III – Ciclamino
Livia arrivò a scuola con lo sguardo spento e un passo più lento del solito. Francesca la notò non appena la vide entrare in aula: aveva profonde occhiaie e camminava con la schiena leggermente curva, trascinandosi dietro la borsa come se pesasse il doppio. Non si era nemmeno preoccupata di sistemarsi i capelli, cosa insolita per lei, che teneva molto ai suoi lunghi ricci biondi.
Si sedette al suo posto, accanto a Francesca, senza neanche salutarla e si massaggiò le tempie con aria stanca.
L’amica la osservò per un lungo momento prima di rivolgerle la parola. "Ehi, tutto bene? Sei uno straccio."
Livia sbadigliò senza neanche mettersi una mano davanti alla bocca, stirando appena le labbra in un sorriso stanco. "Buongiorno anche a te."
Francesca si sporse leggermente verso di lei, abbassando la voce. "Sei stata di nuovo sveglia tutta la notte?"
"Più o meno."
Francesca strinse le labbra. "Più o meno?”
"Ma che vuoi? Sembri mia madre.” La ragazza sbuffò, stropicciandosi gli occhi arrossati. “Avrò dormito un’ora o due."
L’amica la fissò incredula. "Un'ora o due? Ma sei impazzita? E per cosa, poi?"
L’altra non rispose, non ce ne fu bisogno. Sapevano benissimo entrambe a che tipo di attività si fosse dedicata tutta la notte.
"Livia..." abbassò ancora di più la voce, quasi temendo che qualcuno potesse sentirle. "Dimmi che non hai passato tutta la notte a leggere quel libro."
"Non solo, ho controllato le mie enciclopedie, gli atlanti botanici di mio padre, ho sfogliato qualsiasi cosa mi fosse utile per trovare le piante che mi servono."
Francesca sentì un senso di frustrazione montarle dentro. Aveva sperato che, dopo l’esperimento del giorno prima, la sua curiosità fosse stata soddisfatta, che si sarebbe tolta quel libro dalla testa. Invece la vedeva ancora più immersa in quella follia.
Si guardò attorno. La classe era piena di chiacchiere mattutine, ragazzi che si scambiavano appunti e battute prima dell’inizio della lezione. Nessuno sembrava prestare loro attenzione.
Si voltò quindi di nuovo verso l’amica, con voce più dura. "Non puoi continuare così. È solo una stupida suggestione, e tu lo sai benissimo."
Livia non rispose subito. Si limitò a tamburellare le dita sul banco, fissando il vuoto davanti a sé. Sembrava in un altro mondo. Poi, con una calma inquietante, si voltò verso di lei e mormorò: "Non è solo suggestione. Quella pozione ha funzionato, l’hai visto anche tu, non puoi negarlo."
"Ti sei solo convinta che funzionasse." ribatté Francesca, cercando di mantenere la lucidità.
"Ah sì?" Livia inarcò un sopracciglio e si piegò leggermente in avanti, avvicinandosi a lei. "Allora come mi spieghi il fatto che mi ricordo perfettamente ogni singolo passaggio del nostro progetto? Che ogni dettaglio che ho sentito solo una volta in classe o che tu mi hai spiegato velocemente ora è impresso a fuoco nella mia mente?"
Francesca aprì la bocca per rispondere, ma non trovò nulla da dire. Anche se la sua mente razionale non riusciva a comprenderlo e cercava in ogni modo di trovare una spiegazione sensata, non poteva negare ciò a cui aveva assistito il giorno prima.
Livia si lasciò andare contro la sedia con un sorriso stanco ma soddisfatto. "Non è autosuggestione. Qualcosa in quella pozione ha davvero funzionato."
La professoressa entrò in classe, chiudendo la porta con un colpo secco. Il brusio si placò all’istante e gli studenti si voltarono verso la cattedra. Francesca si costrinse a fare lo stesso, ma non riusciva a togliersi dalla testa le parole dell’amica, che sembrava già persa nuovamente nei suoi pensieri.
Le ore trascorrevano lente, scandite dalle voci monotone degli insegnanti che si alternavano alla cattedra. Il suono del gesso sulla lavagna, il fruscio delle pagine voltate, lo stridere delle sedie trascinate sul pavimento accompagnavano la mattinata come un sottofondo costante.
Francesca, di tanto in tanto, lanciava un’occhiata di sbieco all’amica, senza riuscire a scrollarsi di dosso quella strana sensazione che la tormentava sin da quando l’aveva vista entrare in classe.
Livia era lì fisicamente, ma la sua mente sembrava altrove. Non prendeva appunti, non apriva i libri, non prestava la minima attenzione alle lezioni.
Mentre gli altri scrivevano appunti nei quaderni o seguivano le spiegazioni con un minimo di partecipazione, lei aveva posato davanti a sé un piccolo taccuino dalla copertina sgualcita e scribacchiava senza sosta con una grafia piccola e veloce.
A ogni cambio d’ora, mentre gli altri chiacchieravano o si stiracchiavano sui banchi in attesa del prossimo insegnante, Livia rimaneva curva sul suo banco. Sporgendosi al di sopra della sua spalla, Francesca notò che stava scrivendo nomi in latino, incorniciati da piccoli schizzi dettagliati di foglie e fiori stilizzati. In alcuni punti, accanto ai nomi, aveva annotato date, altitudini, il nome di qualche città o regione.
Più volte cercò di carpire qualche parola, ma ogni volta che Livia percepiva la sua attenzione, inclinava il taccuino in modo da nasconderne il contenuto.
Quando la campanella suonò, annunciando la fine della giornata, gli studenti si alzarono rumorosamente, accalcandosi verso l’uscita dell’aula. Francesca si girò automaticamente verso l’amica, ma lei, senza alzare lo sguardo, chiuse bruscamente il taccuino e, con una rapidità sorprendente, lo infilò nella cartella assieme ad astuccio e quaderni.
In un attimo, era già fuori dalla porta.
Di solito uscivano insieme, percorrevano lo stesso tratto di strada chiacchierando, prima che le loro strade si dividessero, ma stavolta Livia non l’aveva nemmeno aspettata.
Francesca serrò le labbra e, infilandosi la borsa a tracolla in tutta fretta, la inseguì fuori dall’aula.
Livia camminava veloce, schivando gli altri studenti che si accalcavano all’uscita della scuola. Aveva fretta.
Francesca uscì dall’edificio pochi istanti dopo e la vide già a diversi metri di distanza, il passo lungo e deciso, la cartella stretta in una mano. Iniziò a correre per raggiungerla.
"Livia!" la chiamò, cercando di farsi largo tra la folla. L’amica non si voltò, continuò a camminare. "Livia, aspettami!"
Finalmente l’altra si fermò, girandosi con un’espressione impaziente. "Che c’è?"
Francesca si bloccò a pochi passi da lei, ansimando leggermente e sistemandosi gli occhiali che, come sempre, le erano scivolati dal naso. "Dove stai andando? Di solito torniamo a casa insieme."
"Ho delle commissioni da fare per mia madre. Niente di che, devo comprare un paio di cose. Torna pure senza di me." disse alzando le spalle con indifferenza.
La più piccola aggrottò la fronte. Era palesemente una balla.
"Dove devi andare?" insistette. "Vuoi che ti accompagni?"
Livia sbuffò, stringendo più forte la cartella. "Franci, non è niente di importante, non c’è bisogno che vieni anche tu. Ho fretta, ci vediamo domani, okay?"
Poi, senza aspettare risposta, si voltò e riprese a camminare a passo svelto, lasciandosi alle spalle l’amica che, sconfitta, non poté far altro che guardarla andar via.
I giorni successivi trascorsero in un modo che Francesca non avrebbe mai immaginato: senza Livia.
All’inizio, quando non si presentò a scuola il giorno dopo, non si preoccupò troppo. Magari era solo raffreddata o, più probabilmente, aveva deciso di prendersi una giornata per riposarsi dopo essersi ridotta a uno straccio per il poco sonno. Ma quando non si presentò neanche mercoledì e giovedì, iniziò a temere che fosse successo qualcosa.
Non era da lei assentarsi senza avvisare, senza neanche fare un colpo di telefono, soprattutto nel fatidico giorno in cui avrebbero dovuto esporre la tesina di scienze su cui avevano lavorato tanto a lungo.
"Petruzzi è assente." constatò la professoressa, scorrendo l’elenco degli studenti con aria seccata. "Bene, vorrà dire che Belli discuterà la tesina da sola e Petruzzi si beccherà una bella insufficienza."
Francesca si strinse nelle spalle e, mentre si alzava per raggiungere la cattedra ed esporre quel maledetto progetto sulla biologia e la botanica, guardò il banco vuoto accanto al suo e si chiese dove fosse in quel momento Livia.
Decise che dopo scuola sarebbe andata a trovarla.
Nei giorni precedenti aveva provato a chiamarla, ma senza successo. O trovava il telefono occupato o le rispondeva uno dei genitori di Livia, dicendole che la figlia non era in casa o che era troppo impegnata per parlare. "Ti richiamerà più tardi." dicevano ogni volta, ma quella telefonata non arrivava mai.
Stavolta, però, non sarebbe rimasta zitta e buona ad aspettare una risposta che pareva non dover arrivare mai.
Quando suonò al campanello della casa di Livia, fu accolta dalla madre, Carla, che indossava un grembiule macchiato e aveva i capelli raccolti in uno chignon disordinato, come se fosse stata nel mezzo della preparazione della cena.
"Francesca, che piacere vederti! Sei venuta a trovare Livia?"
La ragazza esitò per un istante. "Sì, volevo vedere come stava. A scuola è assente da giorni e non ho sue notizie."
Per un attimo, nel volto della donna si dipinse un’espressione confusa. "Assente? Ma io pensavo fosse a scuola con te."
Francesca sentì il sangue gelarsi nelle vene.
Non sapeva cosa rispondere. La madre di Livia sembrava sinceramente sorpresa e, nel suo sguardo, iniziava a insinuarsi un velo di preoccupazione. Si era accorta solo in quel momento che la figlia le aveva mentito?
Sentendosi terribilmente a disagio, Francesca finse un sorriso e fece un passo indietro. "Oh... no, in realtà non intendevo quello, è che oggi è andata via di corsa, ehm... vado a cercarla, magari è in giro."
Ignorando le proteste della donna, si girò su se stessa e si allontanò dal vialetto più in fretta che poteva, col cuore che le batteva in gola.
Livia non aveva detto ai suoi genitori che non andava a scuola.
Ma allora, dove diavolo passava le sue giornate?
Non aveva intenzione di girare a vuoto per il paese, ma mentre percorreva la strada verso il centro, con la mente che ribolliva di domande, il destino le offrì una risposta inaspettata.
Livia comparve davanti ai suoi occhi.
Stava uscendo dalla biblioteca in quel preciso istante, con la borsa carica di libri a tracolla e altri due volumi stretti tra le mani.
Si stava incamminando verso casa con passo svelto, ma quando alzò lo sguardo e vide Francesca, si fermò per un istante.
I loro occhi si incrociarono.
Francesca fece un passo avanti, pronta ad affrontarla.
Livia, invece, alzò una mano in un cenno rapido. "Ciao, Franci!" disse, con una voce forzatamente allegra.
Poi, prima che l’amica potesse risponderle, deviò il percorso e accelerò il passo, evitando di incrociarla.
Francesca rimase a guardarla mentre andava via, ancora una volta.
In un altro momento, forse, l’avrebbe inseguita. Avrebbe cercato di fermarla e costringerla a parlare. Ma qualcosa in quel gesto, in quel modo sbrigativo e brutale di evitarla, le provocò una fitta di rabbia e un senso di stanchezza profonda.
Se non voleva parlarle, perché doveva continuare a preoccuparsi? Se aveva deciso di cacciarsi in qualcosa di strano, erano affari suoi. Lei aveva provato a darle supporto, a starle vicina, a convincerla a tornare in sé. Ma non poteva rincorrerla per tutto il paese supplicandola di parlarle.
Strinse i pugni lungo i fianchi e, con un sospiro carico di frustrazione, riprese il cammino verso casa.
Mentre si allontanava, non poté fare a meno di pensare che, in fondo, Livia si meritava la ramanzina che l’aspettava una volta rincasata. Carla non era certo il tipo da lasciar correre una cosa del genere, e forse, dopo una bella strigliata, l’amica avrebbe finalmente smesso con quelle assurdità.
Ma neanche il rimprovero dei genitori servì a nulla. Livia continuò a non farsi vedere a scuola il giorno dopo, né quello successivo. Fino alla fine della settimana, la sua sedia rimase vuota.
Fu solo la domenica che Francesca la rivide.
Il sole splendeva alto nel cielo terso, diffondendo un calore piacevole e avvolgente. Nell’aria vibrava il profumo delle piante in piena fioritura e le voci allegre dei bambini riempivano il piccolo parco del paese, accompagnate dal suono delle corde che schioccavano al contatto col suolo e dai palloni che rimbalzavano qua e là.
Francesca si trovava lì con alcune compagne di scuola, impegnata in una partita a campana. Il gesso bianco tracciava i confini del percorso sull’asfalto, e le ragazze si avvicendavano, lanciando il sassolino con attenzione prima di saltare con equilibrio da una casella all’altra. L’atmosfera era spensierata, le risate fragorose e sincere.
Per un attimo, Francesca riuscì a dimenticare il peso che le premeva sul petto da giorni. Ma poi, alzando gli occhi, la vide.
Livia era seduta sotto un grande olmo, lontana dal gruppo di bambini e ragazze che giocavano nel parco. Se ne stava lì da sola, con le gambe incrociate e quel libro maledetto appoggiato sulle ginocchia. Non sembrava minimamente interessata a ciò che la circondava: il suo sguardo era fisso sulle pagine del tomo, mentre la mano scorreva veloce lungo i margini, aggiungendo nuove annotazioni a quelle già presenti.
Francesca la osservò per qualche secondo, poi abbassò gli occhi sulla pietra che aveva tra le mani. Avrebbe potuto ignorarla e continuare a giocare, ridere, fingere che tutto fosse normale. Ma non ci riuscì.
Lasciando il suo turno a un’altra ragazza, si voltò e si incamminò verso di lei.
Livia alzò lo sguardo quando l’amica le si fermò accanto. Per un istante nessuna delle due parlò, poi Francesca si accovacciò, incrociando le braccia sulle ginocchia.
"Allora?" chiese, senza preamboli. "Ti sei finalmente degnata di farti vedere?"
Livia sorrise appena, sfiorando il libro. "Ero impegnata."
"Lo vedo." replicò Francesca, lanciando un’occhiata alle parole scritte a margine delle pagine ingiallite. "Non ti sei ancora stancata di questa roba?"
"No, tutt’altro." rispose Livia con un lampo di soddisfazione negli occhi. Chiuse il volume con un gesto deciso e lo posò accanto a sé sull’erba. Poi infilò una mano nella tasca interna della borsa e ne estrasse una piccola boccetta di vetro scuro. "Guarda, sono riuscita a creare la pozione."
Francesca trattenne il fiato, fissando l’oggetto con un misto di incredulità e timore. Il liquido all’interno era denso e scuro, con sfumature rossastre che si muovevano lente quando Livia inclinava la bottiglietta avanti e indietro.
"L’hai fatta davvero?"
"Non è stato per niente facile. Ci sono voluti giorni." annuì l’altra, stringendo fieramente la boccetta tra le dita. "Alcune erbe le ho raccolte nei boschi vicini, altre ai margini dei campi, ma molte erano impossibili da trovare. Le ho cercate dappertutto: in erboristerie, botteghe, farmacie... Un giorno sono persino andata in città per comprarle, ma nulla da fare. Così ho cercato delle alternative. Ho studiato i principi attivi, confrontato testi, incrociato informazioni. Ho fatto tutto con attenzione. Se il libro dice il vero, funzionerà."
Francesca la fissò, sconcertata. Era incredibile quanta dedizione avesse messo nella creazione di quella pozione. Se avesse impiegato la stessa energia nello studio, sarebbe stata la prima della classe.
"E se non funzionasse? E se avessi sbagliato qualcosa?"
Livia la guardò con freddezza. "Se non funziona, Marta si sarà bevuta solo un intruglio schifoso. Ma se funziona... beh, sarà una giusta punizione."
"Non puoi davvero farlo." insistette Francesca, sempre più tesa. "Non ti rendi conto di quanto sia assurdo tutto questo? Di quanto possa essere pericoloso?"
"Non è pericoloso." ribatté Livia, stringendo la boccetta come per proteggerla. "Non è veleno. Non voglio farle del male. Voglio solo che impari la lezione, che capisca che non può prendersi tutto quello che vuole senza conseguenze."
"Liv, ti prego, ragiona."
"Smettila!" sbottò l’altra, con un’improvvisa foga. "Non sei mai stata dalla mia parte, vero? Hai solo fatto finta di assecondarmi per pietà, ma in realtà pensi che io sia ridicola. Mi hai sempre trattata con sufficienza, come se fossi un’idiota, ma io non sono stupida! Tu non vuoi che ci provi perché hai paura che funzioni. Hai paura che io abbia ragione e tu torto, perché ho finalmente trovato una cosa che mi appassiona e in cui sono più brava di te. Sei solo invidiosa."
"Cosa? Ma che stai dicendo? Io..."
"Basta, non importa." la interruppe, con voce e occhi duri. "Pensavo fossi mia amica. Pensavo mi supportassi. Ma evidentemente mi sbagliavo."
Si alzò in piedi di scatto, afferrando il libro con una mano e stringendo la boccetta con l’altra.
"Non ho bisogno di te." aggiunse, con una freddezza che le trafisse il petto come una lama.
Poi si voltò e si allontanò, come ormai faceva sempre, senza nemmeno guardarla.