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Autore: Un Nome A Caso    10/06/2025    1 recensioni
Nel Principato di Millevachi, Sonia vive a Città della Fine, una città sospesa tra passato e futuro, dove le creature fantastiche coesistono con gli umani e antichi fenomeni inspiegabili hanno cambiato per sempre il destino del mondo.
Sonia è diversa. Ha un’intelligenza fuori dal comune, un’osservazione tagliente e un modo tutto suo di interpretare la realtà — eppure fatica a connettersi con le emozioni e con chi la circonda. Quando uno strano ascensore la conduce in un luogo che nessuno sembra vedere, incontra l’impossibile: un’anima pura, la prima compatibile con la sua.
Inizia così un percorso fatto di rivelazioni, incontri inaspettati, e dubbi sempre più profondi. Ma è solo l’inizio.
Romanzo fantasy psicologico con tinte misteriose, La Rivolta dei Sogni esplora il rapporto tra diversità, desiderio e appartenenza. Un viaggio tra scuole forzate, lettere portate da mostri, e sogni che forse... non sono solo sogni.
Temi principali: introspezione, creature fantastiche, sistemi educativi distopici, relazioni familiari, poteri latenti, mondi paralleli.
Genere: Fantasy, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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LA RIVOLTA DEI SOGNI

Capitolo 1: Tra le crepe di Città della Fine

“Nel corso dei secoli, l’evoluzione ha plasmato il nostro corrente aspetto di esseri umani e ha posto al nostro fianco innumerevoli altre specie, dagli animali selvatici, a quelli domestici, ai mostri. Questi ultimi si presentano in moltissime forme: alcune di loro sono da tempo immemorabile alleate fedeli e insostituibili del genere umano, altre possono arrivare a costituire un serio pericolo, scatenando fenomeni distruttivi come genocidi, calamità naturali o La Morte Delle Città (vedi pag 41). Secondo numerosi trattati internazionali (pag 2), il governo di ogni paese al mondo è tenuto a difendere i diritti delle prime e tenere sotto controllo la minaccia posta dalle seconde (compito che spetta ai Cacciatori di mostri; per maggiori informazioni in merito, pag 4). Questo opuscolo (fornito alla popolazione in vigenza alla norma 1 comma 333 della Costituzione) vi insegnerà tutto quello che dovete sapere sui mostri che risiedono nel Principato di Millevachi (dove questo opuscolo è stato stampato in ottemperanza…”

Seguivano altre formule burocratiche, ma Sonia aveva già oltrepassato quel noioso sommario per arrivare alla parte che amava davvero di quel libretto: le illustrazioni dei mostri. Erano in stile medioevale, con effetti luminosi e una precisione tale da permettere a chiunque di identificare quelle creature, se viste dal vero. Quello era lo scopo della dispensa; per legge ne veniva assegnata una per ciascuno al momento della nascita e tutto, dai materiali resistenti con cui era fatta, alla bellezza dei disegni e chiarezza delle descrizioni, era congegnato per renderne la lettura accessibile anche ai bambini.

Per Sonia aveva funzionato così bene che pur avendo trentadue anni suonati, ancora la sfogliava nei momenti liberi, fantasticando di poter incontrare le specie lì presenti e imparare tutto sui mostri. O sui paesi lontani. O sull’arte. O la musica. Qualunque cosa pur di essere sottratta al grigiore senza speranza di...

-Città della Fine chiama Soniaaaaa! Ci sei? –

All’udire la voce della sorella, Sonia scattò in piedi e chiuse frettolosamente il libro:

-Arrivo, Agata! –

-Io ti aspetto, ma sai bene che l’autobus non fa altrettanto! – Replicò l’altra.

Sonia corse giù più veloce che poté, evitando per un soffio di travolgere i clienti dell’ostello. Sul punto di raggiungere la sorella, fu fermata da una donna con gli occhiali e l’espressione arcigna, che le allungò una borsa. Presala, la donna la lasciò andare.

-Grazie, mamma! – Trillò Sonia – La stavo dimenticando anche stavolta. –

Elena sospirò, osservando con un misto di rassegnazione e apprensione le due figlie precipitarsi al lavoro.

Ammesso che fare le volontarie al rifugio d’animali possa essere considerato un lavoro. Pensò. Non erano pagate se non nelle rare occasioni in cui facevano le cat/dog sitter.

Del resto, la vita era dura nel principato di Millevachi e a Città della Fine in modo particolare. L’unico motivo per cui l’intero Stato non si era dissolto già secoli addietro, era stato per un puro colpo di fortuna. La famiglia regnante aveva esiliato a Città della Fine il fratello dell’erede al trono per sospetti di tradimento non suffragati da prove. Dal momento che la capitale era visibile da lì, lo intesero come una punizione, ma la mossa ebbe effetti inaspettati quando la capitale morì.

La quarantunesima pagina dell’opuscolo mostrava lo stesso panorama che si vedeva dalle finestre dell’ostello: un enorme cratere circondato da una valle desolata.

“La Morte delle Città è tuttora un fenomeno misterioso” recitava la suddetta pagina “le uniche certezze al riguardo sono che avviene di notte, colpisce zone densamente popolate senza lasciare sopravvissuti e cancella ogni traccia di paesaggio antropico e naturale, seccando la vegetazione nel raggio di chilometri. I mostri si rifiutano di avvicinarsi alla zona colpita e gli esseri umani che osano sono vittime di malesseri psichici di origine incerta. Nondimeno, osservarla da lontano non è pericoloso per la salute, come ben sanno gli studiosi, i fotografi e i curiosi che ogni anno affollano Città della Fine.”

Quest’ultima era passata da luogo di frontiera a fiorente polo commerciale e artistico sotto impulso dell’esiliato, ma con la morte di ogni altro membro della famiglia reale, egli fu chiamato a responsabilità più alte. Così, pur dispiaciuto, abbandonò Città della Fine, seguito dai mostri, i mercanti e i ricchi; senza di loro, l’abitato tornò a essere una terra desolata e avara di opportunità, costellata di edifici magnifici sempre più divorati dall’incuria.

Pile e pile di libri nello studio di Paolo coprivano questi eventi assieme agli alti e bassi del Principato da allora in poi, ma in quel momento il loro proprietario era assorto in questioni più urgenti.

-Vediamo, il cliente di dopodomani vuole la stanza quindici che è già stata assegnata, allora… - mugugnò mentre esaminava la mappa delle camere.

Ogni cliente di quella settimana aveva preteso una stanza con vista cratere, ma alcune sviste durante la prenotazione rischiavano di mandare tutto all’aria.

-D’altro canto – ragionò – il cliente della sedici non ha specificato che vuole la vista cratere, quindi potrei spostarlo… no, si trova già lì. – Sbuffò. Quello era un compito da esperto di rompicapi, non da direttore d’albergo. Anzi, di ostello; non poteva permettersi la classificazione di albergo, avrebbe significato il triplo delle tasse e con moglie e figlie da mantenere, già stentava a tenersi a galla. Dal nervosismo, cominciò a battere ripetutamente la penna sul tavolo e smise soltanto quando notò che stava facendo più rumore rispetto al solito. Smise, ma continuò a sentire un battito sonoro e ripetuto. Si girò verso la finestra e soltanto allora ne individuò il responsabile: un Corvoide da messaggio.

“I Corvoidi”, come spiegava pagina ventitré, “sono mostri dall’aspetto di corvi; la differenza sta nel piumaggio, che è stato la diretta ispirazione per i capi più noti dell’eleganza maschile e nell’intelligenza che rivaleggia quella umana. I Corvoidi comprendono i nessi causa-effetto, fino a sette lingue e sanno risolvere complessi problemi di logica; vicino agli artigli hanno sacche di inchiostro naturale che usano per risolvere con gli scritti ogni disputa che può nascere coi consimili o con gli umani. Sono alleati da secoli al genere umano in quanto necessitano di cibi raffinati; un Corvoide preferirebbe morire di fame piuttosto che nutrirsi come gli animali.”

Paolo sapeva cos’era un Corvoide: fino all’avvento di internet era piuttosto comune usarli per scambiarsi le lettere. Tuttavia, era la prima volta che ne vedeva uno: quell’esemplare sembrava indossare uno smoking e con il becco aveva scritto un “potrebbe aprirmi?” in bella grafia sullo sporco del vetro.

Paolo aprì subito la finestra, cercando di ricordarsi dove aveva messo il trespolo e quali erano i rituali del caso. Con un cenno del capo, il Corvoide comprese la situazione e non ne fece un dramma. Un frullo di ali più tardi, Paolo aveva una lettera sigillata in mano e un Corvoide che si sorseggiava il (suo) caffè, appollaiato sul tavolo; sembrava interessato ai fogli ed era riuscito a non spostarne neanche uno.

-Lo zucchero è sotto il faldone rosso. – Lo informò mentre apriva la busta. La lettera era scritta a mano in una grafia leggibile.

A Paolo Nembo era scritto in alto a sinistra per poi continuare in basso.

Innanzitutto, spero che l’uso del Corvoide di servizio non abbia causato problemi: al giorno d’oggi internet è più comune ma meno affidabile, specialmente a Città della Fine.

A Paolo sfuggì una smorfia rassegnata: assicurare la connessione a Città della Fine era una lotta contro i mulini a vento. Nella migliore delle giornate funzionava bene per tre ore prima di arrestarsi o rallentare oltre la soglia del tollerabile e lo stesso capitava con le onde radio. Gli studiosi erano tanto concordi nell’addossarne la colpa alla Morte Delle Città quanto impotenti a rimediare. Forse l’uso dei Corvoidi non era del tutto insensato.

Vorrei prenotare una stanza con vista cratere tra una settimana esatta. Troverà l’acconto dietro la lettera.

Girata la lettera, Paolo notò un piccolo involto attaccato dietro con delle banconote. Seguivano una firma e un marchio e al vedere quest’ultimo, per poco non fece cadere la missiva: erano una spada e una penna per scrivere incrociate e circondate da mani stilizzate; il logo utilizzato da secoli dai Cacciatori di mostri.

Che cosa ci veniva a fare un Cacciatore di mostri in un posto senza mostri? Perché rivelarsi?

Poi scorse una piccola nota vicino al timbro: ne farei a meno, ma le recenti leggi sulla trasparenza me lo impongono.

L’ordine dei Cacciatori di mostri era soggetto a una serie di regole in perennemente rinnovamento, indi Paolo non aveva niente di cui stupirsi.

-Digli che ho ricevuto il messaggio e gli terrò una stanza. – Disse al Corvoide, che nel frattempo aveva riempito i fogli di segni irregolari.

Paolo si avvicinò, per scoprire che il mostro aveva risolto per lui la questione degli alloggi.

-Grazie, amico!! – Lo congedò con gioia. – Ripassa quando vuoi! -

Elena entrò nella stanza proprio mentre il marito congedava l’ospite alato con un gran sorriso sulle labbra.

-Parlavi con un Corvoide? – Gli chiese.

-Esatto. Aspetta, come fai a sapere… -

-In certi ambienti li usa ancora per motivi di segretezza: i messaggi telematici possono essere esorti dagli hacker, quelli cartacei distrutti e in più i Corvoidi non parlano. Cioè, possono scrivere, ma sono fedeli fino alla morte nei confronti di chi li nutre. –

-Non ci avevo mai pensato. –

-Sono come i cavalli; un tempo erano più usati, ma oggi come ieri i purosangue più intelligenti e veloci sono roba per ricchi o per grandi organizzazioni. A proposito, chi l’ha mandato? –

Paolo le allungò la lettera ed Elena aggrottò la fronte, con le stesse perplessità in mente che avevano prima toccato suo marito.

-Pensi sia un falso? – Suggerì Paolo dopo due minuti di silenzio.

Ma Elena scosse la testa:

- I Cacciatori sono appunto una grande organizzazione con regole proprie e non riesco a immaginare che qualcun altro avrebbe speso tanto tempo e risorse per un posto in un ostello. Non siamo nemmeno i più lussuosi o i meno cari. – In cerca di risposte, il suo sguardo si posò sulla firma: Nullo Albertini.

Uhm…

-Intanto che la metto nell’archivio – decise Elena – farò qualche ricerca, tanto non ci sono emergenze, oggi. Per ora. –

A Città della Fine le emergenze rientravano essenzialmente in due categorie: gente refrattaria ai pagamenti e cose che si rompevano ma venivano lasciate rotte perché costava troppo ripararle; chi si contendeva i pochi voti dei residenti non sproloquiava sul grandioso futuro che avrebbero avuto a patto di votarlo/a, ma su cosa era meglio rimettere in piedi o lasciare al proprio destino.

Che differenza con la sua vecchia vita nella capitale! Ma Elena non ci sarebbe tornata per niente al mondo e dopo qualche minuto, aveva tra le mani ciò che voleva: un’altra lettera di Nullo. Stessa richiesta, stessa scrittura, stesso mittente ma risaliva a due anni fa. Elena continuò a frugare nell’archivio e trovò altre settanta lettere come quella, una per ogni anno, fino a dove si spingeva l’archivio cartaceo.

I casi erano due: o quel Nullo aveva più di settant’anni ed era riuscito a non farsi tremare le mani o erano una famiglia di omonimi.

Ne parlò al marito, senza cavarne un ragno dal buco.

Nel frattempo, emergenze più serie si stagliavano all’orizzonte.

-Sul serio –ringhiò Agata – potevi risparmiartelo. –

-Dovevo. – Fu la replica tranquillissima di Sonia. – Avevamo già visto casi come quello, non sarebbe durato a lungo. –

-Resta che hai ammazzato a sangue freddo un cucciolo di cane appena nato e sei cascata dalle nuvole quando ti hanno licenziata! – Sbottò l’altra.

-Primo: ci hanno licenziate entrambe. Secondo e più importante, quel cucciolo non era sano: ogni anno ne nascono a decine con quella malformazione, quanti di loro sono sopravvissuti più di un’ora? –

Agata mugugnò un “nessuno”, ma col rumore dei loro passi verso casa, Sonia non la sentì nemmeno:

-Gli ho solo risparmiato l’agonia, non mi aspettavo una medaglia, ma almeno qualche ringraziamento… -

-MA SEI FUORI?! – Schizzò Agata. – D’accordo che sarebbe morto, ma… la maniera con cui l’hai fatto, veloce, senza rimorso per poi scrollarti le spalle… ci ha messo i brividi, ecco. –

Sonia sbuffò: non era la prima volta che le facevano il discorso “ogni vita va preservata” comportandosi come se lei fosse chissà quale assassina o sociopatica pericolosa. Rispose con la sua stessa, calma e perfetta logica di sempre:

-Se fosse stato sano e in grado di condurre una buona vita avrei fatto l’impossibile per salvarlo, ma in quelle condizioni avremmo solo prolungato il suo dolore. Ho ingoiato i miei dubbi quando si è trattato di fare le dog sitter per quel barboncino con la protesi e lo sai. –

-Sì, ma… non possiamo controllare tutto nella vita, uccideresti anche me, mamma e papà se un giorno dovesse succederci qualcosa? –

Sonia non rispose e fece un gesto brusco che la sorella non capì. Un secondo più tardi, Agata era stata spinta violentemente contro il marciapiede.

Si girò verso Sonia per chiederle cos’altro le avesse preso, ma le parole le morirono in gola. Al posto di Sonia adesso c’era una macchina che si fermò qualche metro più avanti. Sua sorella era ancora più in là, atterrata dopo un lungo volo che rotolava.

-SONIA!! – Gridò angosciata.

-Aaaah… cavolo… - Si lamentò quest’ultima. – I miei pantaloni… -

-Ma sei matta?! – Strillò Agata mentre la raggiungeva – Ai pantaloni, pensi?!? –

Ma la rabbia, rapida com’era nata, si esaurì: Sonia non fingeva di lamentarsi per i pantaloni per non farla preoccupare; sembrava davvero incolume. Anzi, lo era.

-Tutto bene? – Chiese l’investitore, che nel frattempo era sceso.

-Sì, grazie. – Sorrise Sonia, alzandosi in piedi. Da sola. A parte i pantaloni strappati non aveva niente di rotto. Poi mosse la testa, come per dire “che avete da guardare?”

-Sicura? – Chiese il conducente – Se vuoi posso portarti in ospedale, dopo quel volo… -

-Non credo nemmeno che mi prenderanno, questa volta. – Sospirò Sonia. – Mi era già successo di essere investita, per giunta da un’auto più grande, ma al pronto soccorso non hanno voluto credermi, mi han fatto giusto un’analisi perché mamma insisteva e non han trovato niente. –

Sia Agata sia il guidatore erano a bocca aperta; ne parlava come di un noioso contrattempo che capitava a tutti.

L’unica cosa a cui Agata riuscì ad aggrapparsi fu la consapevolezza che la sorella aveva un corpo diverso dal suo; stando ai medici era nata con due malformazioni: una che le impediva di avere il periodo, l’altra… non era una malformazione, quanto un disperato tentativo dei medici di dare un senso al suo spettro emozionale incompleto. Sonia non aveva mai provato rabbia, paura, dolore e nemmeno invidia; l’unica volta in cui si era quasi arrabbiata risaliva alle elementari e subito aveva trasformato l’ira in disprezzo contro il bambino che le aveva rubato il pupazzo.

Sonia era un vero enigma: fredda e logica ma con impulsi di pura generosità verso pochi eletti.

-Io non sono fredda! – Protestò.

Ah, già. Aveva anche un’altra caratteristica inconsueta: la capacità di leggere le menti.

-È solo spirito di osservazione, niente di soprannaturale. – Minimizzò Sonia, mentre riprendevano a camminare verso casa. Il guidatore si era allontanato e non mancava molto a destinazione. – Ad esempio è logico che se uno ha dita gialle sia un fumatore o se esagera con le gentilezze nasconda una bassissima autostima. –

-Sì, ma tu sei capace di vedere due persone vestite uguali e distinguere chi dei due gioca d’azzardo e chi salta i pagamenti! –

-I vizi e i difetti umani influiscono sul modo di vestire e comportarsi molto più di quanto tu creda: i piccoli tic, il modo di porsi, di camminare, perfino di respirare sono plasmati direttamente dalle debolezze del soggetto in questione. –

-Quindi ti basta vedere una persona per conoscerne la debolezza? Se è così, il tizio che ti ha investita che debolezze aveva? –

-La frenesia di compiacere gli altri perché teme di perdere lo status sociale, soprattutto ora che ha appena ricevuto una promozione sul lavoro. –

Agata rimase senza parole, ma se anche ne avesse trovate, la seconda emergenza gliele avrebbe soffocate in gola. Si trattava di…

“I grifoni sono mostri dal corpo leonino e testa e ali aquiline; ne esistono numerose sottospecie con caratteristiche differenti. Alcune venivano usate come cavalcatura nei tempi antichi (ora pressoché estinte), altre come latori di messaggi. Nel secondo caso, i grifoni possono non solo volare ma anche imitare la voce del loro possessore e diffonderla ovunque con una potenza pari o superiore a quella degli odierni impianti di microfonazione. Sono carnivori ma non attaccano gli umani a meno che non glielo ordini il padrone. Per maggiori informazioni sullo status zoologico e giuridico delle specie di grifoni, vedi pag 11”

-ABITANTI DELLA FINE!! UN ATTIMO DI ATTENZIONE. – Gridò la voce dell’attuale monarca sparata a un numero assurdo di decibel… dall’alto? Era così vicina a Sonia e Agata che le due dovettero coprirsi le orecchie. D’istinto ne cercarono l’origine e la trovarono sotto forma di un grifone maestosamente appollaiato in cima al teatro che stavano costeggiando. Era l’edificio più alto di Città della Fine e uno dei pochi che erano riusciti a restaurare. Il grifone, invece, era pasciuto al limite della grassezza, ma gonfiava il petto e le piume lucenti con orgoglio; al collo aveva medaglie e altre chincaglierie tenute insieme da una corda coi colori della bandiera nazionale.

-A PARLARVI È IL VOSTRO RE, GUSTAVO SETTIMO. PER CONTRASTARE I PROBLEMI ECONOMICI DELLA NAZIONE, È STATO DECRETATO CHE TUTTI I DISOCCUPATI TRA I DICIOTTO E I QUARANT’ANNI NON COINVOLTI IN ATTIVITÀ FORMATIVE DOVRANNO ISCRIVERSI A ISTITUTI SCOLASTICI SPECIALI DI PROSSIMA REALIZZAZIONE. –

A questo punto, la voce sembrò calmarsi: il volume rimase alto, ma il tono diventò solenne e si prese qualche pausa per dar modo alle persone di tirare il fiato e realizzare.

Servì: per tutta la città risuonò un forte disappunto, subito mozzato:

-CHIUNQUE SI SOTTRARRÀ ALLE LEZIONI SENZA PRESENTARE PROVE DOCUMENTATE DI UNA NUOVA ASSUNZIONE, SARÀ CONDANNATO AL CARCERE A VITA. LA LEGGE HA VALIDITÀ DA ORA A CITTÀ DELLA FINE IN QUANTO LA SUA IMPLEMENTAZIONE PARTIRÀ DALLE PROVINCE CON I TASSI DI DISOCCUPAZIONE PIÙ ALTI. –

Città della Fine era appunto la zona più povera del paese, talché nessuno osò replicare al riguardo.

-NEI PROSSIMI GIORNI VI SARÀ TUTTO PIÙ CHIARO. AUGURI PER IL VOSTRO, ANZI, PER IL NOSTRO LUMINOSO FUTURO. –

Detto ciò, il grifone si alzò in volo e in meno di un secondo era un puntolino nel cielo.

La notizia portò non poco scompiglio: nessuno voleva tornare a scuola, men che meno in scuole di cui non si sapeva un accidente.

-Chi sarebbero i professori? – Domandò Agata tra una forchettata e l’altra. – E a cosa dovrebbe servire studiare ancora? Il mercato del lavoro non vuole dei geni, gli bastano schiavi a basso costo di facile sostituzione. –

Due ottimi motivi per nutrire dubbi, ma ce n’erano altri e ne discussero a cena:

-Perché il re in persona dovrebbe interessarsi della più disastrata delle sue province? – Considerò Elena.

-Dalla capitale non è mai venuto niente di buono. – Concordò Paolo – A meno che non prendiamo per buone le ciance sul “comune legame nella rinascita del principato”. –

-Vuoi dire il discorso che fanno ogni anno a Natale? – Chiese Agata. – No, anzi, il passaggio nel discorso di fine anno? –

-All’inizio lo prendevano sul serio perché era una tradizione voluta dall’esiliato – spiegò lui, che di storia se ne intendeva – ma adesso è diventato un triste cliché: forse dimenticarsi di questa città e basta sarebbe stato meglio. O se non altro più onesto. –

-Posso assicurarti che nella capitale le persone oneste si contano sulle dita di una mano. – Sospirò Elena.

-E tu cosa ne pensi? – Chiese Agata alla sorella.

Sonia le fece cenno di aspettare: stava richiamando alla memoria tutte le cose infinite che aveva sempre odiato della scuola. Le materie noiose, i professori ingiusti, i troppi compiti, le interrogazioni, i compagni… i compagni! Essere costretta a passare più di cinque ore al giorno in una stanza con venti persone era una tortura indicibile per lei! I posti affollati le facevano orrore e la indebolivano fisicamente per un semplice motivo: i difetti umani non potevano sfuggirle, perciò finiva sempre per sentirsi come una pecora dalla lana candida seduta in mezzo a un branco di lupi. Che puzzavano di letame. Ciechi e confusi. Ignorarli era l’unico modo per sopravvivere.

Passassero le materie, interessanti come una vernice grigia su un muro di cemento senza fine, ma almeno i compagni! Oh, sarebbe mai riuscita a incontrare un’anima pura? Non perfetta, ma almeno senza le macchie enormi e disgustose che non aveva mai potuto fare a meno di notare sugli altri esseri umani? Che patetica bugia quella che aveva raccontato prima ad Agata! La verità era che nemmeno lei sapeva come funzionasse quel potere, sapeva di poter vedere le menti umane e il loro lurido contenuto: il poco di bene che ogni anima aveva, era puntualmente oscurato e lordato dai difetti. Era come vedere pietre preziose allo stato grezzo coperte di cacca incrostata di ruggine, vomito e guano; l’idea di prenderle in mano o anche solo parlarci senza che si dessero prima una buona ripulita la stomacava.

Non aveva avuto altra scelta che soffocare gli impulsi di vomito per tutta la sua vita, persino in famiglia. Suo padre era un uomo noioso e completamente privo di nerbo che senza sua madre a tenere i conti e le scartoffie dell’ostello si sarebbe scordato pure il suo nome. Sua madre era una perfettina che faceva le cose in maniera sbrigativa, credeva sempre di sapere tutto ed era gravemente insufficiente nel settore dell’amore materno. Agata aveva ereditato l’arroganza di lei e la totale mancanza di senso critico di lui, unendole a una cosa che Sonia detestava: l’atteggiamento da sdraiato, alla “boh vediamo come va”, senza slanci, senza aneliti alla gloria, senza niente. Persino suo padre era più interessante!

Ma pazienza per quei tre, ormai era allenata a sopportarli, nel bene e nel male erano la sua famiglia, soltanto tre persone da sopportare, ma la scuola… ricominciare quel ciclo infinito, sterile, inutile e straziante nella certezza che non sarebbe mai stata compresa da nessuno né lì né altrove per il resto della sua esistenza…

-Sonia… - le disse Agata con preoccupazione.

Ecco, sentiva di potercela fare, sentiva che stavolta, all’unire tutte le occasioni di dolore passate, presenti e future, ce l’avrebbe fatta a piangere e sarebbe diventata come loro, un comune essere umano vulnerabile al dolore. Non che ne avesse voglia, ma fin da piccola le ripetevano che piangere e provare dolore erano esperienze importanti che le avrebbero spalancato le sacre porte dell’Empatia e della Saggezza (che, pregava, la avrebbero portata da qualche parte, possibilmente lontano dal grigiore e dalle anime imperfette).

Invano. Non le scese nemmeno una lacrima, mentre la possibilità del dolore svaniva, stemperandosi nella placida malinconia che conosceva così bene.

-Sono tutt’altro che entusiasta, ma so anche che fasciarsi la testa prima del tempo è persino più stupido e più inutile di quel che combinano nella capitale. – Disse Sonia con un sorriso, per poi alzarsi da tavola. – Vado a suonare il flauto. –

-Non hai toccato cibo… - notò Elena, ma la figlia maggiore era già fuggita su per le scale.

-Sai che fa sempre così quando è triste. – Sospirò Agata. – E che odia la scuola. –

-E soffre di una particolare condizione. – Tossicchiò Paolo.

-Vero. – Considerò Elena, ricominciando a mangiare.

Da che Sonia era nata, era un continuo andare e tornare dagli specialisti a capire cosa di preciso non andasse in lei. Dalle analisi era emerso che al cervello mancavano alcune delle sostanze necessarie per azionare correttamente le emozioni; il suo corpo aveva una buona salute per bilanciare, come i ciechi che avevano un udito migliore rispetto ai vedenti. Secondo altri, invece, Sonia era semplicemente nata così, altri ancora sostenevano che traumi non rilevati l’avevano resa inemotiva e via dicendo in un labirinto senza uscita di teorie impossibili da provare.

Ma Sonia vuole veramente guarire e scendere con noi sulla Terra, accanto a tutti gli altri esseri umani? Si domandò angosciata Elena.

Sonia intanto, era già entrata nel suo luogo preferito della casa, anzi, del mondo intero: una soffitta accessibile solo tramite una scaletta a scomparsa. Arrampicatisi su, si poteva ritirarla e rimanere lì, nel silenzio, senza più altri esseri umani intorno. Che pace! Si sentiva già ritemprare le forze.

“Com’è andata, oggi?” Le chiese Doremì, la sua scimmia alata nonché amica e confidente. Immaginaria, ma di maggior conforto rispetto ai suoi stessi familiari.

-Ah, sapessi! – Le rispose Sonia, per poi entrare nei dettagli. Nel mentre si preparò il suo angolino con tutte le cose al loro posto: il flauto, i suoi quaderni di musica, l’astuccio con penne, matite e gomme da cancellare, una poltrona comoda ma strappata in alcuni punti, un sedile rotto per Doremì e una scrivania con tre gambe. Sistematasi, spense la luce e nel buio la sua immaginazione fece il resto, trasformando quella stanza in una reggia. Paggi ben vestiti dall’animo puro le porsero vivande di prima categoria che, purtroppo, non potevano saziarla.

“Sono davvero pessime notizie” disse Doremì con la coda a terra e occhi tristi “che cosa posso dirti se non di farti coraggio? Questo tempo di esilio non durerà per sempre, vedrai che in qualche modo ne verrai fuori; e poi cosa importa se sarai debole durante le lezioni o l’apertura di questa farsa? Sai che in casa ci sono sempre io ad aspettarti!”

-Grazie, Doremì. –

“E poi chissà! In mezzo a tante persone potresti persino trovare l’Anima Giusta!”

Si trattava di una fantasia ancor più sfrenata di quella che aveva dato vita a Doremì: la possibilità di avere un fidanzato bello, profondamente innamorato di lei che avesse l’anima sgombra da difetti, lucente come o più del sole e compatibile con la sua.

-Lo dici solo per consolarmi: in trentadue anni di vita non ho visto una sola anima decente, come posso sperare di trovare qualcosa di buono proprio qua, in tutto questo mondo? –

“Non si può mai sapere, amica mia” la incoraggiò Doremì “intanto cosa ne dici di suonare la canzone della Speranza?”

Sonia aveva dedicato mesi e anni della sua vita alla musica, scrivendo quasi un centinaio di sonate e canzoni. Sfortunatamente, pur suonandole correttamente, le note non riuscivano a soddisfarla. Non era stonata, anzi, andava perfettamente a tempo, eppure… non sapeva spiegarlo nemmeno a sé stessa, le note venivano emesse e basta anziché essere gustate, cullate e rese più vive da… da non sapeva nemmeno cosa. La sua immaginazione non era onnipotente e sebbene nel buio fosse più forte, il suono era al di là della sua portata.

Suonare la Canzone della Speranza da lei scritta le fece bene: avere controllo su almeno una piccola cosa in quel mondo storto la confortò. Poi suonò altre canzoni, con Doremì e i servitori che ballavano, mentre si spalancavano le finestre sui panorami che sognava e avrebbe voluto esistessero: città sospese interamente dedicate alla musica, altre adagiate in pianure rigogliose di fiori, interi continenti dove non esistevano guerre, povertà o dolore e tutti vivevano in armonia. Niente maleducazione o anime impure: soltanto gioia e la quieta perfezione del diamante.

Non era un paragone a caso: Sonia era affascinata da quel genere di oggetti fin dai tempi di una gita all’asilo. Nel visitare uno dei pochissimi edifici restaurati, avevano fatto loro vedere la dimora dell’Esiliato, piena di pietre preziose. Diamanti, ma anche ammennicoli in vetro finemente lavorati che con la loro bellezza sembravano piovuti da un altro mondo, un mondo dove la mancanza di soldi non era un problema e le brutture morali e fisiche non esistevano. Com’era possibile che gli umani potessero creare simili gioie?

Sonia si ritrovò a porsi questa domanda più e più volte nel corso dei giorni seguenti. Prima che qualcuno potesse dare corpo alle proteste, le scuole per i disoccupati sorsero dal nulla, come funghi dopo una notte di pioggia: si trattava di manieri nobiliari riadattati, pieni di corridoi, saloni e tappeti inframezzati da scale, ascensori e numerosi vicoli ciechi interni. Per qualcuno privo di orientamento e senso pratico come Sonia, era impossibile orientarvisi. Non aiutava che sua sorella non fosse con lei: come per le scuole dell’obbligo, le classi erano divise per età e lei e Agata, pur essendo nella stessa struttura, frequentavano corsi diversi. Un altro problema era che, come nelle università, toccava agli studenti spostarsi per raggiungere le aule giuste, cosa che provocava a Sonia continui ritardi e note sul registro. Già frequentava di malavoglia quelle materie strane quanto noiose insegnate da professori noiosi con compagni indegni di interesse, figurarsi sentirsi urlare addosso dai secondi! Che colpa ne aveva lei se i corridoi erano tutti uguali e alcuni finivano nel nulla?

Ma agli insegnanti questo non importava e un giorno quello di storia la minacciò di interrogarla tutti i giorni se avesse ritardato ancora una volta. Sfortunatamente, volere non era potere e Sonia ben presto si ritrovò a correre contro il tempo e uno spazio poco collaborativo per prendere l’ascensore giusto. Provò a urlare, ma l’occupante (che era proprio il docente in questione) non la sentì e le porte si richiusero.

D’accordo, niente panico si disse, per poi ricordarsi che dall’altra parte di quello stesso piano (terra) c’era un altro ascensore. Vi si precipitò e premette subito il pulsante. Proprio mentre tirava un sospiro di sollievo, si accorse che l’ascensore scendeva.

E lei aveva la lezione al settimo.

A guardarla bene, quella cabina ascensore era diversa rispetto alle altre: i pulsanti erano sistemati diversamente e invece di essere polverosa e anonima, profumava di pulito, mandava una musica celestiale ed era fatta di specchi tirati a lucido. Le sue lastre erano così pulite che Sonia poteva vedersi meglio che negli specchi di casa: la sua anima era candida e del tutto priva di scorie, ma non scintillava. Si vedeva come un diamante grezzo nella polvere; quella patina grigia addosso la metteva a disagio e per questo, pur sopportando la sua immagine riflessa molto più della vista di altri esseri umani, a un certo punto doveva comunque distogliere lo sguardo.

L’ascensore scese ancora e non appena fu abbondantemente sottoterra il suo riflesso sparì, sostituito da una scoperta incredibile: un cielo azzurro, estivo, rutilante e pieno di colori infinitamente più belli e vivi di quelli di Città della Fine. Non erano specchi, ma vetri a comporre la cabina! Quanto dovevano essere lucidi per sembrare specchi? Ma soprattutto, cos’era quel posto?

La cabina era diretta verso una piccola piazza nel chiostro di un edificio in stile classico circondato dal verde. Quant’erano magnifici quei giardini pieni di fiori! Com’era rigogliosa la natura e com’era bello quel palazzo! Doveva essere un hotel a cinque stelle.

La discesa si interruppe con dolcezza, le porte si aprirono e salì un giovane. Sembrava uscito da un vecchio film di quelli che Sonia amava tanto, dove gli uomini erano tutti gentiluomini alti, bellissimi, educati, ben vestiti e dall’animo puro. I suoi denti erano la cosa più bianca che avesse mai visto, semiaperti in un sorriso appena accennato diretto a lei. Forse si era accorto della maniera in cui lei lo stava fissando, ma non le importava: voleva soltanto godersi quello spettacolo senza eguali. I suoi capelli erano acconciati in modo maschile, corti, folti e ben disciplinati; le sue mani erano avvolte dai guanti che componevano la sua divisa. Oltre a calzargli a pennello, quest’ultima gli dava un’aria marziale ma non aggressiva, da gigante buono. Il suo volto era proporzionato, gentile e senza alcuna imperfezione, ma la cosa più straordinaria (di cui non si era accorta subito perché abbagliata dalla contanta bellezza materiale) era la sua anima. Era priva di qualsiasi genere di scoria e splendeva come il sole; sentì distintamente il calore di quella stella spazzarle via ogni singolo granello di polvere grigia sull’anima e a pulizia finita, Sonia seppe col massimo grado di certezza che erano compatibili.

Era l’Anima Giusta!! Così, dal nulla, in modo così soavemente inaspettato! Colta di sorpresa al massimo grado, Sonia si ammutolì e non ebbe la presenza di spirito di seguirlo quando lui, giunto proprio al settimo piano, uscì.

Rimase immobile in quella posizione per cinque minuti di fila, prima di riattivarsi: andare a cercarlo o… perché aveva preso l’ascensore? Ah, sì, il professore di storia!

Che lavata di capo, le fece. Non che essere umiliata davanti a tutti fosse un gran problema, visto che non si curava né dei compagni, né di cosa pensassero di lei. No, a seccarla era il fatto che le interrogazioni (sue o altrui) erano noiose come e più delle lezioni stesse.

-L’Inquisizione venne creata dalla Chiesa come mezzo per tenere sotto controllo i mostri immateriali dell’orrore menzionati in un mucchio di vecchie storie in cui si smise di credere solo con l’avvento del materialismo. – Scandì lei senza nascondere la malavoglia. – Col passare dei secoli, l’inquisizione (chiamata così perché per capire di che mostri si trattassero doveva porre molti quesiti alla gente) divenne uno strumento di controllo sui fedeli e sulla politica dei paesi, adottando la tortura già comunemente usata nei tribunali secolari. Dopo qualche guerra e dei casini, l’Inquisizione si sciolse, diventando l’Ordine dei Cacciatori di mostri con rami in tutte le nazioni e gente di ogni religione, diventando un autentico e luminoso esempio di inclusione e cooperazione prima ancora degli Stati odierni, che continuarono a perseguitare i mostri e imporre politiche nazionaliste fino alla Guerra Mondiale. Oggi i Cacciatori sono un’organizzazione internazionale che si occupa dei diritti dei mostri, di tramandare le tecniche per mantenerci in buoni rapporti con le specie alleate e tenere a bada le poche cattive che sono rimaste. –

Silenzio.

-Ti avevo chiesto la storia dell’Inquisizione dalle origini ai giorni nostri. – Ringhiò il professore.

Sonia sbatté le palpebre senza capire (o che gliene importasse qualcosa).

-I dettagli! – Aggiunse il docente.

Sonia alzò le spalle:

-Erano questi i dettagli. –

Qualcuno applaudì, ma non l’insegnante:

-Cinque! Sei un’ignorante, ma almeno hai una vaga idea di quello che dici! – Gridò, schioccando un’occhiataccia allo studente che il giorno prima aveva preso un tre.

Ma tutto ciò che premeva a Sonia era correre a casa e raccontare tutto a Doremì… che fosse il caso di farlo anche con Agata? Era la prima volta che le capitava qualcosa di eccitante e smaniava per condividerlo con qualcuno, fosse anche in carne e ossa, tanto per cambiare. Chissà, magari Agata l’avrebbe sorpresa con osservazioni o consigli migliori/più acuti rispetto a quelli di Doremì.

-Un ascensore? – Le chiese svogliatamente la sorella – Sicura di non essertelo sognato? Non ne avevo mai visto uno, in quel punto. Dammi retta, ti sei assopita durante la lezione e hai visto cose. – Sbadigliò. – Non ti giudico. Succede anche a me. –

O forse no.

-Ti dico che era reale! Ho tanta immaginazione, ma non così tanta! –

Decise infine di tornare all’ascensore trascinandosi dietro Agata. Non poteva tollerare che il suo atteggiamento realista e da sdraiata le rovinasse la cosa più bella che le era mai capitata nella vita! Come osava anche solo insinuare dei dubbi? Da anni coltivava la speranza di poter destare il suo spirito, quale occasione migliore che mostrarle la Bellezza?

Il giorno dopo ritrovarono l’ascensore nonostante la contrarietà di Agata che non lo vedeva, ma non appena cominciarono a scendere, Agata diventò pallidissima e fu sul punto di dare di stomaco. Furono costrette a fermarsi al piano terra (e anche in quel modo la sorella non raggiunse il bagno in tempo). Sonia ne ricavò una pesantissima lavata di capo, manco avesse fatto chissà cosa e una ancora più pesante non appena tornata a casa.

-Da che mondo è mondo le brave sorelle si prendono cura l’una dell’altra! – Gridò Elena, incurante di essere udita dall’intero ostello – Tu invece, cosa fai?! Oltre a prendere pessimi voti, te la tiri addietro nelle tue bravate! Cosa rispondi, cosa fai, cosa ti passa per la testa?! Hai trent’anni ma neanche un grammo di cervello?? –

Paolo si guardò bene dall’intervenire: far ragionare sua moglie in quello stato era impossibile quanto pericoloso.

A riuscire nell’impresa fu un timido tocco di Agata sulla spalla della madre. Elena si zittì.

-Mamma… - fiatò Agata – posso parlarti un momento di là? Anche a te, papà. –

I due si guardarono e accettarono, mentre Sonia, per niente turbata, continuò a mangiare per conto suo.

-Riconosco il tipo di nausea – disse Agata ai genitori – è la stessa che mi ha preso quella volta che siamo passate, sai mamma, per quel vicolo buio con un brutto odore dove la gente assume sostanze? –

L’altra annuì.

-Era la stessa sensazione ma molto più forte, secondo me… -

-Tua sorella non assume droghe – la smentì Elena – lo so perché lo sospetto da anni, ma nessuno dei suoi abiti porta quell’odore. Però… -

Due minuti più tardi, la sua famiglia tornò e Sonia vide le loro anime persino più lerce del solito. La riconosceva. Era l’atmosfera delle patetiche bugie dette “a fin di bene”, quelle pronunciate col sorriso falso e la pretesa di sapere tutto.

-Sonia, tesoro – disse la madre con la voce più zuccherosa che le riuscì – capiamo ciò che hai visto e che stai passando un brutto periodo, con la scuola che non ti è mai piaciuta, il licenziamento e tutto il resto. Noi continueremo a starti vicini e a sostenerti… -

Per continuare bisogna avere prima iniziato pensò Sonia, che si trattenne: senza quei tre non avrebbe avuto nessun posto da chiamare “casa”.

-…perciò, ti prego, aiutaci ad aiutarti. Innanzitutto, dove hai visto quell’ascensore? –

Era una trappola e non serviva nemmeno un genio per capirlo. Una qualsiasi altra ragazza innamorata avrebbe cominciato a urlare che non avrebbe mai svelato a nessuno la posizione dell’unico mezzo in grado di portarla al suo amore e che ci sarebbe tornata, con o senza il loro permesso.

Ma Sonia era immune alla rabbia:

-In un sogno. – Disse nella voce più tenera che poté. – È stato davvero un sogno, quando sono scesa e ho visto il cielo e la mia anima gemella. Più passano le ore e davvero, più mi sembra un sogno. –

– Pensavo avessi detto… - obiettò Agata.

-So quello che ti avevo detto prima sul fatto che era reale ma, ripeto, ora a ripensarci sembra davvero un sogno per come è distante dalla realtà che ho sempre conosciuto. Fantastico un po’ troppo e non ci sarebbe niente di strano se la mancanza di sonno e la noia che provo durante le lezioni mi avessero giocato un brutto scherzo. Mi dispiace se sei stata male. E per quanto riguarda i voti, ammetto che potrei impegnarmi di più. –

In qualche modo, Sonia riuscì a replicare l’espressione composta che aveva imparato ad assumere quando le presentavano nuove persone e lei doveva fingere in modo convincente di non aborrirle.

-Lieta che sei tornata tra noi. – Sospirò Elena. – Detto ciò, dov’è l’ascensore? –

-Ammesso che non me lo sia sognato, in un corridoio al primo piano, credo, ma sai che ho un pessimo orientamento. –

-In tal caso, Agata ti ci riaccompagnerà, così che possiate parlarne al preside ed evitare che altre persone possano soffrirne. –

-Un nobile scopo, madre. – Commentò Sonia con voce inespressiva.

-Oh, tesoro – disse Elena – quante volte ti devo dire di chiamarmi “mamma” e che mi sforzo sempre di agire per il tuo bene? –

La abbracciò, ma Sonia rimase immobile come un pezzo di ghiaccio. Non appena ebbe le sue orecchie a portata di bocca, vi sussurrò:

-Guarda che ti vedo, quando prelevi dei campioni della mia pipì per fare il test antidroga. –

Il sussurro era abbastanza forte perché lo sentissero la madre, la sorella e il padre ma non i clienti.

“Un gesto coraggioso!” Applaudirono i servitori. “Quell’arpia non merita un secondo del tuo tempo né delle tue preoccupazioni!”

“Può essere” concesse Doremì “ma ricordatevi che è una semplice umana e fa quello che può, con l’anima sudicia che si ritrova (o almeno credo).”

-Questo non giustifica il suo atteggiamento da so-tutto-io – Sbuffò Sonia. – Anzi, dovrebbe spronarla a una maggiore umiltà. –

“Fatti coraggio! Hai pur sempre trovato l’Anima Giusta!”

Sonia sorrise: la sua migliore amica sì, sapeva come consolarla! La sola immagine del suo futuro lui riportò il suo umore alle stelle: che cosa bella essere innamorati! Di qualcuno così degno, poi! Mica di un belloccio senza sostanza o di un tizio noioso come…

La voce del padre la chiamò:

-Sonia! Possiamo parlare? –

Veniva dal pavimento e, purtroppo, era reale. Con un sospiro, Sonia riaccese la luce, scacciando la sua amica più cara.

C’era un passaggio che collegava la soffitta allo studio paterno e Paolo lo aveva appena usato. Sonia dovette comunque aprirgli:

-Vuoi farmi presente che anche se mia madre sbaglia lo fa per il mio bene e quindi è giustificata? –Lo incalzò – O vuoi farmi pesare il fatto che alla mia età non sia ancora fuori casa? O… -

-Con tua madre ci ho parlato e sono d’accordo con te che ha davvero esagerato. – La prevenne. Finito di salire su per la scala, Sonia lo vide in faccia e capì che era sincero. Si lasciò sfuggire un sorriso. – Posso capirti: l’unica fonte di reddito che io abbia mai avuto è questo ostello dove hanno lavorato anche mio padre, mio nonno e chissà quanti altri antenati. Di questi tempi e soprattutto in questa città, nessuno può pretendere che un trentenne sia già sistemato. O che abbia un modo di essere che non gli appartiene: non tutti nascono o sono tenuti a essere estroversi, brillanti, sempre con le risposte in tasca… è per questo che lavoro con un piccolo team di persone che possano controbilanciare i miei punti deboli. –

-Quindi non sei masochista? – Si sorprese Sonia. – Ho sempre pensato che lo fossi per sopportare Elena così a lungo. –

Paolo mandò uno sbuffo vicino a una risata:

-Beh, Elena è stata la mia segretaria prima di essere mia moglie; anche se a volte è un po’ rude, è una persona affidabile disposta a smuovere mare e monti per quelli a cui vuole bene. –

-Mi dite tutti che è preoccupata per me, ma io vedo soltanto un’arrogante che vuole controllare tutto e crede di sapere tutto. –

-Tenere sotto controllo i clienti, la documentazione e mille altre cose è sempre stato il suo lavoro, non dobbiamo sorprenderci se è anche un suo difetto. D’altro canto ciò che ha fatto non è giustificabile e lo so bene perché è successo anche a me. –

A Sonia cascò la mascella: suo padre, uno degli individui più tranquilli e lucidi che conoscesse… sospettato di far uso di sostanze?!

-La mia prima ragazza non si capacitava che passassi tanto tempo a fantasticare e leggere libri. – Sospirò Paolo. – Quando lo sono venuto a sapere ci siamo lasciati ed è stato meglio così. Il mio errore è stato di isolarmi; se dopo non avessi incontrato tua madre e altri validi collaboratori, l’ostello avrebbe chiuso e non so cosa ne sarebbe stato di me. – La guardò negli occhi. – Non pretendo che tu cambi il tuo atteggiamento con la scuola, né tantomeno il tuo modo di essere: il primo è legittimo, il secondo mi piace. Ti chiedo, anzi, ti supplico solo di non isolarti: avere a che fare con le persone è difficile, ma con dei buoni amici la vita è molto più agevole. –

Sonia era a bocca aperta; l’anima del padre le appariva grigia e indegna di interesse come sempre, eppure Paolo le stava offrendo conforto, consiglio e una cosa che lei aveva sempre desiderato invano: accettazione.

Forse è un difetto vedere le imperfezioni ma non i lati positivi delle persone. Rifletté. Aveva sempre postulato che ogni umano avesse qualcosa di buono in sé, ma ciò a saltarle all’occhio fino a coprire il resto erano sempre e solo le impurità. Era come se una cantante bravissima si esibisse in un locale affollato e rumoroso: il bellissimo canto esisteva, ma era coperto dagli schiamazzi e dai pettegolezzi urlati.

-Grazie, papà. – Disse Sonia. – Sei quello che odio meno, qua dentro. –

-Non odiare mai, figliola. – Le rispose il padre, abbracciandola. – È solo energia sprecata. –

Sonia ricambiò il gesto e prese in seria considerazione l’idea di essere meno scostante con le persone. Sfortunatamente, nessuna di queste due cose la protesse dal vuoto. Non era sufficiente, non lo era mai stato nemmeno ai tempi in cui era bambina, figlia unica, prima che nascesse Agata. Era una sete di amore che niente aveva mai potuto colmare, come avere un deserto che si ingrandiva e nulla poteva infertilire al posto del cuore. Le gocce che le vennero versate sul cuore da Paolo le fecero bene, ma non bastavano.

In fin dei conti, perché sforzarsi di vedere il bene delle persone se queste facevano l’impossibile per mascherarlo? Perché accettare il grigio se all’orizzonte, anzi, giù da un ascensore, la aspettava qualcosa di più promettente di un intero arcobaleno?

   
 
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