gioventù dell'Idice[1] e del Taro?[2]
O perché d'intrepide morti
c'è levato financo il sognar?
Miserevole tempo ed avaro,
generoso coi nostri antenati,
che di tanti diletti ha privati
noi che i grandi vorremmo emular.
Tristi siamo nell'aere dolce
che del sol risplende e s'allegra.
Tristi siamo perché or ne molce
di concordia un estraneo languor.
Or che val di serbare intégra
una vita non spesa alla guerra?
Che piacer, che gloria se in terra
non sfochiamo il virile furor?
Dove sono i Sanseverineschi,
condottieri feroci e ribelli?
Dove gli Este, dove gli sforzeschi,
gli Aragona di stirpe regal?
Più non vedo gli Orsini e i Vitelli,
Malatesti, Trivulzi, e Gonzaga,
non dei Rossi il fanciullo[3] o la piaga
che il Mancino pingea col pugnal.[4]
Un Corso[5] vogliamo, un Roberto, [6]
che comporti dio Marte incarnato;
te, Fracasso,[7] ch'a brando scoperto
festi il cielo e la terra tremar;
quell'Ercole, o schiavone insensato,
ch’alla gloria del padre negasti;[8]
Ferrandino, che mentre regnasti,
ogni speme paresti passar.[9]
Fu l'infame esecranda invenzione
de l'ordigni, de l'armi da foco
che causò la total perdizione
del pristìn militare valor.
Ma più grave peccato è che in poco
sia dall'uomo andata negletta
la divina e dolce vendetta,
che nel sangue lavava l'onor!
Non più tu, Bellona,[10] sugelli
con la guerra il patto sacrale;
non più in scontri, non più nei duelli
l'uomo mostra di essere tal.
Dal profondo a te grido, o marziale,[11]
che vestito di ferro imperversi:
delirante di strage hai dispersi
già in passato i pacifici mal.
Sol conceda tra i vinti il perdono
Il guerriero al forte guerriero:
di pietà fece più degno dono
chi la grazia ai vili negò.
Dissentiam da quel detto d'Omero
che sia senza né leggi né altare
privo di patria e di focolare
chi la guerra civile agognò.
Non temiamo né morte né esiglio,
non ci stornano fame o fatica;
siamo pronti a seguire il consiglio
dei Deci[12] e dei sette teban.[13]
Noi in corazza e quelli in lorica,
per nazione e per era divisi,
siam congiunti nell'alma, e nei visi
orgogliosi, audaci di man.
Epigoni d'un mondo svanito,
siam seguaci d'un tempo perduto:
siam i parti d'un grembo tradito
Ch'al rimpianto noi generò.
Quanti ingiusti giudizi ho veduto,
quanti spiriti indomiti e innati,
qual talenti incompresi e sprecati,
in galera la legge mandò.
Non chiediamo, o superni, la pace;
arrossiamo di vivere imbelli:
quel che più ci diletta e ci piace
è del sangue la cruda beltà.
Opponete i fratelli ai fratelli,
ispirate ambizione ai parenti,
travagliate coll'ira le genti,
suscitate feroci città.
***
[1] Battaglia della Riccardina, 25 luglio 1467, combattuta nei pressi del fiume Idice.
[2] Battaglia di Fornovo, 6 luglio 1495, combattuta nei pressi del fiume Taro.
[3] I Rossi di Parma potevano vantare talenti precoci, come il fanciullo di nove anni che giostrò a Venezia nel 1485.
[4] Bartolomeo Nasino, meglio noto come Mancino da Bologna (†1508), abilissimo cortellatore della seconda metà del XV, si rese famoso in duelli dai quali usciva sempre vincitore, ragion per cui fu creato cavaliere da Ludovico il Moro e divenne condottiere.
[5] Lo spregiudicato Corso Donati († 1308), eroe della battaglia di Campaldino e nemico giurato di Dante.
[6] Roberto Sanseverino (1418-1487), uno dei massimi condottieri del XV, considerato il nuovo Marte, morì settantenne in battaglia. Antonio Tebaldeo lo ricordò in un commovente sonetto:
«Non potendo per forza ingegno ed arte
Spenger il tuo valor constante e forte
L’empia fortuna s’accordò con Morte
Che te assediaro da ciascuna parte.
Ma non fé mai di sé tal prova Marte
Qual fatto hai tu con le tue squadre accorte,
Ed hai morendo tante genti morte,
Che di te sarà scritto in mille carte.
Nulla giova acquistare in terra onore
Ed ogni nostro affaticare è vano;
Quel solo ha gloria eterna che ben more;
Morto, Roberto, sei con l’arme in mano:
Bel fine a te, che gli è gran disonore
Morir in su le piume un capitano.»
«Non potendo per forza ingegno ed arte
Spenger il tuo valor constante e forte
L’empia fortuna s’accordò con Morte
Che te assediaro da ciascuna parte.
Ma non fé mai di sé tal prova Marte
Qual fatto hai tu con le tue squadre accorte,
Ed hai morendo tante genti morte,
Che di te sarà scritto in mille carte.
Nulla giova acquistare in terra onore
Ed ogni nostro affaticare è vano;
Quel solo ha gloria eterna che ben more;
Morto, Roberto, sei con l’arme in mano:
Bel fine a te, che gli è gran disonore
Morir in su le piume un capitano.»
[7] Gaspare Sanseverino (1455 ca.-1519), suo figlio, soprannominato Fracasso per la furia spaventosa con cui sgominava i nemici in battaglia.
[8] Ercole Cantelmo, giovane combattente figlio del duca di Sora, il 30 novembre 1509, dopo essersi audacemente spinto fin dentro i ripari nemici, fu catturato e crudelmente decapitato dai mercenari schiavoni sotto gli occhi impotenti del padre. Con questi versi lo rammenta Ludovico Ariosto:
Qual Ettorre ed Enea sin dentro ai flutti,
per abbruciar le navi greche, andaro;
un Ercol vidi e un Alessandro, indutti
da troppo ardir, partirsi a paro a paro,
e spronando i destrier, passarci tutti,
e i nemici turbar fin nel riparo,
e gir sì inanzi, ch'al secondo molto
aspro fu il ritornare, e al primo tolto.
Salvossi il Ferruffin, restò il Cantelmo.
Che cor, duca di Sora, che consiglio
fu allora il tuo, che trar vedesti l'elmo
fra mille spade al generoso figlio,
e menar preso a nave, e sopra un schelmo
troncargli il capo? Ben mi maraviglio
che darti morte lo spettacol solo
non poté, quanto il ferro a tuo figliuolo.
Schiavon crudele, onde hai tu il modo appreso
de la milizia? In qual Scizia s'intende
ch'uccider si debba un, poi che gli è preso,
che rende l'arme, e più non si difende?
Dunque uccidesti lui, perché ha difeso
la patria? Il sole a torto oggi risplende,
crudel seculo, poi che pieno sei
di Tiesti, di Tantali e di Atrei.
Festi, barbar crudel, del capo scemo
il più ardito garzon che di sua etade
fosse da un polo e l'altro, e da l'estremo
lito degl'Indi a quello ove il sol cade.
Potea in Antropofàgo, in Polifemo
la beltà e gli anni suoi trovar pietade;
ma non in te, più crudo e più fellone
d'ogni Ciclope e d'ogni Lestrigone.
Qual Ettorre ed Enea sin dentro ai flutti,
per abbruciar le navi greche, andaro;
un Ercol vidi e un Alessandro, indutti
da troppo ardir, partirsi a paro a paro,
e spronando i destrier, passarci tutti,
e i nemici turbar fin nel riparo,
e gir sì inanzi, ch'al secondo molto
aspro fu il ritornare, e al primo tolto.
Salvossi il Ferruffin, restò il Cantelmo.
Che cor, duca di Sora, che consiglio
fu allora il tuo, che trar vedesti l'elmo
fra mille spade al generoso figlio,
e menar preso a nave, e sopra un schelmo
troncargli il capo? Ben mi maraviglio
che darti morte lo spettacol solo
non poté, quanto il ferro a tuo figliuolo.
Schiavon crudele, onde hai tu il modo appreso
de la milizia? In qual Scizia s'intende
ch'uccider si debba un, poi che gli è preso,
che rende l'arme, e più non si difende?
Dunque uccidesti lui, perché ha difeso
la patria? Il sole a torto oggi risplende,
crudel seculo, poi che pieno sei
di Tiesti, di Tantali e di Atrei.
Festi, barbar crudel, del capo scemo
il più ardito garzon che di sua etade
fosse da un polo e l'altro, e da l'estremo
lito degl'Indi a quello ove il sol cade.
Potea in Antropofàgo, in Polifemo
la beltà e gli anni suoi trovar pietade;
ma non in te, più crudo e più fellone
d'ogni Ciclope e d'ogni Lestrigone.
[9] Re Ferrandino d’Aragona di Napoli (1467-1496), principe valoroso, magnanimo, clemente, e veramente dotato d'ogni buona disposizione dell'animo come del corpo, dimostrò, nei pochi anni che visse, grande audacia e alto valor militare, nonché acume politico raro. Fin dall'adolescenza prestò la sua spada per la difesa del regno, che fra mille pericoli riconquistò quando ormai, per la nefanda politica del padre, era andato perduto. Per esso, come estremo sacrificio, diede infine la vita: sfinito dalle tante battaglie, e consumato da una grave malattia, dopo aver sconfitto i francesi, fu sconfitto dalla morte e si spense, ancor nel culmine della sua giovinezza, pianto con incredibile dolore dai propri sudditi.
[10] Divinità latina della guerra.
[11] Marte, il dio della guerra.
[12] La stirpe dei Decii era nota come la famiglia devotionis poiché nonno, padre e figlio si sacrificarono lanciandosi in battaglia contro il nemico per assicurare la vittoria ai Romani, secondo l’antichissimo rituale della devotio.
[13] I fratelli Eteocle e Polinice, ciascuno a capo di sei forti guerrieri, si affrontarono presso le sette porte di Tebe per il dominio della città, uccidendosi infine a vicenda.
Faccio anch’io parte di questi spiriti indomiti nati alla guerra, che l’ingrata sorte schiacciò sotto un corpo di donna e lo stato moderno privò della possibilità di combattere, poiché l’infame sua legge impone che per accedere all’esercito la donna si sottoponga agli stessi osceni esami degli uomini, senza alcuna riservatezza né possibilità decisionale, sicché tra vivere imbelle o perdere l’onore preferii serbare l’onore. Composi quest’inno durante le detestate e tremende ore di letteratura moderna di questo semestre, lo conclusi durante un convegno ben più interessante, lo pubblicai a consolazione degli spiriti a me simiglianti.
Faccio anch’io parte di questi spiriti indomiti nati alla guerra, che l’ingrata sorte schiacciò sotto un corpo di donna e lo stato moderno privò della possibilità di combattere, poiché l’infame sua legge impone che per accedere all’esercito la donna si sottoponga agli stessi osceni esami degli uomini, senza alcuna riservatezza né possibilità decisionale, sicché tra vivere imbelle o perdere l’onore preferii serbare l’onore. Composi quest’inno durante le detestate e tremende ore di letteratura moderna di questo semestre, lo conclusi durante un convegno ben più interessante, lo pubblicai a consolazione degli spiriti a me simiglianti.