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Autore: LyannaAnomis    10/06/2025    0 recensioni
In un tempo remoto si ergeva il continente di Seatiale, dal Mare Assolato al Deserto Infinito.
Era un unico Regno una volta.
Dopo anni di lotte dalle sue ceneri si ergono cinque Regni, ognuno governato dal proprio Sovrano,
La regina Mariam ha un sogno: riportare Seatiale al suo antico splendore e riunire tutti i popoli sotto una sola bandiera.
Era un unico Regno una volta.
Genere: Avventura, Fantasy, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Si svegliò in un letto vuoto quella mattina.

Ormai ci era abituato, raramente sua moglie dormiva al suo fianco in quei tempi, se non era costretta. Non che lui fosse ferito da ciò, non aveva sposato Shenya per amore o altre sciocchezze simili e ben presto avevano imparato entrambi che andavano molto più d'accordo se non si stavano tra i piedi.

Virtholm rimase seduto a letto ancora per qualche momento, osservando pigramente il pulviscolo che roteava nell'aria, colpito da i raggi del sole nascente che penetrava dalle pesanti tende in velluto. Raramente si permetteva di sprecare il suo tempo in simili inezie, sua moglie diceva che l'unica persona in grado di svegliarsi prima di lui fosse la Regina, e Virtholm si vantava con sé stesso - e solo tra sé, perché nemici e amici erano pronti ad affondare le unghie in ogni minimo segno di debolezza - che fosse la propria attitudine ad afferrare qualsiasi opportunità prima degli altri che aveva fatto sì che la casata Burg si elevasse fino a quel punto.

Alzarsi presto era uno di quegli atteggiamenti che lo rendevano ora una delle persone più importanti a corte.

Eppure quando si era tirato a sedere una volta aperti gli occhi aveva scoperto che non riuscisse ad alzarsi completamente. La stanza aveva preso a girare lentamente davanti ai suoi occhi e una fitta alla tempia sembrava volergli spaccare in due il cranio.

L'età lo stava raggiungendo, alla fine. Non che fosse vecchio, anche se quell'anno era arrivato al suo cinquantesimo nome, ma ormai pensava ai suoi giorni da ragazzo, quando appena apriva gli occhi era già mezzo vestito, con sempre più crescente nostalgia.

Come un vecchio, bisbigliò una voce velenosa nella sua mente.

Questo no, pensò, e scostò le coperte con uno strattone, poi piazzò i piedi sul freddo pavimento e, ignorando la stanza che prese a girare un po' più in fretta, si alzò. Per un attimo ebbe l'orribile sensazione di cadere e allargò le braccia in un patetico tentativo di mantenere l'equilibrio.

Dopo aver volteggiato svogliatamente per un altro po' la stanza si decise a fermarsi dolcemente e Virtholm prese un profondo respiro, ma invece di calmarsi sembrò accendere la sua rabbia.

All'improvviso tutto intorno a lui sembrò un insulto ai suoi occhi: le tende che non erano state chiuse bene la sera prima, il pulviscolo che roteava nell'aria - simbolo di incuria - e persino quel dannato letto vuoto e freddo in cui dormiva solo ormai tutte le notti. E per che cazzo la servitù non era ancora arrivata a servirlo?

La sua parte razionale, quella a cui di solito dava ascolto, gli sussurrava che si stava scaldando per niente. Ma quella vocina veniva soffocata dal rombo nelle orecchie che lo assordava e a grandi passi si diresse verso la porta, stava per spalancarla e urlare qualcosa, non sapeva nemmeno lui cosa, quando udì un leggero bussare alla porta.

«Avanti» disse velenoso rivolto alla porta, incrociando le braccia al petto e arretrando di qualche passo.

La porta si schiuse dolcemente e lentamente il ragazzo entrò nella stanza a passi leggeri prima di chiudersi la porta alle spalle. Il ragazzo, Virtholm era più che certo di non averlo mai visto prima, puntò i grandi occhi azzurri verso il pavimento e gli porse il vassoio con la colazione.

Virtholm sentì evaporare tutta la rabbia dal suo corpo, provando vergogna nel modo in cui si era quasi comportato per una facezia simile. Accennò un sorriso, che probabilmente non venne notato considerando che gli occhi dell'altro non si erano ancora alzati da terra, e fece segno verso la sua scrivania.

Il ragazzo poggiò il vassoio contenente la tazza di té, due spesse fette di pane e della confettura di prugne sullo scrittoio e si diresse in un angolo della stanza, aspettando ulteriori ordini, con le braccia incrociate dietro la schiena.

Virtholm si sedette e prese un sorso di té, ancora abbastanza caldo, senza però perdere il servo di vista. Aveva capelli di un biondo scuro lunghi fino alle spalle, gli occhi azzurri e la pelle abbronzata tipica di chi lavorava al di fuori della corte. Quella pelle parlava di contadino, non di servo di un nobile. Era molto alto e anche le spalle larghe e muscolose erano più adatte a lavorare in un campo.

Il suo viso era sottile, estremamente grazioso. Era bello, tutto in lui gridava bellezza. Probabilmente era quello che lo aveva portato a corte.

Virtholm fece per prendere un fetta di pane, chiara e fragrante, appena uscita dal forno, quando i suoi occhi scivolarono sulle labbra del ragazzo, erano carnose e sembravano un po' screpolate, erano atteggiate in una linea dura, quasi imbronciate. Virtholm aggrottò la fronte davanti a quel dettaglio.

«Come ti chiami?» gli chiese.

Il ragazzo trasalì visibilmente alla domanda inaspettata e lo guardò a bocca aperta per alcuni secondi. Era la prima volta che lo guardava direttamente, e oltre alla sorpresa Virtholm vide altro, ma non era sicuro di cosa fosse.

«Ven» fu la risposta con tono incerto.

«Quanti anni hai?»

«Ventitré»

Virtholm si passò un dito sul labbro inferiore studiando il giovane davanti a sé, affascinato. Non riusciva a capire esattamente che cosa lo attraesse, tranne l'ovvio, ma qualcosa c'era.

Decise di mangiare qualcosa e spalmò un po' di confettura sul pane prima di prenderne un morso; il cibo si sciolse sulla sua lingua, con una dolce esplosione di prugne. Era delizioso.

Intanto, con la coda dell'occhio, continuava a seguire i movimenti di Ven. Il ragazzo sembrava passare dall'immobilità assoluta al non riuscire a stare fermo, dondolando da un piede all'altro.

Virtholm si chiese come fosse finito lì, a portargli la colazione. Non aveva né l'aspetto né le maniere di un servitore addestrato; avrebbe dovuto chiedere a Willem, l'uomo a capo della sua servitù, dove era andato a trovare il ragazzo.

Con un ultimo boccone finì la sua colazione e si sfregò leggermente le mani per liberarsi delle ultime briciole di pane, poi si alzò per andare a darsi una sciacquata nel bacile di acqua pulita posto sul treppiedi in ferro battuto. Allungò una mano per ricevere la salvietta con cui asciugarsi ma dovette aspettare alcuni secondi prima di accorgersi che non l'avrebbe mai ricevuta.

Si girò verso l'angolo della stanza dove lo aveva visto l'ultima volta e Ven era ancora lì, con le braccia incrociate dietro la schiena, a fissarlo. Virtholm alzò un sopracciglio, sulla punta della lingua il pesante sarcasmo pronto a essere abbattuto su Ven.

La porta si spalancò di colpo, aperta con tanta foga da sbattere con violenza contro il muro, e sua moglie entrò nella stanza come una furia. Ignorando tutti e tutto con ampie falcate andò verso la finestra, i lunghi capelli biondi che le svolazzavano dietro la schiena, e posò i gomiti sul davanzale fissando ostinatamente fuori.

Virtholm era talmente sorpreso da tale scena che, nel suo stupore misto a costernazione, si girò verso Ven cercando di incrociarne lo sguardo, come a chiedergli se anche lui avesse assistito e Virtholm non fosse completamente impazzito.

Ven, probabilmente dimenticatosi qual era il suo posto e incoraggiato dal comportamento del suo Lord, fece spallucce altrettanto sbigottito. Quando i loro sguardi si incontrarono, sembrarono quasi sul punto di ridere entrambi in modo isterico. Qualcosa negli occhi di Ven fece stringere lo stomaco di Virtholm, in modo piacevole. Forse lo scintillio di divertimento che gli illuminava, forse il modo in cui non abbassò lo sguardo quando si rese conto di essere osservato dal suo Lord. Per un attimo Virtholm si perse nel momento di quel cameratismo così spontaneo, si perse in quei luminosi occhi azzurri e permise agli angoli della sua bocca di arricciarsi in un cenno di sorriso.

Quel sorriso gli morì sulle labbra quando sentì, e se non fosse ci fosse stato un silenzio assordante in quegli attimi probabilmente non lo avrebbe colto, un leggero mugugnare. Come qualcuno che si sforzasse di non produrre nessun suono, di soffocare il lamento che artigliava fuori dalla gola.

Come se qualcuno si sforzasse di piangere in silenzio.

Virtholm si girò in direzione di quel rumore così specifico ma allo stesso tempo quasi del tutto estraneo. Raramente aveva udito Shenya piangere.

Come inebetito si rese conto di star per deridere sua moglie, chiaramente completamente sconvolta al punto di fare una sceneggiata, con un servo. Sua moglie che stava piangendo.

Con un servo.

«Vattene» disse freddo, facendo un segno di congedo verso la porta.

Ven sembrò essere colto di sorpresa dall'improvviso cambio di tono e umore del Lord, e la sua faccia si aggrottò rimanendo immobile. Per un secondo Virtholm si chiese se avrebbe dovuto buttarlo fuori di peso, la connessione che aveva sentito prima con lui annegata nella vergogna di ciò che aveva quasi fatto. Poi però Ven si diresse verso la porta, quasi sbattendo i piedi, e uscì chiudendosela alle spalle.

Avrebbe dovuto fare qualcosa, se il giovane continuava a mostrarsi così... Inadeguato, pensò tra sé girandosi verso Shenya.

La donna continuava caparbiamente a guardare fuori dalla finestra, dando le spalle alla stanza, come se fosse l'unica all'interno. Quando Virtholm fece qualche passo verso di lei, fiancheggiandola piuttosto che starle dietro, lo ignorò anche se certamente aveva sentito i suoi passi, che lui aveva strascicato di proposito per non prenderla di sorpresa. Notò che Shenya aveva una mano sulle labbra, la presa stretta a tal punto da far impallidire le nocche, e capì perché oltre a quel singolo singhiozzo non aveva udito alcun gemito provenire da lei.

Si passò le mani tra i capelli, incerto su cosa fare. Raramente Shenya aveva espresso quel tipo di emozioni davanti a lui. Di solito, nelle rare occasioni in cui accadeva, era nei fumi dell'alcool, dopo una cena particolarmente noiosa, quando perdeva la presa di ferro sui suoi sentimenti. Ed erano bazzecole, piccoli rimpianti che scordava il mattino dopo una volta sobria.

L'unica volta in cui l'aveva vista così genuinamente sconvolta era stato la prima notte insieme, dopo le loro nozze.

Aveva pianto allora, sdraiata sul loro nuovo letto con indosso il suo vestito da sposa riccamente decorato; le lacrime erano scivolate lentamente sul suo viso silenziose, non emettendo alcun suono, negli occhi una paura così grande che mai più avrebbe rivisto. Anche se si conoscevano appena e solo di nome, per lui era stato straziante vederla lì, che tentava di farsi più piccola di come già era, mentre tentava di trattenere le lacrime inutilmente.

Non sono un mostro, aveva voluto dirle allora, non ti farò del male. Ma le parole gli si erano incastrate in gola, immaginando le storie dell'orrore che serve e amiche le avevano messo in testa su quella notte. Virtholm, steso su di lei, non aveva idea di dove mettere le mani, per non spaventarla ulteriormente.

Per non spaventare sé stesso, che non toccava una donna da anni, da quando aveva dovuto da ragazzo.

Alla fine le aveva poggiato una mano sulla spalla, in modo quasi distaccato e freddo, poi si era messo dalla sua parte del letto e aveva chiuso gli occhi; aveva ascoltato il respiro di Shenya calmarsi gradualmente e aveva avvertito gli occhi di lei fissarlo con neonata curiosità prima che la stanchezza la cullò nel sonno.

In fondo nessuno doveva sapere che il matrimonio non era stato consumato, l'antica usanza di mostrare le lenzuola sporche di sangue era andata ormai perduta da secoli. E poi lei non era vergine.

Ora, nel presente, le posò una mano sulla spalla, come aveva fatto anni fa. Lo fece lentamente, dandole la possibilità di sottrarsi al tocco, se avesse voluto, ma lei non si scostò. Anzi, sembrò quasi pendere verso la sua mano, come in cerca di un conforto che mai prima d'ora aveva voluto da lui.

Voleva chiederle qual era il problema, se le fosse successo qualcosa durante il viaggio, e per un attimo sentì un moto di rabbia verso la Regina, che l'aveva mandata all'avventura senza una minima ragione.

Ma rimase in silenzio, dandole il tempo di calmarsi. Dandole la scelta di condividere con lui il suo fardello, se avesse voluto.

Però il tempo passava e Shenya non apriva bocca, non faceva cenno di girarsi verso di lui, di giustificarsi. Il tempo sembrò dilatarsi a dismisura e Virtholm iniziò a provare un pizzico di inquietudine.

Al tempo, aveva capito le paure di Shenya. Ora non aveva idea di cosa le passasse per la testa.

«Parlami» chiese infine a voce bassa, stringendo lievemente la presa sulla spalla in un vago gesto di incoraggiamento.

Shenya sembrò mormorare qualcosa, ma le parole furono attutite dalla mano che teneva ancora premuta sulla bocca. Con gentilezza Virtholm le prese il polso e con fermezza le spostò la mano, insistendo quando Shenya fece resistenza.

La donna aveva le labbra rosse e gonfie, ma erano così dai morsi che si era inflitta piuttosto che dal trucco che usava abitualmente. Si passò la lingua sul labbro inferiore, più volte, e Virtholm realizzò che doveva aver la gola secca dopo aver pianto così disperatamente. E lui non aveva idea da quanto fosse in quelle condizioni.

Fece per dirigersi verso la sua scrivania, era certo che ci fosse dell'acqua e un calice lì, ma Shenya si aggrappò alla mano che teneva ancora sulla sua stanza e strinse, non lasciandolo allontanare.

«Non farmelo dire» disse lei con voce lacrimosa, tirando su con il naso.

«È successo qualcosa durante il viaggio?» chiese allora Virtholm, cercando di riaggiustare la mano.

Lei lo teneva abbastanza stretto da affondargli le unghie nella carne e lui era abbastanza certo che una volta che lo avesse lasciato andare gli sarebbero rimasti i segni.

«No» mormorò lei abbassando lo sguardo.

Se non le era successo niente per strada, dove era stata solo una viandante, di sicuro non poteva esserle accaduto nulla a corte, dove come Prima Dama era rispettata e anche un po' temuta da tutti.

Pensò a cosa altro poteva sconvolgerla in quel modo, dentro la corte, a quell'ora del mattino. Fu proprio in quel momento che capì.

«Hai discusso con la Regina» non era una domanda.

Shenya inspirò bruscamente e si girò nuovamente a guardare i bellissimi cespugli fioriti che si intravedevano da quella finestra, che si affacciava sul cortile.

Rimase in silenzio per un lungo momento, poi disse con voce roca: «Non farmelo dire».


 


 


 


 


 


 

Il foglio di carta era riccamente decorato con la filigrana dello stemma della Casa Reale Whitmune: le due lune d'argento incrociate.

La carta, una volta di un intonso color crema, adesso era scritta con la miglior grafia di cui Mariam era capace. Aveva dibattuto tra sé se non fosse il caso di chiamare un'esperta, per rendere le parole le più chiare possibile, poi aveva scelto di scrivere di suo pugno: aveva avuto l'improvviso terrore che gli altri Regnanti si sarebbero offesi se una richiesta del genere fosse arrivata dalla mano di chiunque altro.

Probabilmente si sarebbero offesi ugualmente, sospirò Mariam e soffiò lievemente sull'inchiostro per farlo asciugare anche se probabilmente era inutile in quanto già secco.

Ma doveva essere tutto perfetto, non poteva permettersi nessuna sbavatura.

Pensò a chi mandare quella prima lettera. Ovviamente le lettere sarebbero state spedite tutte insieme, per evitare che un Sovrano pensasse che lei facesse favoritismi, ma le era venuta quella superstizione. Che la prima lettera che avesse scritto sarebbe dovuta essere mandata al Re giusto, per fare in modo che tutto andasse bene.

Ma chi poteva scegliere?

La sua prima idea fu la Regina Ellenore di Lapis: una donna, come lei, che forse sarebbe riuscita a capire meglio il suo punto di vista. Ma subito l'idea le sembrò sciocca, non sapeva nulla di quella donna, se non che fosse più grande di lei e che aveva un pugno duro come la roccia che governava.

Ma questo era vero anche per gli altri due restanti. Re Calis e Re Arik le erano sconosciuti, forse anche più di Ellenore che almeno le era confinante e aveva visto di persona, anche se sporadicamente.

Si rimproverò per quella grave svista, avrebbe dovuto assicurarsi di conoscere meglio le persone a cui stava chiedendo una cosa così tanto... Particolare. Per modo di dire.

Forse sarebbe dovuta partire lei, invece di mandare Shenya, di sicuro sarebbe stata accolta nei Palazzi nel modo in cui la sua Dama non era stata.

Scrollò la testa, come se fisicamente avesse potuto scacciare quell'idea. Non avrebbe pensato a Shenya, ora.

Provò un altro approccio, spostando la lettera e scoprendo la mappa del continente che si celava sotto.

A chi sarebbe convenuto quel patto?

Si sentì di escludere Terraria, ricca di boschi che vendeva anche agli altri regni, era inoltre il regno più grande dei quattro regni, estendendosi dal Mare Assolato al Fiume Indaris. Era grande quanto Orios e Lapis insieme.

Re Arik sarebbe stato il più difficile da convincere, aveva da perdere più degli altri, pensò e conservò quel pensiero per un secondo momento.

Lapis, montuosa e piena di miniere. A primo acchito sembrava la più idonea e ripensò alla sua idea iniziale di mandare la lettera a Ellenore. Ma più ripassava le dita su quella porzione di mappa più si ricredeva. Era vero che Lapis era una terra di sassi, come l'aveva chiamata suo padre il Re prima di morire, e che dipendeva quasi totalmente da Terraria per il legno e da Orios per le coltivazioni, ma le sue non erano semplici pietre: erano oro, argento, pietre preziose e ferro. Quasi indispensabili quanto il cibo, quanto il riscaldarsi. Mariam era più che sicura che l'oro della sua corona fosse fatta con l'oro di Lapis.

E, dalle poche volte che l'aveva vista, Ellenore sembrava fatta di pietra ella stessa.

Per un attimo si sentì prendere dallo sconforto, passando le dita sull'ultimo regno rimasto.

E così che muore la mia Rivoluzione, pensò e gli occhi iniziarono a bruciarle di lacrime.

Uno schiocco secco risuonò nell'aria e la guancia iniziò a bruciarle ed arrossarsi.

Con la testa schiarita dal dolore dello schiaffo che si era auto inflitta, si infilò una ciocca di capelli scuri dietro l'orecchio e tornò a concentrarsi. Doveva riflettere e non c'era tempo di commiserarsi, doveva agire al più presto se voleva che il suo piano avesse una possibilità di riuscita.

Rimaneva solo Solis, la piccola striscia di sabbia che si estendeva lungo le sponde sud del fiume Indaris. Era il più piccolo tra i regni e ed quasi completamente sconosciuto a Mariam, se non per quel che aveva letto a riguardo. Oh, aveva visto i famigerati mercenari di Solis, uomini e donne alti e con la pelle scura, i capelli lunghi intrecciati che indossavano quasi solamente armature. Ed era tutto ciò che potevano fare, i mercenari: tranne qualche fattoria sulle sponde del fiume e qualche tessitore Solis era largamente desolata, c'era poco con cui vivere e in qualche modo gli abitanti dovevano pur mangiare. Quindi, aveva letto, il popolo si esercitava intensamente sotto il sole rovente fino a modellarsi in soldati perfetti, senza difetti. E lo aveva visto con i propri occhi, quando qualche nobile si era portato a corte uno o due di quei mercenari.

Questo poteva essere un inizio, rifletté Mariam. Poteva offrire al loro Re di far muovere il suo popolo in terre più ospitali e lui poteva darle l'esercito di cui lei aveva bisogno. Anche se avevano dei soldati, ad Orios erano più contadini che guerrieri, infondo.

Riprese in mano la lettere e la lesse di nuovo, in fretta. Sarebbe andata bene per questo Re ignoto, di cui non conosceva neanche l'aspetto?

Certamente poteva immaginarlo: alto, spalle larghe, lunghi capelli intrecciati e liscia pelle scura.

Era anche lui un guerriero, come gli altri del suo popolo?

Era bello, aveva detto Shenya. Ma quelle erano soltanto delle voci, non l'aveva visto con i suoi occhi.

Non che importasse, non voleva corteggiarlo.

Rilesse la lettera, l'invito a presentarsi al Concilio Illuminato, il castello dove, fin dalla Grande Rovina, Re e Regine si riunivano in un unico posto per parlare.

Non sapeva quando fosse stata l'ultima volta che il Concilio si fosse radunato, era passato almeno un secolo probabilmente. Suo padre non aveva mai presenziato.

Si chiese se avrebbero accettato.

Sperò di sì.

   
 
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