinieri, però nessuno volle credermi e tutto fu messo a tacere, quasi come se gli investigatori volessero coprire o giustificare il disgraziato gesto di quell’assassino misterioso. Ma confido che il nuovo regime repubblicano, certamente più accorto del precedente, provvederà affinché giustizia venga fatta”.

La signorina, comunque, ha poi ribadito la propria felicità nel poter far giungere ai posteri l’opera del duca, da lei giustamente ritenuto il più grande poeta del Ventesimo secolo ed uno dei massimi esponenti della letteratura universale. Per questo motivo, provvederà personalmente affinché la sua fondazione pubblichi di continuo le grandi opere del padre adottivo. O. S.»

 

Terminata la lettura, Venanzio Tartufelli scosse lentamente la testa, come a voler negare un discorso ridicolo. Però, un po’ gli rodeva.

Oltre al danno ricevuto anni prima, infatti, era subentrata anche la beffa, perché colui che era stato causa della sua rovina, e della distruzione della Premiata Ditta Eredi Tartufelli, veniva adesso glorificato da Acilia stessa, ossia da colei che egli avrebbe un giorno voluto vedere in prima linea alla guida dell’adorata fabbrica.

Rassegnato, diede una scrollata di spalle, sospirò, ripiegò il giornale e si preparò a scendere, essendo nel frattempo giunto l’autobus a destinazione, di fronte al suo albergo.

Però, prima di avviarsi, disse, a mezza voce: «Vaccagare!»

 

 
   
 
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