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Autore: Dorabella27    02/01/2025    16 recensioni
Siamo nel pieno dell'inverno, lo so, ma io, col tempismo che mi contraddistingue torno a una sera di fine estate, diciamo attorno alla terza decade di settembre del 1775, quando due giovani discorrono sull'erba, la notte, guardando le stelle. Il mattino dopo la più giovane dei due dovrà sostenere una prova molto rischiosa... vi dice niente?
Un missing moment che segue a ruota uno dei momenti a me più cari dell'anime, il "piccolo testamento" (Montale mi perdonerà) di Oscar. Buona lettura!
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Visita notturna
 
“André, ascolta: se per caso dovessi morire, puoi prendere tu il tesoro sepolto ai piedi della grande quercia: una trottola, un coltello dal manico rosso, e un orsacchiotto di pezza[1]”-
Quelle parole gli risuonavano incessanti nella mente. Oscar era andata a dormire, finalmente, dopo un lungo sostare sull’erba del parco. La sua buonanotte, sobria come sempre, lo aveva tutt’altro che tranquillizzato.
La notte di fine estate era ancora tiepida, grazie al clima eccezionale di quell’ultima, straordinaria decade settembrina. L’aria che lo accolse quando sgattaiolò fuori dal corpo centrale di Palazzo Jarjayes era ancora una morbida carezza sulla pelle.
André percorse in un silenzio irreale, quasi con la sensazione che i suoi tacchi rimbombassero, non semplicemente scricchiolassero sulla ghiaia, i pochi passi che lo separavano da una costruzione elegantemente austera: la cappella privata della famiglia Jarjayes.
 Pose a terra la lanterna che si era portato appresso e cavò dalla tasca la chiave della porta laterale di accesso alla chiesetta. André, poco prima, l’aveva prelevata dal grande ripostiglio dove erano riposte tutte le soluzioni a tutte le serrature della vasta magione degli Jarjayes. La porta si aprì senza sforzo e André raccolse la lanterna, chiudendosi il pesante uscio di legno di rovere dietro le spalle.
Nel buio appena velato dalla luce della lanterna, i marmi bianchi che rivestivano la cappella, da pochi anni ristrutturata e restaurata secondo il gusto corrente, e che la rendevano luminosa e solare di giorno, ora assumevano un aspetto spettrale, come tanti fantasmi ritti ad attenderlo.
André percorse la breve navata, soffermandosi di fronte a una lapide, semplicissima, dove poche lettere dorate componevano la seguente iscrizione: Réné Augustin de Jarjayes 1724-1744. Requiem aeternam dona ei Domine. Si trattava di uno zio del Generale, elogiato sino alle stelle nella mitologia familiare, per la sua mirabolante abilità di spadaccino, che avrebbe impressionato, si raccontava, nientemeno che il giovanissimo Luigi XV. Ma tale straordinaria tecnica non gli era valsa a molto, dato che la sua morte, quando ancora doveva compiere i vent’anni, era avvenuta nel corso di un duello, causato da una sciocca lite su chi, fra lui e il visconte che l’aveva sfidato, dovesse cedere il passo all’altro su uno stretto marciapiede parigino.
Oscar e André, da bambini, durante le noiosissime lezioni di catechismo impartite dal cappellano di famiglia sulle durissime panche della piccola chiesa, spesso facevano cadere l’occhio sulla lapide, che instillava loro malinconia e incomprensione. Che cosa poteva mai essere così importante, quale questione di puntiglio poteva avere toccato il giovane Réné de Jarjayes al punto di fargli mettere a repentaglio la sua stessa vita, lasciando per giunta, come raccontava loro in un sussurro la vecchia prozia, sorella del Generale, priva del suo amore la sua devotissima e bellissima promessa sposa, figlia di un duca? La giovane duchessina, continuava con un certo qual compiacimento sentimentale la vecchia dama, aveva ricevuto la notizia della morte del suo adorato mentre, cercando di tenere a bada la preoccupazione, sedeva nervosamente al clavicembalo. Una  volta saputo della morte del suo amatissimo Réné, era svenuta, e, ripresi i sensi, aveva giurato che il suo cuore non sarebbe appartenuto a nessun altro uomo. Così, nonostante l’opposizione della famiglia, aveva preso il velo, vivendo i pochi anni che le restavano come monaca benedettina, e pregando incessantemente per l’anima del suo promesso sposo.
        André e Oscar ascoltavano seri la vecchia dama raccontare quella vicenda polverosa di amore e morte, ricavandone suggestioni diverse e molteplici: André, immobile e con gli occhi sgranati, coglieva oscuramente la disperazione della giovane duchessina; la piccola Oscar, invece, annuiva con aria severa, immaginando il fuoco interiore che doveva sostenere un gentiluomo toccato in quanto aveva di più prezioso, ovvero, il suo onore, per mettere a rischio un’unione che si prospettava come bene assortita e prestigiosa per il casato, e la sua stessa vita.
André in quei momenti la fissava di sguincio, preoccupato, intuendo che nel sangue dell’amica doveva essere passato qualcosa del carattere imperioso e ardente del giovane Réné de Jarjayes, e pregando che a Oscar non venisse mai in mente di difendere l’onore, della famiglia e proprio, mettendo a repentaglio la sua vita. Altrimenti, che cosa avrebbe mai fatto lui, si chiedeva André? Lui che nemmeno avrebbe potuto lecitamente piangere, disperarsi, e che non avrebbe certo potuto esprimere il suo dolore come la giovane duchessina?
Poi, dopo la cresima, le lezioni di catechismo finirono, e, cessate quelle noiose ore passate cercando di non addormentarsi durante le tirate interminabili dell’Abate, Oscar e André cessarono di frequentare assiduamente la cappella di famiglia, finendo per dimenticare Réné de Jarjayes e la sua morte prematura.
Ed ecco, invece, adesso il momento tanto temuto era arrivato. Per giunta, Oscar aveva la stessa età del suo prozio: vent’anni, o meglio, vent’anni ancora da compiere. Un caso? Un presagio? André rabbrividì, come se una folata gelida gli fosse passata accanto, nel buio. Allora, sedette sulla panca, accanto alla lapide di Réné Augustin de Jarjayes, frugando nella sua memoria alla ricerca di una preghiera adatta al momento. Ma da molto tempo non praticava più la messa e i sacramenti, e tutte le parole che gli venivano alla bocca gli sembravano vuote, retoriche, fredde e lontane, incapaci di adattarsi alla situazione. Pure, un dio, un nume, un angelo, qualcuno che ascoltasse le sue preghiere doveva esserci, da qualche parte, pensò. Si alzò e, raggiunta la Cappella di Sant’Alessandro, un piccolo trionfo di ori e stucchi nei toni del rosa e del verde pallido, accese un cero al Santo combattente. “Proteggila, almeno tu, e fa’ che non muoia”, ebbe la sola forza di mormorare, non avrebbe saputo dire a chi o a che cosa.
Poi, silenzioso come era arrivato, uscì, richiuse la porta, rientrò a Palazzo rimettendo al suo posto la chiave, e guadagnò la sua camera, per passare nell’angoscia le ore successive.
 
[1] Sì, lo so, noi siamo cresciuti ricordando un “tesoretto” composto solo da trottola e coltellino… ma vi invito, nel caso non lo aveste già fatto, ad andare a godervi la sequenza nella versione originale dell’ep. 12, e avrete una bella sorpresa; non solo per il terzo elemento del tesoro sepolto, ma anche per il modo, molto tipico, con cui il dialogo viene condotto, e che caratterizza davvero in modo pregnante i protagonisti.
   
 
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