In una città semi-cyberpunk affiancata a rovine, l'aria profumava di un'epoca passata e di un futuro ancora da scrivere.
Le strade, illuminate da neon sfavillanti e ombre misteriose, raccontavano di un evento epocale: anni fa, una meteora aveva colpito la Terra, scatenando un'epidemia miracolosa.
In un batter d'occhio, portò alla rovina moltissime strutture portando la terra indietro negli anni, tuttavia l'umanità aveva acquisito poteri unici riportando le tecnologie del futuro in mondo ora mai passato, derivanti doni già presenti nell'umano divisi in cinque categorie principali: 5 Senso, Mente, Ombra, Anima e Spirito.
Ma non tutti i poteri apparivano in modo evidente: alcuni erano così minuti da sembrare insignificanti, quasi uno scherzo sugli umani.
Tra questi abitanti, un giovane quattordicenne di nome Edward, un quattordicenne, cappelli grigi corti e occhi bianchi. viveva una vita che sembrava destinata alla mediocrità.
Edward, infatti, credeva di essere un semplice ragazzino senza alcuna capacità in più, eppure il destino aveva già in serbo per lui una rivelazione mozzafiato.
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30/02/2082
La mattina era iniziata come tante altre: mentre Edward cercava di non cadere negli occhi altrui, per non risentire la frase: "Qui vince la legge del più forte".
Lui rideva tra sé e sé, e, con una risata nervosa ne tradiva un'umorismo interiore, benché la sua mente fosse intenta a pensare alla sua presunta "normalità" in un mondo dove persino il più insignificante dei cittadini poteva possedere un dono straordinario.
Girò l'angolo, ancora assorto nei suoi pensieri, e - SBAM - si scontrò contro qualcuno. L'impatto fu secco, abbastanza da farlo barcollare all'indietro.
«Ehi! Ma sei cieco o cosa?!» ringhiò l'altro ragazzo, già in piedi, spolverandosi i pantaloni con rabbia.
Edward, ancora mezzo stordito, alzò lo sguardo. Davanti a lui c'era un ragazzo dallo sguardo tagliente, con una giacca nera. Il suo braccio sinistro sembrava semi-metallico .
«Scusa...» mormorò Edward, alzandosi in fretta.
«'Scusa'? È tutto qui?» Il ragazzo lo fissò con disprezzo. «Hai idea di chi sono io?»
Edward scosse la testa, cercando di non incrociare quegli occhi feroci. Il cuore gli batteva forte, non per la paura... o forse sì. Ma era anche rabbia, frustrazione, qualcosa che gli bruciava nel petto.
«In che razza di categoria appartieni, eh? Fammi indovinare... Nessuna» Il ragazzo lo squadrò con un ghigno sprezzante.
Edward restò in silenzio. Non c'era niente da dire. Era vero.
«Patetico...» sputò l'altro, prima di voltarsi e allontanarsi tra la folla, lasciandolo lì, solo con il suo respiro corto e le guance in fiamme.
Il silenzio lo avvolse. Le parole del ragazzo risuonavano nella sua testa come martelli.
Nessuno. Nessun dono. Nessun potere. Nessun posto in questo mondo.
Si sentiva piccolo, inutile, quasi trasparente. Il mondo sembrava girare intorno a lui, troppo veloce, troppo pieno di cose che non poteva afferrare. I pensieri correvano, urlavano, si accavallavano senza sosta:
"Forse non dovrei nemmeno essere qui..."
"Perché proprio io?"
"E se fossi l'unico davvero inutile?"
"Perché mi guardano tutti come se fossi un errore?"
E poi, un brivido. Qualcosa pulsava nella testa, in fondo alla nuca.
Appoggiò una mano al viso. Un caldo improvviso. Quando la tolse, vide il sangue.
Un rivolo gli scendeva dal naso. Rosso acceso. Vivo.
Non era la prima volta che succedeva.
Come se qualcosa dentro di lui stesse premendo per uscire.
Il rumore della città sembrava tenue, lontano. E in quell'attimo sospeso, tra il battito frenetico del cuore e il sangue che colava lento.
Edward si stava ancora tamponando il naso con una manica quando il suono del campanello d'ingresso echeggiò nell'aria. Quel suono era sempre lo stesso da nove anni, eppure ogni volta gli sembrava un po' più stanco. Come lui.
Entrò nella scuola, un gigantesco edificio che sembrava fondersi tra vetro moderno e pietra antica. Era un paradosso architettonico, proprio come il mondo là fuori: dove la magia e la tecnologia si erano fuse, senza mai davvero capirsi.
nove anni.
Era lì da quando aveva cinque anni, ed era sempre stato quello che nessuno sceglieva.
Ogni anno per tre mesi, gli occhi della scuola si accendevano. Ogni corridoio veniva lucidato, ogni studente si sistemava l'uniforme con cura maniacale, e i professori diventavano più affilati nei giudizi, più esigenti nei voti. Perché stava per arrivare l'Osservator.
Un "signore di alto calibro", come li chiamavano tutti, uno di quelli con poteri maggiori alla media adulta da non poter essere descritti.
Passava tre mesi lì, seduto in silenzio dietro una parete di vetro oscurato durante le lezioni, o in piedi a osservare gli allenamenti, a volte seguiva qualcuno nei corridoi, solo per vedere "come si muoveva nell'ambiente".
Alla fine di quel periodo, sceglieva.
Forse uno per classe.
Forse nessuno.
Ma quelli scelti non tornavano più.
Venivano presi sotto la sua ala, firmava un documento di delega totale, diventavano la sua responsabilità. E per il resto della scuola... era come se si fossero diplomati nel destino.
Edward non era mai stato scelto.
Mai una volta.
Nonostante i suoi nove anni lì, nonostante la pazienza dei suoi professori, che col tempo si era trasformata in silenziosa rassegnazione.
Nonostante i suoi compagni, che ormai nemmeno si prendevano la briga di prenderlo in giro. Era diventato parte dell'arredamento.
E adesso, tra tre giorni, sarebbe arrivato un nuovo Osservator. Forse uno ultimo prima che Edward raggiungesse la soglia massima d'età e venisse gentilmente accompagnato fuori dal sistema.
Nessun potere.
Nessun maestro.
Nessuna speranza.
«Ancora qui, Edo?»
Una voce gli arrivò alle spalle. Era il bidello Armin, l'unico adulto della scuola che sembrava ricordarsi di lui senza sarcasmo.
«Non ti sei ancora stufato di sentire il campanello ogni mattina?»
Edward fece una smorfia e si strinse nelle spalle. «Forse oggi suona diverso.»
Armin lo guardò per un attimo, poi fece un mezzo sorriso. «Tutti lo pensano, prima delle elezioni.»
Le lezioni scorrevano lente.
Nella sua aula, Edward sedeva al solito posto - terza fila, lato finestra - una posizione abbastanza visibile da sembrare volenterosa, ma abbastanza defilata da non attirare attenzioni.
Quel giorno si studiava Etica delle Azioni Potenziate.
L'insegnante, la professoressa Halden, una donna alta con gli occhi che cambiavano colore a seconda del tono della lezione, spiegava come l'uso dei poteri dovesse sempre rispettare un codice di condotta.
"Anche se potete leggere una mente, non significa che dovete farlo. Saper ascoltare il dolore silenzioso di un'anima non vi dà il diritto di curarla senza consenso."
Edward prendeva appunti, anche se non sapeva bene il perché. Lui non leggeva menti, non sentiva anime ne creava illusioni. Lui... stava seduto. E osservava.
Quando l'ora finì, i ragazzi cominciarono a vociferare. I mormorii divennero più intensi nei corridoi, come se l'aria stessa sapesse cosa stava per succedere.
"È arrivato!"
Due parole, come un tuono sommesso che rimbalzava da una bocca all'altra.
Alle 10:07 precise, la scuola si fermò.
Tutti vennero convocati nel grande Atrio Centrale, una sala circolare con vetrate altissime, dove la luce si scomponeva in mille colori. Un silenzio irreale regnava tra centinaia di studenti.
Poi, la porta nord si aprì.
Un uomo entrò, vestito di nero, senza insegne né gioielli, solo un mantello lungo molto scuro. Camminava lento, senza fretta, e ogni suo passo rimbombava sul pavimento come fosse carico di peso.
Aveva il volto nascosto da una maschera d'argento, semplice, liscia. con fenditura orizzontale al posto degli occhi.
L'Osservator.
Accanto a lui, il Direttore della scuola, in silenzio. Nessun saluto ufficiale. Nessun discorso. L'uomo semplicemente si girò, e guardò la folla.
O almeno, così sembrava.
Edward, per un attimo, pensò che il suo sguardo o la sensazione di esso si fosse posato su di lui. Ma forse era solo suggestione. Solo voglia. magari la stessa sensazione l'hanno avuta tutti.
Poi, senza una parola, l'uomo si voltò e uscì.
Il Direttore parlò solo una frase:
«L'Osservator resterà tre mesi. Fate il vostro meglio. O non fate nulla. Lui lo saprà comunque.»
Le lezioni ripresero, ma l'aria era cambiata. Tutti si muovevano con più precisione, più grinta. Chi possedeva poteri li mostrava con naturalezza forzata. I più ambiziosi sapevano che le prossime settimane potevano decidere il loro futuro.
Edward... no.
Lui tornò alla sua aula, si rimise al suo posto e aprì il quaderno.
Ma la penna non scriveva più. O forse era la sua mano a non muoversi.
Il naso gli bruciava ancora un po', e nella testa, un pensiero iniziava a graffiare come una voce lontana.
I giorni passarono, uno dopo l'altro, come pagine sfogliate dal vento.
L'Osservator si muoveva silenzioso tra i corridoi, entrando e uscendo dalle aule senza mai parlare, osservando ogni cosa con quella maschera impassibile.
Chi aveva provato a mentirgli si era sentito svuotato dopo pochi minuti.
Chi cercava di mettersi in mostra, riceveva solo silenzi.
Edward, invece, aveva imparato a non farsi notare. Era il suo talento migliore.
Assisteva alle lezioni come sempre, restava in fondo durante gli esercizi, non alzava mai la voce durante i dibattiti. Nessuno lo richiamava, nessuno lo lodava. Era... neutro.
Ogni tanto, però, sentiva lo sguardo dell'Osservator posarsi su di lui. Non sempre. Solo in certi momenti strani, come quando si perdeva in un pensiero, o quando il naso ricominciava a sanguinare per qualche secondo, senza motivo apparente.
Ma l'uomo non lo fermava. Non gli parlava.
Quindi, Edward pensava di esserselo immaginato. Come sempre.
Arrivò l'ultimo giorno.
L'atrio centrale era pieno. Gli studenti sedevano in attesa, in silenzio.
C'era tensione nell'aria, e un leggero senso di panico.
Uno alla volta, i nomi venivano letti.
Classe dopo classe, l'Osservatore ne sceglieva alcuni. Uno per classe. ma può anche scegliere nessuno.
Tutti i prescelti venivano invitati a firmare il modulo di Delega Totale. Un patto: la loro vita, la loro formazione, il loro destino ora erano affare del mentore.
Arrivò la classe di Edward. La sezione Z
Il Direttore lesse l'elenco. Nessun nome veniva detto. Silenzio.
«Nessuno?» sussurrò qualcuno tra il pubblico.
Ma l'Osservatore alzò una mano.
Fece due passi avanti.
«Edward...Kilner»
Un'esplosione silenziosa nel cuore del ragazzo.
Le teste si girarono, stupite. Qualcuno rise, come se fosse uno scherzo. Altri si voltarono per controllare se ci fosse un altro Edward nella stanza.
Ma no.
L'Osservator lo indicava. Lui. Il nulla. Il trasparente. Il dimenticato.
Edward si alzò, tremando. Il sangue pulsava nelle tempie, il mondo girava appena.
Camminò in mezzo agli altri studenti come se il pavimento si muovesse sotto i suoi piedi.
Si fermò davanti all'uomo.
L'Osservator gli porse il documento. Lo firmò, con una mano indecisa.
Silenzio.
Edward non capì. Non del tutto. Ma qualcosa in lui tremò. Una corda invisibile si era tesa.
E poi, come se fosse normale, uscì insieme all'Osservator.
Dietro di lui, il mondo che conosceva si richiuse in un mormorio sorpreso.
Edward camminava accanto all'Osservator, ma la sua mente era lontanissima.
Ogni passo sembrava più leggero dell'aria, come se la realtà avesse perso gravità.
Perché me?
La domanda lo martellava come una goccia persistente. Aveva vissuto nell'ombra per quattordici anni, ignorato da tutti, dai professori, dagli altri studenti... e da se stesso. Nessuna manifestazione di potere. Nessun indizio. Solo sangue dal naso ogni tanto, e una testa troppo piena di pensieri.
All'improvviso, una sensazione familiare lo strappò dalla spirale:
una fitta.
Il naso cominciò a colargli di nuovo, rosso vivo contro la pelle pallida.
Si portò d'istinto la manica al viso, ma l'Osservatore lo anticipò, porgendogli un fazzoletto di stoffa grigia, semplice, perfettamente piegato.
Poi borbottò, con voce bassa e rauca:
«Esattamente per questo...»
Edward lo guardò, confuso. Come sarebbe? Cosa intende?
Ma prima che potesse domandare, la sua mente venne trafitta da un pensiero che non era suo:
"Ti spiegherò."
Una sola frase.
Ma non era detta. Era infilata, come un ago tra i pensieri.
L'effetto fu immediato: un'ondata di pressione esplose dietro la fronte di Edward, e il sangue iniziò a uscire più abbondante. Le gambe gli tremarono.
Si sentiva come se stesse cercando di trattenere un grido dentro la testa.
Eppure, l'Osservator continuava a camminare con calma, come se nulla fosse.
Ma dietro di loro, la scena stava degenerando.
Un ragazzo dalla camminata sicura e l'aria arrogante si fece largo tra gli studenti. Capelli biondi, giacca personalizzata, sguardo che non era abituato al "no".
Era Rayan Lorrin, il seme del pezzo grosso delle Industrie LorrinTech uno dei maggiori finanziatori della città. E, incidentalmente, il ragazzo che si era scontrato fisicamente con Edward il primo giorno.
«Aspetta!» gridò, avanzando verso l'Osservatore.
«C'è un errore.»
L'uomo non si voltò.
Rayan si piantò a un metro da lui, con il volto teso dalla rabbia.
«Lui? Hai scelto lui? Quello lì? È un inutile! Non ha mai fatto nulla, non ha nemmeno un potere! Nessuno lo ha mai visto usarne uno, sa solo perdere sangue anche nei momenti normali della vita!»
Silenzio. Tutti trattenevano il fiato.
L'Osservator si fermò.
Girò lentamente la testa verso Rayan.
Poi, la sua voce attraversò l'aria come un sussurro d'acciaio:
«Tu parli di ciò che vedi.
Io scelgo in base a ciò che nessuno può vedere.
E proprio per questo, Edward è più avanti di quanto tu potresti mai capire.»
Rayan si irrigidì. Il suo volto si contorse in una smorfia di umiliazione. Avrebbe parlato ancora, ma qualcosa dell'Osservatore gli fece fare un passo indietro, come se avesse percepito il pericolo senza capirlo davvero.
«Tsk.» Fu tutto ciò che disse, prima di voltarsi e andarsene con la mandibola serrata.
Edward, ancora tremante, stringeva il fazzoletto sporco di sangue.
La testa gli pulsava come un tamburo.
Il cortile esterno si apriva oltre il grande cancello d'acciaio che segnava il confine della scuola.
Là fuori, sotto un cielo grigio accompagnato dal sole, attendevano gli studenti scelti. Alcuni si stringevano nervosamente i polsi, altri ridevano sommessamente, visibilmente fieri. Le classi andavano dalla sezione A alla Z.
Edward e l'Osservator oltrepassarono il portone principale in silenzio, i loro passi scanditi dall'eco delle grandi colonne alle loro spalle. L'aria all'esterno era fresca, e portava con sé l'odore di terra umida e polvere
Il Preside, un uomo anziano dal viso serio e le mani sempre intrecciate dietro la schiena, li stava già aspettando. Indossava la sua tunica blu da cerimonia, quella che mostrava solo nei giorni delle deleghe, e sorvegliava i prescelti con lo sguardo calmo di chi conosce bene i limiti del potere.
Quando Edward arrivò, alcuni studenti si voltarono a guardarlo, con occhi più confusi che ostili.
Il Preside alzò il mento vedendo l'ultimo arrivato, poi si rivolse all'Osservator.
«Hai scento ventisei studenti, il massimo possibile. sarà una grande responsabilità, direi.»
L'Osservatore annuì appena.
Il Preside prese un documento da una valigetta in pelle nera. Un modulo ufficiale, firmato e sigillato con cera rossa: il trasferimento temporaneo dei prescelti sotto tutela diretta.
Lo porse all'Osservator, che lo firmò senza esitazione, con un gesto fluido.
poi alzò lo sguardo verso i ragazzi e disse solo:
«Da questo momento, non siete più studenti di questa scuola.»
Nient'altro. Nessun discorso enfatico.
Solo un fatto.
Edward fece un respiro profondo, cercando di capire se si sentisse felice, confuso o solo... svuotato.
Dietro di lui, all'interno del cancello ormai chiuso, nessuno parlava.
Il mondo di prima era ormai dietro di lui.
Quello nuovo, ancora tutto da scoprire.
In fondo alla strada sterrata, un vecchio pullman verde oliva attendeva con il motore acceso. Non aveva simboli, né targhe ufficiali - solo qualche graffio qua e là e i vetri leggermente appannati. L'autista, un uomo silenzioso dal berretto calato sugli occhi, faceva cenno di sbrigarsi.
Uno dopo l'altro, i ragazzi salirono. Le ruote scricchiolarono appena sul terreno, e il cancello della scuola si chiuse dietro di loro con un suono sordo.
Edward prese posto vicino a un finestrino, in uno degli ultimi sedili. Tutto sembrava ancora irreale. Le voci degli altri erano basse, trattenute, come se nessuno volesse rovinare l'atmosfera incerta di quel momento.
Il pullman iniziò a muoversi. Lentamente all'inizio, poi con più decisione, lasciandosi la scuola alle spalle.
Fu allora che, con un sospiro lungo e teatrale, l'Osservator si alzò in piedi nel corridoio centrale del pullman.
Fece scivolare via il cappuccio, poi si sfilò la maschera nera con un gesto rapido.
Il silenzio fu immediato.
Davanti a loro non c'era un vecchio stregone, né un maestro rigido.
Ma un ragazzo - al massimo venticinque anni - con capelli spettinati neri, occhi con pupille piccole e gialle chiari piene di entusiasmo, un berretto invernale e una camicia troppo larga per il suo fisico slanciato.
Si privò del berretto e passò una mano tra i capelli sudati e scoppiò a ridere:
«Finalmente! Non ne potevo più di quella maschera... Non potete capire quanto ho sudato lì dentro! Sembrava di stare in una sauna chiusa col mantello addosso!»
Alcuni ragazzi si guardarono tra loro confusi. Altri trattennero una risatina. Qualcuno sembrava scandalizzato.
Lui fece un inchino goffo, ma pieno di energia:
«Mi chiamo Kael Lorian.
E sarò il vostro insegnante, tutore, guida, e occasionalmente... distributore di snack.
Piacere di conoscervi tutti!»
Il suo sorriso era così sincero da risultare quasi disarmante.
Nessuno se l'aspettava.
Quel tipo di energia non sembrava appartenere a un Osservator.
Eppure, Edward - nel mezzo di tutto - sentì una cosa strana nel petto:
per la prima volta... un piccolo barlume di fiducia.
Il pullman procedeva tranquillo lungo una strada che si allontanava sempre più dalla città. Le finestre lasciavano entrare un'aria fresca e silenziosa, mentre gli studenti osservavano il paesaggio cambiare lentamente.
Una ragazza seduta verso metà corridoio si schiarì la voce.
Capelli raccolti in una treccia ordinata, sguardo deciso e un tono che non cercava attenzioni, ma chiarezza.
«Dove stiamo andando?», chiese.
Tutti si voltarono verso di lei, e poi verso il professor Kael.
Lui sorrise, ma non prese la domanda alla leggera.
«Ottima domanda,» rispose subito, con un tono più calmo, quasi serio. «Inizia ora la parte meno affascinante ma più necessaria di tutto questo.»
Fece qualche passo nel corridoio del pullman, poi si fermò appoggiandosi a un sedile.
«La prima tappa è una sede ufficiale del Dipartimento di Potenziamento Giovanile.
Lì io dovrò consegnare i documenti di tutela, firmati dal Preside e controfirmati da me.»
Fece una pausa, poi il suo sguardo divenne un po' più serio.
«Dopodiché, uno o entrambi i vostri genitori o tutori, devono presentarsi per firmare il modulo definitivo. Senza quella firma... niente corso. Niente addestramento. Niente Kael Lorian!.»
Fece spallucce.
«Regole di sicurezza, ragazzi. Le lezioni che inizieremo comporta responsabilità grosse. Non possono lasciarci mettere le mani sulle vostre vite senza il consenso di chi legalmente... le ha ancora in mano.»
Un ragazzo dal fondo sbuffò piano, mentre altri mormoravano tra loro.
Kael alzò una mano per calmare il brusio.
«So che non tutti avete una situazione familiare semplice. Vi aiuteremo nel modo più corretto possibile, ma... nessuna scorciatoia. È la parte più noiosa, ma fondamentale.»
Poi, con un mezzo sorriso:
«Tranquilli però, una volta superata questa, inizia la parte bella.»
Il pullman continuava a sobbalzare leggermente lungo la strada asfaltata, ormai ben fuori dal centro urbano. I ragazzi stavano iniziando a rilassarsi, ma l'incertezza su ciò che li aspettava aleggiava ancora.
Fu un ragazzo, forse il più curioso del gruppo, a rompere il silenzio.
«E quindi... dove andremo a vivere?»
Kael si voltò piano verso di lui. Sorrise con un'espressione colpevole, quasi imbarazzata, poi alzò entrambe le mani.
«Allora... ehm, diciamo che... è una collina piuttosto distante da qui. Tipo... molto distante...»
un silenzio scioccante dopo la rivelazione del posto, finché...
«EEEEEEEEEEEEHHHHH UNA COLLINAAA!! MA LA PIÙ VICINA DISTA 700 CHILOMETRI DALLA CITTA'?!»
da una ragazza seduta davanti
Tutti si voltarono verso di lei. Qualcuno spalancò gli occhi.
Kael si grattò la nuca, col sorriso tirato di chi sa di aver deluso le aspettative.
«Lo so, lo so... è lontana. Ma... ecco, non avevo abbastanza fondi per permettermi una struttura più vicina.»
Un altro ragazzo, evidentemente poco entusiasta, si voltò di scatto con gli occhi sbarrati:
Kael cercò di mantenere la calma, anche se si intuiva che era preparato a questa reazione.
«ma non preoccupatevi. È un posto tranquillo, immerso nella natura, attrezzato per ogni tipo di addestramento, con dormitori, una mensa, una piccola biblioteca... e sì, ho anche trovato una sala giochi. Non proprio nuova... ma funziona.»
Poi guardò i volti ancora sconvolti dei ragazzi e aggiunse, cercando di alleggerire l'atmosfera:
«Vi abituerete. È più bello di quanto sembri. Ve lo prometto.»
Edward, nel frattempo, non disse nulla. Ma dentro di sé, una vocina cominciava a chiedersi se anche per lui sarebbe stato possibile ottenere quella famosa firma.
Perché, in fondo... i suoi non erano davvero i suoi.
I ragazzi, vedendo l'atteggiamento rilassato del professor Kael - quell'aria da fratello maggiore più che da insegnante - cominciarono lentamente a sciogliersi. Alcuni iniziarono a parlottare tra loro, altri a scambiarsi nomi e provenienze, altri ancora cercavano solo uno sguardo amico con cui condividere l'assurdità di quella giornata.
La tensione dei primi minuti si stava lentamente diradando.
Edward rimase zitto, con la fronte poggiata al vetro del finestrino, a guardare il paesaggio che correva all'indietro.
Non sapeva bene cosa provare. Ogni tanto si chiedeva se stesse facendo un errore. Altre volte, se fosse stato scelto per sbaglio.
Più spesso... se avrebbe avuto la firma necessaria per restare.
Fu la voce della ragazza seduta accanto a lui a interrompere quel pensiero.
«Sei Edward, vero?»
Lui si voltò, sorpreso.
Era minuta, con i capelli scuri tagliati corti e uno sguardo penetrante, ma non ostile. Portava un piccolo quaderno sulle ginocchia, pieno di scritte che sembravano note personali.
«Sì...» rispose lui, incerto. «Tu?»
«Mi chiamo Elia. Con la "i", Elia Delane, sì. Mia madre voleva un nome unisex. Diceva che sarebbe stato più "flessibile".»
Sorrise appena, poi tornò seria. «Non parli molto.»
Edward si strinse nelle spalle. «Cerco solo di capire che diavolo sta succedendo.»
Lei annuì. «Ti capisco. Anch'io non mi aspettavo di essere scelta. Non ho niente di così speciale. O almeno... credevo.»
Il silenzio che seguì non fu imbarazzante, ma piuttosto complice. Come due estranei che avevano capito di non dover dimostrare nulla, almeno tra loro.
«Quel tipo... Kael, intendo...» disse lei a bassa voce, «è strano, ma... mi piace. È il primo adulto che non sembra volerci inquadrati.»
Edward annuì, poi tornò a guardare fuori.
Le chiome degli alberi cominciavano a infittirsi. La strada si snodava tratti isolati. Nessun altro veicolo da chilometri.
E poi, improvvisamente a metà del viaggio, mentre il pullman attraversa una zona isolata, succede qualcosa di strano. Tutto comincia con un'interferenza - le luci del pullman iniziano a lampeggiare. I dispositivi elettronici che alcuni studenti hanno con sé smettono di funzionare.
Kael si alza in piedi subito, visibilmente allarmato, cosa che non si è ancora mai visto fare in modo serio.
Il pullman si ferma di colpo. L'autista dice di aver perso il controllo dello sterzo per un secondo.
Fuori, nella nebbia che comincia a calare senza preavviso, si intravede una figura solitaria - alta, coperta da un mantello scuro, in piedi in mezzo alla strada, immobile.
Kael ordina all'autista di non muoversi.
La tensione sale.
Edward inizia a sentire un dolore acuto alla testa. Un fischio gli martella le orecchie, come se solo lui stesse captando qualcosa.
Una voce... distorta... familiare eppure impossibile da decifrare.
Poi, come un lampo nella mente:
"Tu non dovresti essere lì."
Il naso di Edward ricomincia a sanguinare. Kael lo nota, spalanca gli occhi, e in un attimo si avvicina.
Proprio mentre Kael sta per dire qualcosa a Edward, la figura fuori scompare.
Tutti nel pullman restano in silenzio.
Kael resta immobile per qualche secondo, poi ordina all'autista di ripartire senza aggiungere altro.
Ma gli occhi di Kael, adesso, non sorridono più.
buongiorno lettore, sei arrivato alla fine del capitolo 1, spero che ti sia piaciuto o almeno dato un po' curiosità, se è così ti invito a seguirmi, per attendere il capitolo 2.
se invece hai finito e il capitolo 2 è già uscito, beh CHE DIAMINE ASPETTI!!! CORRI! grazie :]