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Autore: TonyCocchi    03/10/2009    4 recensioni
"Ora cosa le restava?"... Quando le disgrazie arrivano a impedirci di vedere che la luce resta sempre accanto a noi.
Genere: Malinconico, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hinata Hyuuga, Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti, lettori abituali e nuovi!

Non avevo in programma altre fanfic prima di iniziare i miei corsi all’università, però questi giorni sono stati alquanto prolifici per la scrittura e ho voluto concluderli in bellezza. L’ispirazione mi è ronzata in testa mentre guardavo uno dei nuovi episodi del Dottor House (che grandissima serie!), e quindi non aspettatevi qualcuna delle mie solite fic allegre e coinvolgenti, perché credo risulterà alquanto pesante, specie all’inizio. D’altronde suppongo abbiate dato un’occhiata ai generi nell’introduzione.

Buona lettura, spero vi piaccia.

 

 

 

 

 

La voglia di non desiderare mai più nulla.

Sentire di non poter provare più niente, nemmeno il dolore.

La più cupa apatia in cui va a rifugiarsi un cuore che si trascina, stanco, a battere ormai solo per abitudine, non per voglia di vivere.

La sua era scomparsa, insieme a tutto il suo mondo.

Insieme a lui.

 

I rumori dell’ospedale sono distanti e vaghi, come le pareti della sua stanza fossero insonorizzate.

Disperazione, rabbia, rimpianto, sofferenza, sono come quei suoni, atoni: bussano flebilmente alle porte di un anima in cui avrebbero tutto il diritto di entrare, ma non apre loro. Non ne ha la forza, ed è la sua più grande fortuna.

Guarda il soffitto, la lampada sul comodino accanto il suo capezzale, le sue mani, il suo corpo coperto dal lenzuolo bianchissimo come fossero la stessa cosa, e le procurano la stessa identica sensazione di indifferenza.

In fondo il suo non era un caso così speciale: la vita è crudele, tanti e tante altre, come lei, l’avevano vista ridursi a vuota recita drammatica in un battito di ciglia. Ci pensava per tirarsi un po’ su, ma senza riuscirvi.

Il giorno più felice della sua vita si era trasformato in quello più orrendo.

Era stato ieri.

 

Ventiquattro ore o forse meno distesa sul letto senza alzarsi, rinchiusa tra i bordi di una scatola con una finestra vista tramonto. Nella scatola accanto, ventiquattro ore prima e forse più aveva urlato con quanto fiato aveva in corpo, aveva affrontato la prova più dura della sua vita: lui non era però lì con lei.

Eppure, nonostante il suo sole fosse altrove, aveva dato tutta sé stessa per farcela, perché non voleva mai deluderlo, perché voleva, quando finalmente sarebbe arrivato da lei, trafelato per la corsa e mortificato per il ritardo, sentirsi dire da lui quanto era stata brava mentre le carezzava una mano.

Poi si sarebbero baciati, ed anche se esausta avrebbe avuto la forza di tenere gli occhi aperti per guardare, e le braccia sollevate per abbracciare il fiore del loro amore appena sbocciato.

 

Invece, appena dopo il parto, quando con la testa che ancora girava per il sollievo, aveva chiesto dov’era suo marito, non aveva ottenuto risposta.

Evidentemente la notizia era già giunta ai medici. E si era subito rifiutata di capire.

 

Poi, recata da una messaggera fidata affinché fosse meno amara, la crudele medicina era stata somministrata anche a lei, non senza la commossa partecipazione di quanti lì intorno avevano pena di lei, povera disgraziata, o avevano tanto ammirato o amato lui quando era in vita.

 

Ma nessuno lo aveva mai amato quanto lei.

E le urla, e i tentativi di calmarla respinti a feroci unghiate e gemiti sempre più forti furono la conseguenza più logica e più insensata: la scena madre immancabile quanto folle.

 

Passata la tempesta era giunta la calma piatta. Il vero motivo per cui si trovava in quell’ospedale passò totalmente in secondo piano nella mente di tutti.

I suoi amici, la sua maestra, i suoi parenti: venivano con ordine a farle visita, sgombrando dal loro cervello le congratulazioni gioiose e a volte spiritose che avevano pensato nei giorni precedenti, scoprendo con sorpresa che le parole per consolare si trovano con più facilità di quelle per far ridere. La vera difficoltà sta nel pronunciarle. E nel mettersi in testa che sono del tutto inutili.

Si avvicinavano a lei ed avevano tutti la sensazione che una rete di filo spinato la circondasse.

Qualcuno andò via muto e a testa bassa, qualcuno a denti stretti, qualcun altro che ancora cercava di farle pervenire qualche buona parola, arrivando persino ad urlare; e lei le lasciava uscire dall’altro orecchio.

 

 

Ventiquattro ore senza ascoltare.

Ventiquattro ore senza parlare.

Senza mangiare.

Senza bere.

Forse anche senza pensare.

 

L’unica riflessione che in quell’eternità le aveva tenuto compagnia era che dopotutto doveva aspettarselo.

Lui aveva vissuto per dimostrare che si può cambiare il proprio destino. E ci era riuscito.

 

Aveva vinto il proprio destino di uomo e di forza portante.

Ma non era scampato al proprio destino di Hokage.

 

La sua paura più grande. Che errore era stato dimenticarla.

Non è scritto che un Hokage possa morire in pace, nel proprio letto, circondato dall’affetto della moglie, dagli amici di una vita, dai figli e dai nipoti, la discendenza di cui è stato fiero e che lo conforta nell’ora dell’addio, mostrandogli come la sua esistenza sia servita a qualcosa.

No, si ripeteva.

Arriverà la guerra, prima o poi. Arriverà il pericolo per cui ci sarà bisogno di sacrifici; ed essere il più forte e il più importante, o solo una brava persona, anche la migliore del mondo, non ti esenterà dall’immolarti sull’altare di un mondo profondamente ingiusto con una storia inevitabilmente violenta e crudele.

 

Una volta aveva pensato a queste cose, ne aveva parlato anche direttamente con lui; per rassicurarla avevano fatto l’amore, tipico di lui che non voleva mai si preoccupasse, che l’aveva sempre difesa con tutte le sue forze dal dolore col suo sostegno a lei così caro.

A sua volta non mancava di sdebitarsi, facendosi anche lei sostegno per lui in quei momenti in cui la sua maschera sicura e infaticabile cedeva ai colpi del dubbio e della stanchezza e veniva fuori il ragazzo bisognoso che era dentro. Riconoscere di dipendere da ciò che gli donava con tutto il cuore fu proprio ciò che lo portò ad innamorarsi.

 

 

Quanto era stata grande la sua gioia quando era arrivato ad amarla.

Tutti quegli anni che aveva perso per paura di esprimere ciò che sentiva, e tutte quelle sere a sospirare per il rimpianto: finalmente anche lei veniva ripagata! I suoi sforzi per cambiare sé stessa ricevevano la giusta ricompensa.

Essere ricambiata.

 

Ora cosa le restava?

 

Qualche anno vissuto felicemente prima che glielo portassero via; ma quando i ricordi felici diventano dolorosi che via di scampo si ha?

Quando tutto si conclude nel modo peggiore, dopo si può, ancora una volta, rialzarsi?

Entrambi avrebbero risposto con sicurezza: si.

Lei, rimasta da sola, osava dare quella stessa risposta.

 

Ora cosa le restava?

 

Le avevano detto, e le avrebbero ripetuto fino alla nausea, la loro o la sua, che era morto per compiere il proprio dovere, per ciò in cui credeva, per ciò che amava.

Buffo, erano parole che lei stessa avrebbe certamente rivolto ad un’amica nelle stesse condizioni.

Ma ora che era lei la destinataria di quelle bellissime frasi fatte, e ribolliva di collera a sentirle, capiva quanto il dolore renda egoisti anche le persone come lei che hanno fama di essere sensibili e dolci.

 

Ora cosa le restava?

 

Una gran voglia di dimenticare. Di far finta di non trovarsi lì, di non aver mai partorito, di non essersi mai innamorata di un tale di nome Naruto. Una gran voglia di star lì distesa, immobile e zitta con gli occhi spenti, fino a che il mondo non si fosse dimenticato di Hinata Hyuga.

 

Si, ora che era diventata egoista lo sarebbe stata fino in fondo: avrebbe continuato ad ignorare le visite, a lasciare che il pranzo si raffreddasse e che la polvere si accumulasse sulla bottiglia d’acqua e sui bicchieri di plastica, finché di fronte alla sua ritrosia si sarebbero stufati anche di nutrirla per endovena, e finalmente l’avrebbero lasciata in pace.

In pace.

 

In qualche momento di lucidità si era detta che non ragionava. Che i suoi pensieri erano quelli di una pazza. Che stava rinnegando l’insegnamento più grande che Naruto le aveva dato.

Credi.

 

In te stesso.

Nella bontà altrui.

In Dio magari.

Nella fortuna che torna a girare

Nel futuro.

 

 

-Quale futuro?- si domandò

Batté le palpebre sui suoi occhi congestionati dall’incapacità di piangere: dopo l’eclatante sfogo seguito allo shock del giorno prima non aveva più versato una lacrima.

Le batté ancora, e i suoi occhi restarono secchi e continuarono a bruciarle.

 

Quegli occhi, dono della sua famiglia, potevano vedere ogni cosa, oltre le cose, attraverso di esse.

Lei guardava oltre, attraverso il suo futuro, e non vedeva che una donna distrutta, troppo debole e affranta, troppo macerata dai ricordi dell’amore perduto per vivere in serenità il tempo che le restava.

Già si vedeva, icona di desolazione, rampicante senza più sostegno destinata ad appassire, di nuovo insicura e fragile, troppo per prendersi cura della sua bambina.

Che razza di madre sarebbe stata?

Meglio non provarci. Quella bimba che in quel momento doveva starsene dimenticata da tutti a dormire in qualche culla del reparto maternità non era la risposta. Né lei faceva al caso suo.

 

I suoi occhi, non le mostravano nulla.

 

 

Si accorge che sta arrivando. Il suo arrivo è sempre anticipato da un forte rumore di tacchi: più facevano rumore e più la cadenza era rapida, più era arrabbiata.

Si tratta di una persona che coi nervi a fior di pelle riesce a intimorire chiunque.

Non che questo basti a smuovere una che si è messa in testa di non sentire più niente. La testa le ondeggia appena un po’ sul cuscino, e quando la porta di botto si apre non è lei a sobbalzare, ma Sakura ad impressionarsi del gelo che si prova semplicemente dando un’occhiata dentro.

Hinata guarda fisso innanzi a sé. Con la coda dell’occhio la scorge appena, e non si degna di girare il capo anche di un solo centimetro nella sua direzione.

Può capirla, del resto era quella che le aveva portato la notizia.

Ma non è per lei che vuole che si giri, non è per lei che deve farlo; così si fa avanti, e compare a forza davanti i suoi occhi velati.

È imponente, anche grazie ai sandali neri con il rialzo alto della suola: il camice da medico scende fino alle ginocchia e drappeggia ad ogni suo passo, insieme ai lunghissimi capelli rosati.

“Guardami.”

Ha un fagotto di fasce tra le mani, e la sta puntando con gli occhi verdi stretti in una maschera di collera: sembra incarnare quanto di vivo vi sia tra le mura di quella scatola.

“Guardami, Hinata!”

Ha alzato troppo la voce, e il fagotto si mette a piangere rumorosamente.

Sakura ora tace, ma non cambia espressione.

Neanche Hinata.

In compenso, almeno un po’, si gira.

“Ti decidi a reagire?”

Ventiquattro ore di inerzia depressiva totale non sono serviti a scoraggiarla dunque, pensa la Hyuga.

Come solo accenna a guardare verso la finestra lei urla di nuovo.

“Ho detto guardami!”

Sbuffa in risposta, è infastidita.

“Anzi, guarda lei!”

D’un tratto il tramonto lì fuori non è più così interessante.

“Questa, Hinata, è tua figlia.”

Scandisce ogni parola. Le parla come una maestra che insegna all’alunno i nomi delle cose che non conosce.

Ma l’alunna non sembra affatto curiosa.

Il pianto intanto continua, sempre più acuto. Piccole mani mulinano a scatti nel vuoto in cerca di qualcosa, di qualcuno.

Sakura avanza: digrigna i denti, e attraverso essi articola poche semplici parole.

“Questa è tua figlia, ed ha fame.”

Ormai le sono accanto: la dottoressa sua amica e cara compagna di suo marito, e la morbida massa di carne e cartilagine che le ha fatto patire l’inferno mentre usciva da lei.

Il pianto ormai è nelle sue orecchie: attraversa la sua sgombra mente come un chiodo nel suo cranio. Non lo sopporta. Stringe i denti anche lei, e non guarda.

“Ha bisogno di te.”

Per un istante gli occhi pesti di una nottata insonne si sgranano, e alla dottoressa questo non passa inosservato. Prende coraggio e prova a parlarle senza digrignare troppo le zanne.

“Fa ciò che devi fare.”

Un ordine gentile. Un incoraggiamento. Una preghiera.

Hinata finalmente guarda la bambina.

Gliela sta porgendo.

Dallo sguardo, Sakura sembra pronta ad afferrarle i polsi e costringerla a prendere quel fardello, ma non ce n’è bisogno.

Timidamente, le mani, tremolanti per la mancanza d’energie, si alzano, e le braccia avvolgono con incertezza. Come sorpresa da un tocco nuovo la piccola si interrompe, ma è una pausa breve.

La guarda, per la prima volta da quando è piombata lì, per la prima volta non chiude in faccia la porta a chi le sta accanto: è confusa, implora per un altro aiuto.

L’amica allora inizia a sbottonarle la camicetta; le afferra i polsi, ma non c’è nessuno strattone: con tanta cura la guida, fa si che porti la piccola dove vuole arrivare.

 

A quel punto fa tutto lei: l’intraprendente neonata muove la testolina verso il capezzolo e finalmente tace.

Ora che i suoi lamenti non le spaccano più il cranio, la osserva più attentamente mentre sugge da lei. Sembra morbida, ma sgraziata, come fatta di palloncini annodati.

È tutta rossa, ma ha qualche piccolo filo giallo paglia che spunta dalla testolina.

Non le sembra poi questo granché: una piccolissima scroccona che, in cuor suo, non sa ancora con che occhi guardare.

 

Mentre sta ancora decidendosi, lei la anticipa.

Improvvisamente le ciglia nere si sollevano, e due occhietti si spalancano, molto lentamente.

 

Colta come da un improvviso giramento, allenta la presa.

Sakura è sgomenta.

Gocce cadono sulle lenzuola.

 

 

Non è latte.

 

Lacrime.

Escono come fosse cosa naturalissima. Senza singhiozzi, senza far rumore, come gocce leggere di pioggia scorrono su un viso senza ombra di tristezza, ma sconvolto dalla sorpresa.

 

L’aveva sentita nutrirsi grazie a lei, aveva sentito le sue labbra contente.

Ma soprattutto, aveva visto.

 

Azzurri! Aveva gli occhi azzurri!

Due tondini color del cielo che si erano spalancati su di lei. Curiosi e circospetti avevano incrociato il suo sguardo e quando era successo aveva sussultato ed aveva iniziato a piangere senza accorgersene.

 

Occhi appena arrivati, non bianchi che guardano attraverso, ma azzurri che guardano avanti, e quando c’è un ostacolo lo scavalcano, illuminati di fantasia e di speranza.

Occhi come i suoi.

Vivi, vispi: le erano bastati pochi secondi prima che le palpebre cadenti li nascondessero di nuovo per capire tutto questo. Quel brevissimo sguardo le aveva ridato la possibilità di pensare a un futuro: un futuro in cui non era sola, in cui l’amore della sua vita continuava a viverle accanto.

 

 

Il tocco di una mano sulla spalla la svegliò dal sogno nato dall’incubo.

“Molto brava, Hinata… Brava.”

Fu allora che il suo pianto divenne degno di tale nome: forte, strozzato dai singhiozzi, liberatorio; e la spalla di Sakura fu lì ad accoglierlo in un abbraccio.

 

I singhiozzi spezzavano i gemiti, i gemiti non spezzavano il suo sorriso rinato: lo rivolse alla sua creaturina, dedicandoglielo insieme a tutta la sua vita da quell’istante in poi.

 

Il viso sorridente di Naruto si focalizzò nitidissimo senza arrecarle alcun dolore.

Le rammentò che l’insegnamento più grande che le aveva dato, credi, non aiuta chi rinuncia.

 

Naruto non si arrendeva mai.

La piccolina succhiava senza fermarsi.

E nemmeno lei la lasciava andare.

 

 

Non mollare, devi credere.

Credi, non devi mollare.

 

 

“Dai, non vuoi aprire ancora una volta i tuoi begli occhietti?”

 

 

 

 

 

Angolo dell’autore

Sto pensando di modificare leggermente questa storia per farne un’altra versione “realistica”, non ambientata nell’universo di Naruto ma nel nostro mondo, dove cose di questo genere possono benissimo accadere.

Ho voluto mostrare come le esperienze negative, specie quelle che ci provengono da un fato cinico, possano indurre nelle persone, anche quelle più altruiste, un rifiuto totale del mondo che li ha delusi, una chiusura a tutto, anche a ciò che potrebbe salvarci. Ma fin tanto che intorno a noi avremo persone pronte a darci una mano, e troveremo il coraggio di credere in loro, i nostri occhi si riapriranno sempre. Ho cercato di trasporre qui quelle che sono le grandi lezioni che questo manga mi ha ispirato, tra cui appunto credere che nell’altro puoi trovare conforto, stima, e motivazioni per vivere, accettando sia il bene che il male.

Hinata ha visto negli occhi della figlia il suo futuro e il suo passato, Naruto, che credeva perduto (da cui il titolo), e si è resa conto di aver sbagliato a credere di aver perso tutto. La sua vita continuerà, e il mondo avrà ancora un esserino biondo con gli occhi azzurri a rallegrarlo e a spronarlo verso nuovi migliori traguardi.

Sono riuscito a commuovervi, cari lettori? ^__^

Pensate un po’ che per immedesimarmi nell’atmosfera ho sentito a ripetizione “Stacks”, di “Bon Iver”, la canzone che sta in sottofondo nella puntata di Dottor House in cui muore la fidanzata di Wilson (una delle poche volte che ho pianto davanti la tv): la musica resta un’impareggiabile fonte di ispirazione! Spero di non aver recato confusione con i tempi verbali: a scanso di equivoci, la fic è narrata al presente, tranne quando ovviamente si parla degli avvenimenti passati rievocati dalla protagonista.

Un saluto, e alla prossima storia!

PS: NARUTO X HINATA ORA E SEMPRE!



  
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