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Autore: Anneth    04/06/2025    0 recensioni
"Ogni viaggio, per quanto lontano ci porti, ha un modo di ricondurci alle nostre radici. Io sto tornando alla Riserva, dove il richiamo della foresta si mescola alla voce degli antenati e agli insegnamenti di chi mi ha mostrato chi sono davvero."
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Stavo parlando con i miei.
O meglio, stavo cercando di seguire la conversazione mentre mia madre, dall’altra parte del telefono, continuava a raccontare del loro weekend fuori città e di come mio padre avesse deciso – da ingegnere informatico convinto – che la connessione internet fosse superflua.
«…e ovviamente ha detto che poteva tranquillamente vivere offline per due giorni. Ha pure preparato una mappa cartacea, Kim!»
Sorrisi, tirando un sospiro appena udibile. Ero seduta sul letto, a gambe incrociate, il telefono poggiato sul piumone, mentre le dita tracciavano cerchi assenti sul tessuto.
«Papà ha passato metà della vita a costruire reti, e l’altra metà a cercare scuse per non usarle.» commentai, più per me stessa che per lei.
«Molto spiritosa.» sbuffò, ma la sua risata non si fece attendere. «Comunque dicevamo, se ti va potresti raggiungerci il prossimo fine settimana. Almeno una volta…»
Non ci fu modo di risponderle.
Ci fu un lampo.
Bluastro. Violento.
Un taglio di luce che attraversò la stanza come un fulmine, senza tuono. Un impulso silenzioso, ma più reale di tutto il resto.
E poi… il nulla. Un vuoto profondo, senza forma né suono. Né corpo, né tempo.
Quando ho riaperto gli occhi, ho sentito subito quella sonnolenza estranea impastarmi i pensieri. Le palpebre pesanti, la mente annebbiata. L’odore di moquette stantia e aria condizionata ha invaso le narici ancora confuse. Non ero più dove credevo. Mi trovavo a bordo di un aereo.
Un aereo.
Sbattei le palpebre più volte, poi mi guardai intorno. Tutto sembrava uscito da un film anni Ottanta: il design dei sedili, i colori sbiaditi, persino l’aria che sapeva di vecchio. Ero seduta, sì.
«Che... ca...» mormorai a mezza voce, uno sbuffo appena accennato che si perse nel rumore del motore.
Sollevai gli occhi verso il soffitto dell’aereo e poi verso il finestrino. La vista notturna rivelava il profilo inconfondibile di Bower County sotto di noi. Naturalmente.
«Una domenica in pace...» sospirai. «Non mi sembra di chieder molto.»
Mi mossi per slacciarmi la cintura, e mentre i pensieri annebbiati tentavano di recuperare un senso logico, la voce di Phil Collins – "I can feel it coming in the air tonight..." – contribuiva solo a rendere tutto più surreale.
«Ecco un’altra bella canzone che devo togliere dalla playlist...» mormorai, con l’amaro in bocca e una punta di sarcasmo ormai diventata parte integrante della mia sopravvivenza.
Mi alzai in piedi, con una certa cautela. Il pavimento dell’aereo scricchiolava appena sotto le mie sneakers, e ogni passo sembrava amplificare quella sensazione surreale. Il silenzio non era completo: c’era la voce di Phil Collins che si insinuava tra i sedili, morbida e malinconica. "I’ve been waiting for this moment for all my life…"
Cercai volti noti, e quello che trovai furono… volti già visti. Non di persona, ma in altri contesti.
Una ragazza dai lineamenti orientali si era già mossa dal suo posto. Portava i capelli raccolti e indossava un top con una scritta ironica, ma il modo in cui si guardava attorno – attenta, pragmatica, con una strana calma – mi fece scattare un pensiero immediato. Xiangmei, se la memoria non mi ingannava. Una Wendigo, se gli identikit erano affidabili. Vista solo di sfuggita, in certi report. Pericolosa, ma non impulsiva.
Accanto a lei c’era un’altra figura, più discreta. Abiti neri, portamento misurato, una postura quasi da predatore in ascolto. I suoi occhi passavano da uno all’altro, senza fretta. Mirae, forse. Vampira. Non dava spettacolo, ma la sua presenza era tangibile. Discreta, intensa.
Un uomo con la barba corta, capelli scuri legati, si stava già alzando. Andrew, scommettei tra me e me. Altra figura che avevo visto solo su carta. Il Wendigo del Patto. La sua corporatura lo tradiva, ma erano soprattutto quegli occhi verdi, fermi e profondi, a darmi conferma.
E poi c’era Moira. La strega, probabilmente. Sembrava giovane, ma qualcosa nella postura e nello sguardo impastato di stanchezza suggeriva tutt’altro. Anche lei si alzò lentamente, borbottando un’imprecazione appena udibile. Osservava con attenzione, senza affrettarsi.
Infine, Ilia. Lo riconobbi da un dettaglio assolutamente inconfondibile: le ciabatte a forma di pesce. Ridicolo e perfettamente coerente. Aveva l’aria di chi si era appena svegliato sul divano di casa, catapultato lì con tutti i suoi ritagli ancora addosso.
Non parlai subito. Ascoltai.
«Qualcuno di voi sa pilotare un aereo?» chiese Xiangmei, con un tono che tradiva appena un filo di preoccupazione.
«Io no...» dissi, abbastanza piano da non voler attirare troppa attenzione, ma abbastanza forte da essere sentita. Sapevo bene che i Wendigo si nutrivano del sangue di mutaforma, e volevo evitare di diventare il loro ultimo pasto. Il mio aspetto adolescente poteva trarre in inganno, ma non avevo intenzione di farmi sottovalutare.
Mirae rispose con un secco «No», alzando appena il sopracciglio. Poi guardò verso la cabina. «Magari ci sono dei piloti», aggiunse, ma la voce non aveva alcuna reale convinzione.
Andrew si limitò a rispondere con un cenno con la testa, indicando la cabina, pronto a seguirla. Era l’unico che sembrava avere davvero l’istinto d’azione.
Moira li seguì poco dopo, osservando prima noi e poi l’ambiente circostante, senza nascondere un certo fastidio per l’aspetto… mistico della situazione. «Ho sonno» mormorò. La capivo.
Fu Ilia a rompere il tono cupo con un commento stonato ma stranamente sincero: «...non ci voleva. Non posso crepare oggi», e poi, mentre canticchiava a bassa voce Phil Collins, ciabattò dietro gli altri con le sue adorabili ciabatte-pesce. Quella visione, per un attimo, alleggerì la morsa che mi stringeva alla bocca dello stomaco.
Restai ancora qualche secondo in piedi accanto al mio posto, senza muovermi verso la cabina. Lasciai che fossero loro ad andare. Io osservavo. Valutavo. Se davvero quello era il Patto – e tutto lasciava pensare che fosse così – allora serviva prudenza. Anche se, paradossalmente, eravamo tutti nella stessa barca. O meglio: nello stesso maledetto aereo. Almeno c'era Ilia che faceva un pò da contrappeso per il Concordato insieme a me.
I loro passi riecheggiavano nel silenzio dell’aereo, un rumore ovattato e quasi irreale. Xiangmei, Mirae, Andrew, Ilia… tutti diretti verso la cabina di pilotaggio, ognuno con la propria andatura, il proprio modo di gestire il panico. Io rimasi un po’ più indietro, ferma tra le file dei sedili vuoti.
Un’aria stantia di cocktail e posacenere ricolmi aleggiava nell’atmosfera. Mi bastò uno sguardo per capire che nessuno aveva semplicemente “abbandonato” l’aereo. I bicchieri ancora mezzi pieni, le carte da gioco lasciate sul tavolino, i pasti pronti serviti ma non toccati. Sigarette consumate fino al filtro, ancora fumanti in qualche caso. Non se n’erano andati. Erano svaniti.
Avevano fatto puff. Come se qualcuno avesse soffiato via le anime portandosi via anche i corpi.
La voce di Xiangmei ruppe il silenzio: «Hey. Lì fuori!»
Mi chinai istintivamente verso il finestrino, lo sguardo attirato da un bagliore bluastro. Eccole. Spirali. Enormi spirali luminose che si muovevano tra le nuvole, rovesciandole su se stesse come un risucchio cosmico.
Croatoan.
Non feci in tempo a fare un altro pensiero.
Un ruggito sordo percorse l’intera carlinga. La turbolenza colpì come uno schiaffo.
Non ero preparata. Ero in piedi, chinata in avanti, e il colpo mi sbalzò di lato. La fronte colpì il vetro con un tonfo secco e il rimbalzo mi fece rovinare a terra, sbattendo il coccige sui bordi rigidi dei sedili.
«Cazzo... che male...» gemetti tra i denti, portando una mano alla fronte. Una chiazza rossa si stava già formando, pulsando al ritmo del mio cuore. L’altra mano cercava di trovare appigli tra i sedili per risollevarmi, mentre le ginocchia strusciavano malamente contro la moquette ispida.
Sentivo le voci degli altri, frammenti.
«Dobbiamo andarcene da qui, provate a buttare giù la porta!» — Xiangmei, concitata.
Il rumore dei corpi che si sbattevano contro i sedili, i ringhi trattenuti, le spallate.
Mi rimisi in piedi con uno sforzo, scrollandomi di dosso la storditura. Il battito del mio cuore sembrava rimbombare nel cranio.
Mi voltai verso la fila davanti a me. Ilia, Mirae, Andrew: li vedevo di spalle, fermi davanti alla porta della cabina. Poi i movimenti rapidi, sincronizzati. Un calcio, una spallata, un’altra spallata. Un tentativo disperato ma organizzato di aprire un varco.
«Che sia oggi il giorno in cui impariamo a pilotare?» mormorai piano, il sarcasmo a fatica sopra la nausea. «Oppure quello in cui precipitiamo in un’altra epoca. Tanto per cambiare.»
Mi mossi barcollando tra le file. Le spirali erano ancora lì fuori. Più grandi, più vicine.
Le mani mi facevano male. Le avevo strette così forte attorno al poggiatesta del sedile davanti che le unghie si erano conficcate nella stoffa. Le spirali fuori dal finestrino si stavano allargando, ingoiando il cielo. Sembravano vive. Sembravano affamate.
Poi, un rumore secco. Il tonfo metallico della porta della cabina che cedeva sotto le spallate. Sollevai lo sguardo e vidi che il gruppo in testa era riuscito a sfondarla. Mirae era la prima a entrare, Ilia e Andrew subito dietro.
Stavo per muovermi anch’io quando una nuova turbolenza colpì l’aereo come un pugno allo stomaco.
Mi aggrappai d’istinto al bracciolo di un sedile vicino, cercando di serrare tutto il corpo come un’ancora. Le gambe si piegarono, i piedi scivolarono sulla moquette, ma resistetti. Il boato del velivolo che tremava mi rimbombava nelle orecchie. Una voce, morbida e pacata, iniziò a parlare. In netto contrasto con il caos.
«Signore e signori, è il capitano Philips che vi parla...»
Mi immobilizzai.
La voce proveniva da nessun luogo. Dal vuoto. Ogni parola era così tranquilla, così... indifferente. Come se ci stesse leggendo le condizioni meteo di un pomeriggio estivo, non annunciando la discesa in un buco dimensionale.
«Vi consiglio di allacciare le cinture e di non guardare fuori dal finestrino...»
Lo stavo già facendo. Guardavo. E non riuscivo a smettere.
Fuori, il cielo si deformava. Le spirali erano diventate voragini che risucchiavano le nuvole come fossero fatte di carta. E l’aereo stava piegando, virando piano, troppo piano. Non per decisione. Per attrazione.
«Siamo... siamo diretti là dentro...» mormorai, tra me e me.
Lasciai il sedile, barcollando lungo il corridoio. Mi feci largo tra i pasti freddi, le carte da gioco e le sigarette consumate. Ogni cosa sembrava inchiodata nel tempo, come un museo dell’orrore.
Finalmente raggiunsi la cabina. Vuota. Due sedili, mille pulsanti. Il silenzio rotto solo dal rumore della cloche che girava a vuoto.
Eppure, non eravamo soli.
Le grida iniziarono piano. Sussurri, forse? No, erano voci. Voci vere. Umani. Uomini, donne, bambini. Voci spezzate. Urla disperate che sembravano provenire da ovunque e da nessuna parte. Non c’erano corpi. Solo le grida.
Mi pietrificai per un istante.
Mirae era già seduta al posto del pilota. Le dita che cercavano i comandi, lo sguardo serio ma calmo, come chi sa che il panico non aiuta. Si stava allacciando la cintura, e fu lei a riportare la mia attenzione su di loro e a quello che stavano dicendo. Si rivolse a Ilia: «Parlavi di un atterraggio di emergenza, no?» gli chiese, indicando il sedile accanto. «No, perché io non so che cosa cazzo dobbiamo fare.»
Nessun tentativo di minimizzare. Solo verità, nuda e cruda.
Andrew era in piedi al centro, saldo, con le mani aggrappate ai bordi dei sedili come un’ancora. Guardava Ilia anche lui, con tono fermo: «Se non te la senti, mi siedo io.»
Ilia, intanto, era ancora in piedi, apparentemente più stabile di tutti. Forse era davvero il meno malridotto, almeno fisicamente. Forse.
Le loro voci si sovrapponevano. Moira, più indietro, la sentii borbottare, sardonica: «Fantasticamente», rispondendo a Ilia. E poi ancora: «Nei film, si tira quel... coso per salire e si spinge in avanti per scendere.»
Nei film. Lo stesso pensiero che avevo avuto anche io.
Xiangmei era poco dietro. Si stava avvicinando alla cabina nonostante il dolore evidente. Disse qualcosa, incerta ma speranzosa: «Dovrebbe bastare puntare in direzione opposta alla spirale, no?»
La guardai un attimo, senza voltarmi del tutto. «Dovrebbe bastare» mormorai in risposta, anche se la mia voce suonava tutt’altro che convinta. «Mi auguro che basti...»
Sentivo il sangue martellare nelle orecchie. I comandi sembravano un enigma alieno, ma se davvero quella cloche girava a vuoto, allora qualcuno doveva provarci.
«Non credo che atterrare al momento possa essere un’opzione. Cerchiamo solo di rimanere distanti quanto basta da non venire risucchiati.» Lo dissi fissando il cielo fuori. Quelle spirali erano ormai enormi. Non guardarle sarebbe stato come ignorare un treno in corsa mentre ti sta per travolgere.
Mirae si era fatta carico della situazione più di quanto mi aspettassi. Guardava i monitor, i comandi, le leve. «Si potrà dare gas a un aereo?» disse, come se parlasse a se stessa. «Oppure cerchiamo di superarla salendo? O scendendo?»
Idee. Ipotesi. Tutte valide. Nessuna sicura.
«Allacciatevi le cinture, magari!» gridò ancora, rivolta a chiunque fosse abbastanza lucido da ascoltare.
Restai qualche istante sulla soglia, aggrappata al telaio della porta. Le urla si stavano facendo più forti, più vicine. Voci di persone che non c’erano, ma che sembravano ancora lì. Impresse nell’aria come impronte sulla neve.
Due cloche. Due mani. Due direzioni diverse.
E un solo pensiero nella mia testa: non può finire bene.
Mirae tirò verso di sé. Moira aveva detto che si faceva così, e sembrava anche funzionare: l’aereo cominciava lentamente a inclinarsi verso l’alto. Ma fu Ilia, con la grazia di un pilota da simulatore e l’entusiasmo di chi non ha mai letto un manuale d’emergenza, a spingere in avanti la seconda cloche.
L’effetto fu immediato. E disastroso.
L’aereo scattò in una rotazione su se stesso, come impazzito. I motori gemettero, l’allarme visivo e sonoro “RISCHIO AVARIA” cominciò a lampeggiare, e un nuovo boato spezzò il fiato a metà.
La voce del Capitano Philips tornò a risuonare con la solita calma dissonante:
«Signore e signori, vi chiedo di mantenere la calma, stiamo facendo tutto il possibile per superare la perturbazione…»
Io alzai lo sguardo al soffitto, serrando i denti. Di nuovo lui. Di nuovo quella voce da conduttore radiofonico d’altri tempi. Se davvero stavano “facendo tutto il possibile”, allora quei poveracci erano spacciati. Esattamente come noi.
Una nuova ondata di panico attraversò l’aereo insieme all’ennesima scossa. Lo sentii montare, salirci in gola, come un urlo che nessuno voleva davvero lasciar uscire.
«Sceglietene una!!!» urlai, aggrappandomi al sedile dietro la cabina. Le urla sovrannaturali dei passeggeri scomparsi rimbombavano tra le pareti. Pianti, invocazioni, singhiozzi. Non si vedevano, ma erano lì. Ovunque.
Guardai le prime file: ancora vuote, ancora inchiodate nel tempo. Pasti, bicchieri, carte, sigarette. Eppure sembrava che ogni oggetto sussurrasse dolore.
Le voci degli altri si accavallavano nella cabina:
«Allacciatevi sul serio le cinture!» gridò Mirae.
«Dobbiamo andare giù. Stavolta insieme.» Andrew cercava di prendere la situazione in mano, di coordinare, con la sua calma inamovibile.
«Anche secondo me è meglio andare in giù. Il Croatoan sta in cielo, no?» aggiunse Mirae, mentre si preparava con Ilia per un nuovo tentativo.
«Scendiamo!» dissi anch’io, ormai senza più alcun dubbio. Tanto valeva.
Mi slanciai verso uno dei sedili delle hostess, cercando di fissarmi con la cintura. La fibbia scattò con un suono secco. Le mani mi tremavano appena.
Dall’altra parte, Moira si reggeva come poteva, la voce sottile: «CAvete… tutto sotto controllo, sì?» E ancora: «Io... io...» balbettava mentre cercava di contenere la paura. «Siamo troppo… troppo in alto.»
Xiangmei, barcollando, la raggiunse e le chiese: «Come stai?»
«Non so se… ci riesco.» rispose Moira, mentre cercava di concentrarsi di nuovo sulla magia taumaturgica.
Dietro di me, il tonfo sordo di due teste che sbattevano contro il soffitto mi fece sobbalzare. Ilia e Mirae. Sbattuti in alto come bambole di pezza.
«Tutto a posto! È solo un bernoccolo! Non licenziatemi!» esclamò Ilia, massaggiandosi la testa. Era chiaro che cercava di tenere alto il morale, ma bastava guardargli la faccia per capire che era nel panico più totale.
Mirae era meno teatrale ma altrettanto colpita. Il sangue trasparente cominciava a rigarle la fronte. «Possiamo andare verso il basso, tenere una mano sulle leve e vedere se riusciamo ad assestarlo prima di morire in picchiata?»
L’ironia lasciata in panchina. Era solo pragmatismo disperato.
Andrew rimase saldo dietro di loro. Lui non si era mosso di un millimetro. Era la roccia. «Se riusciamo ad andare giù, poi dobbiamo quantomeno cercare di bilanciare.»
Sapeva cosa fare. Ma non poteva farlo da solo.
Mi chiusi nella cintura, trattenendo il respiro. Guardai fuori dal finestrino ancora una volta. Le spirali erano ovunque, come spire d’acqua che si arricciavano per afferrarti.
E in mezzo a tutto quel caos, sentii qualcosa dentro di me irrigidirsi.
Se non lo fermiamo ora, Croatoan ci prende. Tutti. E non ci sarà ritorno.
Non so dire cosa fosse peggio.
La voce scomparsa di Philips, quel gorgoglio che sembrava provenire da una fossa primordiale, o la consapevolezza che anche stavolta Croatoan era riuscito a farci ballare sul bordo dell’abisso.
Il rumore di fondo si era trasformato in qualcosa di informe. Non era solo vento. Era qualcosa di vivo. Un verso. O un rantolo. O l’urlo del mondo che si torceva su se stesso.
Mi strinsi ancor di più alla cintura, mentre le mani scivolavano lungo i braccioli umidi di sudore. Il cuore era una percussione cieca nel petto. Il mio stomaco si stava sollevando, come in una giostra impazzita.
Vidi Xiangmei muoversi. Aveva superato il corridoio, barcollando, reggendosi agli schienali. Cercava i paracadute. «Ok, io ora cerco di andare a prendere i paracadute, se riesco ne prendo uno anche per te se non vuoi muoverti. Magari prendi l’ossigeno, ok?» aveva detto a Moira, con un tono che cercava di essere rassicurante. Ero troppo distante per aiutarla, ma abbastanza vicina da vederla sparire verso la zona degli sportelloni.
All’interno della cabina, Mirae sembrava una dannata professionista. O solo qualcuno che non poteva più permettersi di crollare. «Di nuovo assieme, okay?» chiese a Ilia. E quando si mossero in sincronia, il movimento fu netto.
L’aereo s’inclinò. Ma questa volta… questa volta in avanti, verso la salvezza.
«CI STIAMO ALLONTANANDO?» gridò Mirae da dentro.
Voltai il volto lentamente, aprendo gli occhi su quello che vedevo oltre il finestrino:
Croatoan si faceva piccolo. Dietro di noi.
«Sì!» gridai, con voce rotta. «Raddrizzate questo affare ora! Potete farcela!»
Era l’unica cosa che potevo fare.
Un grido nel caos, mentre mi stringevo al sedile come se potesse proteggermi da ogni cosa.
Andrew rimaneva solido come una roccia dietro i due. «Ce la fate a raddrizzarlo.»
E Ilia, in un moto di… isteria forse, esultò: «SIIII! BRUTTA COSA DI MERDA!!! NON CI AVRAI MAI!!»
Mi scappò quasi da ridere, se non fosse stato per il messaggio rosso lampeggiante che si accese proprio allora sul display sopra di noi:
PERDITA QUOTA, POSSIBILE IMPATTO IMMINENTE
La luce ci colpì subito dopo. Un bagliore bluastro, come uno strappo nell’aria, si fece sempre più forte. Lo sentivo prima ancora di vederlo. Come un’ondata che ti prende in pieno anche se non sei dentro l’acqua.
Mi coprii gli occhi, mentre la luce si faceva accecante.
Una parte di me pensava: è così che finisce. Un altro salto. Un’altra caduta.
Poi più nulla.
Quando riaprii gli occhi, avevo ancora le mani strette alla cintura. Il sedile era lo stesso. Il finestrino alla mia destra, uguale. La cabina era intatta. Eppure… sentivo che qualcosa era cambiato.
Mi guardai intorno.
Moira era lì, ancora pallida e muta. Anche Mirae, Xiangmei, Ilia, Andrew. C’erano tutti. Ma erano... diversi.
Erano giovani. Troppo giovani.
Guardai le mie mani.
Le stesse dita sottili, la pelle ancora troppo tesa, le unghie corte e scheggiate di chi non è più una bambina, ma non è ancora una donna.
Abbassai lo sguardo su me stessa. La solita maglietta dei Guns n’Roses, troppo lunga. I jeans larghi. Niente era cambiato.
Un respiro mi si spezzò a metà in gola.
Non ancora…
Nemmeno stavolta…
C’era stata una parte di me – una parte sciocca – che aveva sperato che tutto questo servisse a qualcosa. Che il giro sull’ottovolante dimensionale ci restituisse almeno quel poco che ci aveva tolto.
E invece no.
Ero sempre lì, sedicenne, con le ossa leggere e le paure pesanti.
Non c’erano urla adesso. Solo il rombo sordo del vuoto che ci aveva restituiti. E quella dannata canzone alla radio che partì come se niente fosse, Against All Odds di Phil Collins.
Cercai gli occhi degli altri. Cercai me stessa.
Poi la luce.
Troppo intensa.
Un bagliore bluastro che inghiottì tutto, come un respiro trattenuto troppo a lungo.
Chiusi gli occhi.
E quando li riaprii…
ero di nuovo lì.
Nella mia stanza. Esattamente come prima.
Distesa sul letto, la stessa maglietta addosso, i jeans larghi sulle gambe incrociate.
Il cellulare ancora vicino a me, lo schermo acceso, la voce di mia madre che continuava a parlare come se non ci fosse mai stato un silenzio.
«…dicevo che forse potresti venire anche tu, almeno una volta. Non è che ti si chieda di restare, Kim.»
Mi rimasero gli occhi fissi sul soffitto per un tempo imprecisato.
Avevo ancora il cuore in gola, la pressione nelle tempie, le mani sudate.
Come se fossi ancora sull’aereo.
Mi voltai appena, giusto per guardare fuori dalla finestra.
Nessuna spirale nel cielo. Nessun urlo, nessun allarme.
Solo il silenzio.
Solo io.
E quella sensazione familiare, scomoda, come se il mondo stesse fingendo di non aver visto niente.
   
 
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