Le dita di Leira percorrevano tremule i sottili strati di pittura che formavano l'immagine del quadro nell'appartamento di Mamoru, solo ora ben visibile alla piena luce del giorno.
Il quadro mostrava un cielo azzurro dalle sfumature rosate, quasi una sorta di aurora boreale che sorgesse dal suolo invece che dall'alto, ma erano le immagini in primo piano a catturare l'attenzione. Ardite architetture, titaniche torri bianche che giungevano sino alle nubi, torri dalle sagome arcuate, concave e convesse, come se una mente aliena avesse cercato di adattare al proprio pianeta il barocco terrestre, reinventadolo in chiave futuristica.
Ora Leira s'era talmente avvicinata al quadro da toccarlo con l'intero corpo, e così spalancò le braccia come se potesse abbracciarne le figure, e intanto continuava a mormorare quello strano nome: "Ëas... Ëas... Ëas".
Allora Mamoru, sino ad allora impietrito di fronte a quella scena inattesa, si riebbe di colpo, prese con ferma dolcezza Leira per mano e l'allontanò dal quadro. Non solo perché temeva lo potesse rovinare, ma perché aveva altro da verificare.
La portò sino all'armadio a muro della sua camera da letto, che spalancò, e ne estrasse, una dopo l'altra, una decina di altre tele. Rappresentavano ognuna schiere di torri bianche, simili a quelle del quadro appeso in soggiorno. Nel quadro più grande si poteva vedere, oltre le torri, più in basso, la distesa di una foresta folta, scurissima, che ricopriva una vasta pianura e solo verso l'orizzonte saliva a ricoprire dei picchi montuosi. Leira si fermò in particolare a contemplare il mare d'alberi, in silenzio, percorrendone con le dita il verde cupo, finché non si voltò verso Mamoru e disse:
"Terre basse... Urganath... Urganath!"
Quest'ultimo nome l'aveva pronunciato quasi con urgenza, ma Mamoru non era nemmeno sicuro di averne capito bene i suoni, la pronuncia. Eppure sentiva che doveva farlo, perché la reazione di Leira a quei quadri rimescolava una volta di più le carte, gli faceva capire che in qualche modo un legame c'era tra lui e la ragazza, ma un legame che ancora non riusciva ad afferrare in alcun modo.
Mamoru aveva sempre avuto un'ossessione per quelle immagini, quelle torri bianche, fino a dove si spingevano i suoi ricordi, intorno ai sette od otto anni, quando le disegnava a matita sui fogli a scuola, lasciando perplessi compagni e maestre, che si chiedevano in quale programma televisivo o in quale fumetto le avesse viste. Poi, verso i tredici anni, ormai alle scuole medie, aveva potuto prendere in mano tempere e pennelli, e aveva potuto così imparare come dare una forma più definita a quelle immagini senza nome che l'avevano costantemente accompagnato. Si ricordava bene come, l'anno successivo, quando fu adottata dalla sua famiglia, la ragazza di nome Minako osservava incuriosita quei primi esperimenti artistici di Mamoru, ma senza riservar loro ulteriore interesse. E ora Leira, che a Minako somigliava terribilmente, come se fosse tornata dal nulla, sembrava riconoscere qualcosa in quei quadri, le suscitavano parole arcane, termini di chissà quale lingua.
"Ëas"... "Urganath"... Mamoru si spremeva le meningi, ma non riusciva a trarne alcuna associazione mentale, tanto da dirsi di smettere di pensarci troppo, rischiava di illudersi di ricordare qualcosa, quando in realtà non ricordava proprio nulla.