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Autore: LubaLuft    23/05/2025    0 recensioni
Questo è il mio primo tentativo di originale ☺️, che nasce da spunti, interazioni e challenge.
Sarebbe dovuta rimanere una one shot autoconclusiva ma poi sono spuntate altre idee e sono andata avanti con la scrittura.
Simon e Drew sono due agenti dell'FBI. Hanno caratteri totalmente diversi e sono attratti l'uno dall'altro, in una situazione che si fa sempre più complicata e a ridosso di una missione importante.
Dal testo:
« “Usciranno, secondo te?”
“Con questo gelo? Ne dubito. Ma ci spero.”
“Senti, ti ho…”
“Tieniti comunque pronto.”
“Hai…”
“Il satellitare nella loro auto non dà segni di vita, sei sicuro di averlo attivato correttamente?”
“…FAME?”
Ed è allora che Simon, finalmente, si gira verso di lui.
Drew rimane sempre ipnotizzato dal modo in cui lo guarda, specie quando lo squadra spazientito, a un passo dalla sfuriata… e ultimamente capita spesso. Nella penombra non riesce a vedere i suoi occhi blu ma se li immagina ed è come se ne sentisse la densità, oceanica e profonda. Dylan, il suo secondo nome, Figlio del Mare. Ci annega tutte le volte che li fissa troppo a lungo.»
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Something in the way
 
 
 
“Sai Roy… questo paesaggio l’ho sempre trovato un po’ inquietante.”
“Che cos’è che ti inquieta? È il Colorado, ci sei nato e cresciuto, e Aspen è un posto molto tranquillo.”
Martin punta un dito indicando il panorama fuori del finestrino.
“Beh, la strada che stiamo percorrendo, per esempio. Mi fa venire in mente l’inizio di The Shining.”
Poi si toglie gli occhiali da sole e scuote la testa.
“Una sera - avrò avuto sì e no sei anni - ero in casa con la mia tata, che a un certo punto era crollata addormentata sul divano. Stava guardando una roba tipo Oprah Winfrey e io ho cambiato canale giusto in tempo per beccare la scena delle due gemelle infiocchettate che invitano Danny a giocare con loro per sempre e sempre e sempre. Cazzo, erano identiche a due mie compagne di classe! Non ho chiuso occhio quella notte, e meno male che non mi chiamo Danny.”
 
Martin ora ride di gusto a quel ricordo che non lo spaventa più. La sua risata è leggera come fili d’argento. Roy lo osserva e non si capacita ancora di come sia finito nella sua macchina e nella sua vita. Eppure è tutto regolare: è uscito dal rehab, il suo trolley è nel portabagagli, ha smangiucchiato frutta secca da quando hanno lasciato Denver, non ha fumato. È pallido e docile, ha con sé dei medicinali che deve prendere e un diario da compilare. È vestito in maniera sobria e comoda, traffica con la radio in cerca di musica perché il telefono non prende.
È reale. È vero.
 
Si era fatto due settimane di ricovero in una clinica prestigiosa, dove lo avevano rimesso in piedi fra sorrisi di velluto e pasti da ristorante stellato. Psicofarmaci, medici dall’aria tranquilla, blanda attività fisica. Appena il cellulare gli era stato restituito, la prima chiamata era stata per Roy, che in quel momento era in una riunione importante al J. Edgar Hoover Building di Washington. Quando il numero era apparso sullo schermo non ci aveva capito più nulla e aveva chiesto una sospensione per poter rispondere a una telefonata importante.
 
Aveva pochi minuti a disposizione, come stava? E Martin che gli chiedeva di scusarlo, di perdonarlo, e non lo faceva parlare quasi e gli diceva che non sarebbe andato a stare da suo padre ma sarebbe tornato a casa sua. Che stava bene, che era pulito, che non lo avrebbe fatto più, gli credeva? Sì, aveva risposto Roy. Davvero gli credeva? Sì. E poi Martin gli aveva detto che gli mancava, che voleva stare con lui e Roy annuiva, gli diceva che anche lui sentiva la sua mancanza. Tutto questo mentre oltre la parete di cristallo della sala riunioni il gotha dell’F.B.I. lo osservava con attenzione
Non poteva stare al telefono e gli aveva detto che sarebbe andato da lui appena possibile e, terminata la riunione, era andato direttamente in aeroporto, anticipando il volo e disertando la cena di gala. Alle dieci di sera era davanti alla sua porta, terrorizzato e impaziente. Aveva bussato, Martin gli aveva aperto, pallido e sorridente, fragile come una bolla di sapone che svolazza tra gli spigoli.
 
Quella notte era rimasto da lui, pieno di dubbi se fosse una buona idea, deciso comunque a non fare mosse azzardate e poi Martin aveva deciso che l’unico azzardo sarebbe stato ignorare ciò che desideravano entrambi. Si erano spogliati e il corpo di Martin fra le sue braccia, magro e leggero, caldo e invitante, lo aveva fatto impazzire e intenerire allo stesso tempo. Aveva affondato il viso sul suo petto, sulla rosa tatuata, e si era lasciato andare, non poteva fare altro che viverlo così come arrivava, come una specie di dono sospeso nelle sue mani fino a quando sarebbe durato.
Roy, ti amo, lo sai? Lo senti? Sì, mio Dio, sì. E tu? Mi ami, Roy? Sì. Mi amerai? Sì, sì.
Il viaggio ad Aspen lo aveva organizzato dall’oggi al domani - Simon gli aveva offerto la casa di famiglia - e Martin aveva diligentemente parlato con i medici e con suo padre, comunicando loro che un amico lo avrebbe ospitato e che avrebbe risposto a tutte le telefonate, preso tutte le medicine, seguito tutte le indicazioni.
 
“Quanto manca?” chiede Martin con un lieve sbadiglio.
Roy sta guidando piano per compensare e minimizzare i disagi causati dal dislivello altimetrico - quello sbadiglio ne è un sintomo, come anche qualche capogiro.
“Un’ora scarsa e ci siamo. Perché nel frattempo non dormi un po’? Tira pure giù il sedile.”
Martin lo guarda attentamente.
“Perché non voglio perdermi questo spettacolo della natura, che ormai non ha più nulla di inquietante. Voglio poterlo ammirare insieme a te. Voglio che mi resti impresso non per la sua bellezza in sé ma per il significato che ha ora.
Ha smesso di ridere ma i suoi occhi continuano a brillare, e per Roy diventano subito parte integrante del paesaggio, come una roccia millenaria investita da una luce particolare.
Qualcosa di bello sulla sua strada.
 
 
La casa dei McNamara è fuori città, con una vista mozzafiato sui laghi Maroon.
Non nevica più da qualche settimana e durante le ore più calde il clima è piacevole, ma il camino è invitante e Roy lo accende subito. Martin non resiste e tira fuori dal taschino un pacchetto da dieci e guarde Roy con aria comicamente colpevole.
Se ne accende una e la fuma con tiri lenti e voluttuosi. Ci può stare, finché è solo tabacco, pensa Roy concentrandosi sul male minore.
Lasciano i bagagli e vanno subito in centro. Non ci sono eventi particolari, la stagione estiva con i suoi spettacoli è ancora lontana, ma in città c’è abbastanza movimento, i negozi sono aperti.
Nella vetrina di una libreria sul corso principale qualcosa attira l’attenzione di Martin. Guida alle città fantasma del Colorado.
“Città fantasma? In che senso?”
“Intorno al 1880 in quest’area del Colorado erano attive delle miniere d’argento. Durante il loro periodo di sfruttamento vennero costruiti piccoli villaggi, poi l’argento perse valore e l’estrazione si arrestò. Ashcroft è uno di questi, si trova una quindicina di miglia da Aspen.
“Deve essere interessante! Ti va di andarci domani?”
“Va bene…”
 
La serata scorre tranquilla. Sono entrambi rilassati, hanno mangiato con appetito e sono silenziosi, assorti forse nei pensieri che hanno l’uno per l’altro. A casa stendono un lenzuolo sul tappeto di lana e fanno l’amore davanti al camino acceso. Dopo, mentre sono a letto e Martin gli dorme tra le braccia, Roy resta a fissare le travi del soffitto, così come fissava il tendone dell’unità medica quando era in missione. Tira una strana aria e per un istante la bolla di sapone è lui. Si rifugia allora nel corpo di Martin, nella sua morbidezza e arrendevolezza, e si addormenta che fuori già albeggia.
 
 
La città fantasma è tenuta bene e offre i resti di un ufficio postale, un negozio e altri manufatti. È però immersa in un silenzio spettrale, complice il fatto che sembra non esserci nessun altro oltre a loro due e se Martin, che ha acquistato una guida fotografica, non fa che confrontare le immagini del passato con la realtà presente, Roy vede invece altre immagini che non sono stampate con l’inchiostro bensì impresse a fuoco nella sua mente. Finché capisce che cosa gli sta accadendo e un’onda di panico lo investe: una piccola città abbandonata dopo un’azione di guerra, un giovane soldato che scatta foto come un turista, una mina che esplode. Deve sedersi sotto un portico, con alle spalle un rudere senza vetri, senza occhi come uno scheletro, i legni come ossa scarnificate.
Prova a respirare come gli è stato insegnato ma non è risolutivo. Inizia a tremare e a sudare e i pensieri si avvolgono intorno a Martin e al terrore di perderlo - perché è solo di questo che si parla, ormai.
Che cosa vuoi, Roy? Vuoi lui, per la vita? Possibile che basti?
In sostanza chiedevi un letargo anestetico, una certezza di essere ben nascosto. Non chiedevi la pace del mondo, chiedevi la tua. E ora?
“Ehi… Roy… Ma che cos’hai?”
Martin si avvicina e gli si siede accanto.
“Ho paura. Una paura fottuta. Di me, di te, di questa cosa che abbiamo.” Le parole gli escono senza che possa farci nulla e se ne pente un istante dopo. Una follia dire queste cose quando l’altro è ancora così fragile, ma Martin gli si siede accanto e gli prende il viso fra le mani.
“Guardami Roy. Non puoi avere paura, se non ne ho io.”
Solleva gli occhi e trova quelli di Martin.
 
Sono fatti di roccia millenaria, e vi si aggrappa.

 
   
 
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