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Autore: kremlin0    27/05/2025    0 recensioni
Lupicco è sottoposto a un interrogatorio per un crimine che riflette il dolore di un passato segnato da violenze e abusi. Mentre la verità viene lentamente svelata, emergono le ferite di un uomo intrappolato tra il desiderio di redenzione e la durezza di una società che non lo accoglie. Un confronto intenso che mette in discussione i confini tra vittima e colpevole
Genere: Noir | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta
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"CREDE CHE QUESTO SIA TUTTO UNO SCHERZO?!" sbottò l'agente Falchi contro il sign. Lupicco, uomo transgender sulla cinquantina, reo di aver dato un calcio ad un console bielorusso in visita a Bari. Lupicco non rispose. Si limitò ad aggiustarsi gli occhiali da vista con un gesto lento, quasi teatrale, come se quella colluttazione in piazza non lo riguardasse. Aveva i capelli grigi legati in una coda di cavallo sciatta, e una maglietta strappata all’altezza della spalla. Finalmente, Lupicco alzò lo sguardo. I suoi occhi erano due fessure stanche, ma dietro c’era qualcosa di acuto, come il vetro di una bottiglia rotta. "Quelli là, mi hanno rovinato l'esistenza..." disse, con una calma da far venire i brividi.L'agente Falchi non abboccò. "Si riferisce al console? O ai bambini che ha adottato e di cui nessuno ha più notizie?" Lupicco rise piano. Una risata senza denti, che suonava più come un colpo di tosse trattenuto. "Quelle sanguisughe? Ingrate, manipolate, rovinate dai loro geni... Altro che 'adozione', li ho salvati. Dalla povertà, dalla vodka, dalla povertà dell'Est. Ma non basta mai, vero? Vogliono pure il diritto di giudicarmi." Falchi incrociò le braccia. "Lei dice di averli salvati. Ma uno è fuggito. L'altra ha denunciato abusi. E oggi ha preso a calci un diplomatico straniero. Mi spiega il nesso?" Lupicco tacque. "Secondo l'articolo 64 del Codice di Procedura Penale," continuò Falchi, "può non rispondere. Ma abbiamo già abbastanza per inchiodarla. Il console bielorusso ha testimoniato, i suoi 'figli' pure. E poi ci sono le carte, Lupicco. Le molestie e violenze domestiche.. beh, posso dirti che stai nella merda totale..." Lupicco si strinse nelle spalle, un sorriso tirato che non raggiungeva gli occhi. Dopo essere riuscito momentaneamente a far tacere l'individuo, Falchi disse:"Lei ha diritto a un avvocato. Se non se lo può permettere, glielo fornirà lo Stato." Fece una pausa. "Ma dubito che anche il miglior penalista possa far sparire quello che ha fatto. Perché qui non si tratta solo di un calcio a un diplomatico. Che già di per sè è gravissimo... ma di abusi su minori. E per quello, Lupicco, non c'è articolo del codice che la possa proteggere." Lupicco si mise a ridere di nuovo, quella risata secca, senza gioia. "Ah, la morale improvvisa dello Stato! E dov'era lo Stato quando quei marmocchi marcivano nei..." "Basta." Falchi sbatté un pugno sul tavolo. "Non è un tribunale popolare, qui. È una stanza degli interrogatori. E lei ha tre diritti fondamentali in questo momento: sapere di cosa è accusato, tacere e farsi difendere. Il resto non mi riguarda." Si raddrizzò, prendendo un fascicolo. "Quindi, signor Lupicco, ora decida. Continua a fare il martire, o inizia a pensare a come vuole passare i prossimi vent'anni. Perché una cosa è certa: da questa stanza non uscirà come è entrato." Lupicco smise di ridere. I suoi occhi, finalmente, persero quella lucidità di vetro rotto. Per la prima volta, sembrò capire che non era più lui a dettare le regole. "Allora?" disse Falchi, aprendo il registro. "Chiamiamo un avvocato, o preferisce firmare la confessione?" "Quei luridi mocciosi me la pagher..." Lupicco non finì la frase che nella stanza entrò il suo avvocato; l'avv. Grimaldi. L’avvocato Grimaldi entrò con passo misurato, una cartella di pelle logorata sotto il braccio e uno sguardo che sembrava già stanco prima ancora di iniziare. "Mi sembra di essere arrivato appena in tempo," disse Grimaldi, posando la cartella sul tavolo senza degnare Falchi di un’occhiata. "Mio cliente ha chiaramente bisogno di ricordare i suoi diritti." Falchi si irrigidì. "Avvocato, il suo cliente ha appena minacciato delle vittime. In questa stanza." Grimaldi sorrise, un sorriso sottile come un coltello. "Agente, mio cliente è sotto shock. Ha subito un arresto violento, accuse infamanti e ora viene interrogato senza che io sia presente. Se c’è qualcuno che sta violando dei diritti qui, non è lui." Lupicco osservò il suo difensore con un misto di sollievo e disprezzo. "Finalmente qualcuno che parla la mia lingua," borbottò. Grimaldi gli lanciò un’occhiata gelida. "Taci. Non dire altro." Poi, rivolto a Falchi: "Voglio vedere tutte le prove che avete. Le accuse, le testimonianze, i documenti. E soprattutto, voglio sapere su quali basi avete estratto confessioni prima che io arrivassi." Falchi incrociò le braccia. "Nessuna confessione. Solo un uomo che si è autodenunciato con le sue parole." "Ah, davvero?" Grimaldi sfiorò la cartella con le dita. "Allora non avrete problemi a mostrarmi il video dell’interrogatorio. Perché, certo, avrete seguito il protocollo e registrato tutto, no?" Un silenzio pesante calò nella stanza. Grimaldi approfittò della pausa per sedersi accanto a Lupicco, abbassando la voce in un tono che solo lui poteva sentire. "Se vuoi uscire da questa merda, da ora parli solo attraverso di me. Capito?" Lupicco annuì, ma i suoi occhi tornarono a brillare di quella lucidità tagliente. "Avvocato… Quanto mi costerà questa farsa?" L’avvocato sospirò. "Più di quanto tu possa immaginare." Poi, rivolgendo la sua attenzione all'agente Falchi: "Agente, mi conceda un attimo con il mio cliente. In privato." Falchi esitò, ma sapeva che non poteva rifiutare. Con un cenno del capo, uscì dalla stanza, lasciando i due soli. Appena la porta si chiuse, Grimaldi si sporse verso Lupicco, la voce un filo più dura. "Sei un idiota. Hai appena ammesso di aver minacciato quei ragazzi davanti a un poliziotto. Ti rendi conto che ti stai scavando la fossa da solo?" Lupicco scrollò le spalle. "Che vuoi che me ne freghi? Tanto ormai è tutto finito." "Non è finito un cazzo," ringhiò Grimaldi. "Se proprio non lo sai... rischi l'estradizione per la cazzata che hai fatto!" Un silenzio pesante calò tra i due. Fuori, si sentivano i passi dell’agente Falchi che andava e veniva, impaziente. Lupicco impallidì, un tremito gli attraversò le mani nodose. "Non possono... sono cittadino italiano." "Cittadino?" Grimaldi sbuffò. "Hai la fedina penale pulita? Quei due figli adottivi che hai 'salvato'... sai cosa raccontano nei verbali? Violenze, ricatti, abusi. E ora col console..." La porta si aprì. Falchi entrò con un secondo agente, un giovane con un tablet in mano. "Avvocato, abbiamo il video dell’aggressione al console. Vuole vederlo prima di continuare?" Grimaldi allungò una mano. "Naturalmente." Il video era granuloso, ma chiaro: Lupicco avanzava a passi scomposti, il volto contratto in una smorfia. Il console, un uomo pingue in un completo grigio, alzava le mani in segno di pace. Poi, il calcio allo stomaco, secco, brutale. Il console crollava, la folla in piazza urlava. "Non sembra una legittima difesa," commentò Falchi. "Quello che sembra a lei non è di mio interesse" rispose prontamente Grimaldi, stoppando il video dell'aggressione e restituendo il tablet all’agente senza commenti. Il silenzio nella stanza era denso, rotto solo dal respiro affannoso di Lupicco, che fissava il tavolo come se potesse sfondarlo con lo sguardo. "La ringrazio può andare..." disse l'avvocato a Falchi, che prontamente lasciò la stanza. Appena la porta si chiuse, Lupicco si appoggiò all’indietro sulla sedia, le narici dilatate. "Quel maledetto console… Mi ha guardato come se fossi un verme. Lui e quei due parassiti..." "Zitto," lo interruppe Grimaldi, stavolta con una voce così bassa e carica di minaccia che persino Lupicco si fermò. "Ascoltami bene. Se dici ancora una parola su di loro, se fai anche solo un cenno di minaccia, ti lascio marcire in cella. Capito? Non sono qui per la tua crociata. Sono qui perché è il mio lavoro." "Eh si tanto tu i soldi li prendi lo stesso, che io mi salvo o meno..." Grimaldi non batté ciglio. Lentamente, chiuse la cartella di pelle e la posò sul tavolo con un tonfo sordo. Poi si sporse in avanti, le mani incrociate, gli occhi freddi come ghiaccio. Lupicco fissò Grimaldi, le vene del collo tese come corde. Quel tono da superiore, quelle parole che lo inchiodavano alla sua impotenza… Non lo sopportava. Non aveva mai sopportato nessuno che gli dicesse cosa fare. "Allora, Lupicco?" ripeté l’avvocato, ignorando il pericolo che trasudava dall’uomo. "Decidi. Vuoi provare a salvarti, o preferischi farti sbattere in galera come un criminale qualunq..." SCHIAC! Il pugno di Lupicco partì come una molla rilasciata, un gancio destro che colpì Grimaldi alla mascella con un rumore di ossa che scricchiolavano. L’avvocato barcollò, la sedia rovesciata all’indietro, la cartella che schizzò via, documenti volanti. Un rivolo di sangue gli colò dal labbro spaccato. La porta si spalancò di colpo. Falchi e un'altro agente irruppero nella stanza, immobilizzando Lupicco contro il tavolo mentre l'avvocato ansimava, gli occhi iniettati di sangue. "BASTARDO! TUTTI BASTARDI! VI STERMINO, VI...". Grimaldi si rialzò lentamente, asciugandosi il sangue con un fazzoletto. Non sembrava sorpreso. Solo… deluso. "Aggressione a un pubblico ufficiale. Minacce. Oltre alle accuse già esistenti." Sospirò, guardando Falchi. "Credo che il tribunale avrà molto da valutare." Lupicco venne trascinato via, scalciando, la sua rabbia ormai ridotta a un ruggito sordo. Ma nelle settimane successive, quell’ultimo gesto gli costò tutto. Il processo fu rapido e spietato. Le prove erano schiaccianti: il video dell’aggressione al console, le testimonianze dei figli adottivi, le carte che dimostravano anni di violenze domestiche. E ora, l’assalto a Grimaldi, ripreso dalle telecamere dell’interrogatorio. L’ultima immagine che si ebbe di Lupicco fu quella di un uomo incatenato, spinto su un volo per Minsk da cinque poliziotti. La sua coda di cavallo grigia era disfatta, la maglietta strappata sostituita da un’anonima tuta arancione. Aveva i polsi serrati da manette d’acciaio, collegate da una corta catena al busto, e le caviglie bloccate in ceppi metallici che cozzavano tra loro a ogni passo, costringendolo a un’andatura spezzata, quasi grottesca. Una catena ventrale completava il sistema, costringendo il busto a piegarsi in avanti in un’umiliante curva forzata... L'arrivo a MINSK: L’aereo atterrò alle 23.38 nella semioscurità, le luci della pista di Minsk-2 illuminavano appena la pioggia battente che scendeva obliqua, spinta da un vento gelido. Lupicco fu fatto scendere per primo, spinto giù dalla scaletta con un colpo secco alla schiena che lo fece inciampare. Le catene gli impedirono di cadere, ma lo lasciarono sospeso in una posizione innaturale, le braccia tese, la schiena curva. Dall’ombra del terminal emersero due figure imponenti, avvolte in uniformi nere, i volti scolpiti in un’espressione glaciale sotto i berretti a visiera. Uno dei due brandì un documento, mostrandolo agli agenti italiani con un gesto secco. Scambiarono qualche parola in russo, un cenno di assenso, poi attesero in silenzio, immobili come statue, finché il rombo dei motori dell’aereo non si allontanò nella notte. Solo allora, senza preavviso, afferrarono Lupicco per le manette e le aprirono con un clic metallico. L’aeroporto era un deserto di luci al neon e linoleum consumato. I suoi passi echeggiarono sinistramente nel corridoio vuoto, accompagnati dagli sguardi spenti di doganieri annoiati che fumavano in disparte. Nessuna domanda. Nessuna curiosità. Quando anche i ceppi alle caviglie furono tolte, Lupicco inspirò a fondo, le spalle finalmente leggere. "Che razza di scherzo è mai ques..." La frase gli morì in gola. "Tu Correre..." iniziò a dire l'uomo che poco prima gli aveva tolto le manette. Quanto lontano poteva andare un uomo scalzo e che non mangiava da 10 ore? Non molto lontano, ci scommettevano le guardie bielorusse. "Corri," ripeté l’uomo in un italiano stentato, la voce un misto di divertimento e minaccia.Un istinto primordiale gli ordinò di scattare. I piedi nudi schiaffeggiarono il linoleum gelido, il cuore gli martellava nelle orecchie. Dietro di lui, risate soffocate, il suono metallico di un caricatore inserito. Non c’era via d’uscita. Solo corridoi, porte sbarrate, l’eco dei suoi rantoli. La prima raffica lo mancò di poco. I proiettili crivellarono un poster propagandistico con la faccia del presidente bielorusso. La seconda lo colpì alla coscia. Cadde in una pozza d’acqua piovana, il dolore così acuto da sembrare fuoco. L’ultima cosa che vide fu la sagoma delle guardie avvicinarsi, lente, mentre una di loro estraeva qualcosa dal fodero."Ti avevo detto di correre," borbottò la guardia in quel suo italiano spezzato, un ghigno che gli deformava il volto. Lupicco cercò di sollevarsi, ma il proiettile nella coscia gli aveva paralizzato la gamba. Il dolore era accecante, ma più di tutto, era la rabbia a bruciargli dentro. Quella stessa rabbia che lo aveva accompagnato per tutta la vita, che lo aveva portato a calciare un console, a picchiare il suo avvocato, a maltrattare quei ragazzi che aveva "salvato". Due settimane dopo, Italia L’agente Falchi chiuse il fascicolo con un sospiro. Sulla scrivania, un ritaglio di giornale riportava poche righe: "Estradato in Bielorussia per aggressione a diplomatico, cittadino italiano muore in circostanze non chiare. Nessuna richiesta di chiarimenti da parte del governo." Nessun funerale. Nessuna richiesta di giustizia. Dall’altra parte della città, due ragazzi, un ragazzo e una ragazza dai capelli scuri e gli occhi vuoti, fissavano lo stesso articolo su un tablet. Non dissero nulla. Ma per la prima volta da anni, quella notte, dormirono sereni.
   
 
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