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Autore: Ely79    18/10/2009    3 recensioni
Per i suoi amici, Jill vive una vita tranquilla ed ordinaria. Ma che direbbero se sapessero che lavora al Ministero della Magia? Ecco una sua "normale" giornata di lavoro, tra scartoffie, bacchette e colleghi un po' speciali.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Harry Potter, Hermione Granger, Nimphadora Tonks, Nuovo personaggio, Remus Lupin
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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- Questa storia fa parte della serie 'Ministero della Magia'
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Dalle 8 alle 11
Odio la metropolitana. Non so che farci, a parte sopportare questo supplizio per cinque giorni a settimana. Una folla indistinta di facce, corpi, voci, odori, che si muove senza coscienza apparente. La massa di pendolari, studenti, turisti, semplici passeggeri occasionali farebbe la felicità di qualunque antropologo che decidesse di venire a vivere qui sotto, ma io non faccio questo mestiere. Né ho intenzione di prendere domicilio nelle viscere di questo biscione metallico. Alzo il volume dell’i-Pod. Phil Collins canta “Another day in paradise”. Lo avessi davanti lo strozzerei. Questo è tutto fuorché il paradiso.
In questo marasma accaldato e compresso emergo a malapena. Un caschetto castano piuttosto ordinario se paragonato ai due punk all’altro capo della carrozza, con le creste azzurro slavato e le punte rosso fuoco. Sto in piedi, accanto alle porte scorrevoli. Cerco di respirare più a fondo che posso, ignorando il misto di olezzi che arriva dallo scompartimento. Spezie, dopobarba, intrugli di cucina, profumi scadenti, fritto, pelle di bambino, medicine, fumo, naftalina. Ormai conto le fermate, non guardo più le indicazioni. Era una mossa inutile: c’era sempre qualcuno troppo alto a coprire il panello informativo.
Finalmente ci siamo. Schizzo fuori e punto alle scale mobili. In pochi minuti sono in strada. Il marciapiede offre uno spettacolo simile alla metropolitana, con la sola differenza che l’aria è più fresca. Settembre è arrivato, dolce e tiepido. Ancora non accenna a piovere, come se il cielo volesse trattenere l’estate.
Raggiungo la cabina telefonica e frugo nella borsa mentre l’i-Pod è passato su un brano di Enya. Appropriato per l’ingresso in ufficio. Già, perché questa banalissima cabina rossa, come ce ne sono tante in tutta Londra, immancabile nelle foto dei turisti, è una delle entrate al mio posto di lavoro. Curioso? Non tanto. Dopo anni che fai su e giù, l’unica cosa che ti stupisce è l’assoluta cecità della gente che ti passa accanto. Inserisco il gettone, scrutando dai vetri sporchi il viavai di persone. Nessuno mi guarda, e se lo fa, non mi vede.
Digito il codice. Sette-sette-due-quattro-uno-quattro-tre. Una voce femminile e metallica mi saluta.
«Benvenuti al Ministero della Magia. Per favore dichiarare nome, ufficio di appartenenza e mansione».
«Jillian Taylor, Ufficio Rapporti con le Creature Magiche, Assistente Responsabile».
La cabina ha un lieve tremito ed il pavimento comincia a scendere. La cosa non dovrebbe affatto piacermi, ma ho imparato da tempo che non è il caso di agitarsi. La prima volta ho pensato sarei morta.
Le porte si spalancano sul grande atrio.
È presto. Poca gente sbuca dai camini. Il Ministero è lindo e splendente, una gioiosa luce piove da tutte le finestre e dai lampadari di cristallo, parquet e marmi luccicano sui pavimenti, ed una grande fontana zampilla nell’atrio, ma nel Novantotto non era così. Ho assistito personalmente, appena assunta, alla rimozione della vecchia statua: un obbrobrio che è sparito in mezzo secondo, sostituito da una scultura astratta.
«Bacchetta, prego» sbadiglia l’addetto alla sicurezza ad dietro il tavolo.
«Ma santo cielo, Frank!»
Ridacchiamo. Lo fa apposta tutte le mattine. Sa che non ce l’ho. È il solito siparietto idiota col quale ci salutiamo.
Non ho la bacchetta per un motivo molto semplice: sono quella che loro chiamano Babbana. Giusto pochi mesi prima della mia assunzione, al termine di una guerra di cui noi comuni mortali non avevamo avuto il minimo sentore, il Ministro della Magia Shacklebolt prese una decisione storica: decretò fosse giunto il momento per mettere a parte dell’esistenza dei maghi alcuni membri della popolazione. A questo punto, ci si sarebbe dovuti aspettare che il Ministero si rivolgesse a personaggi altamente selezionati della società. Invece, dal cilindro del Ministro uscirono i nomi più improbabili della terra, tra cui il mio. Cos’avevamo di tanto speciale per essere scelti? Semplice. A vent’anni credevamo ancora nelle fate, nelle leggende di Re Artù, negli unicorni e via discorrendo. Ed avevamo la faccia tosta di andare a sbandierarlo ai quattro venti passando per deficienti. Immaginarsi quando venni contattata dal Ministero. Una lettera portata da un gufo reale che faticai non poco a nascondere ai miei. Sulle prime pensai ad uno scherzo molto ben architettato, ma quando incontrai gli emissari dell’Ufficio Relazioni con i Babbani, mi convinsi in un batter d’occhi. Accettai prima ancora che me lo chiedessero.
Così presi il mio posto all’Ufficio Rapporti con le Creature Magiche, dove lavoro tuttora. Dicono che mi hanno messa lì perché ho una buona capacità di relazionarmi con chiunque, umano e non.
Entro nell’ascensore. Le griglie dorate stanno per chiudersi quando sento dei passi frettolosi. Allungo una mano e le fermo.
«Grazie! Oh, Jill, cara! È parecchio che non ti vedo!» esclama un uomo dagli spessi occhiali tondi tra un respiro e l’altro.
«Buon giorno, Arthur. Tutto bene?»
Arthur Weasley è una bravissima persona. È uno dei pochi maghi di mia conoscenza che non guarda con orrore o sufficienza gli indispensabili orpelli tecnologici di cui mi circondo. Questo suo apprezzamento nei confronti degli esseri meno dotati è ammirevole, ma anche terribilmente pericoloso. La prima volta che ha avuto a che fare col mio portatile abbiamo rischiato di finire sotto indagine: come spieghi ad un mago che ti ha vista trafficare per ore con un notebook inoffensivo, che non è assolutamente vero che lo stesso ha cercato di addentargli l’avambraccio? Con otto zanne da quindici centimetri per giunta? Non ce l’ho con Arthur. Stava solo cercando di rendere la batteria perpetua, per consentirmi di lavorare senza problemi qui dentro, dove non esiste una presa di corrente a pagarla oro. Ma era la prima volta che tentava quell’incantesimo e i risultati sono stati, diciamo, imprevedibili. Al secondo tentativo il computer si è coperto di pelo verde mela e ha cominciato a saltellare come un coniglio. Evito di raccontavi tutte le versioni fino a quella risolutrice. Credo fosse la ventesima o giù di lì.
«Sì, grazie. Oh! Ma che meraviglia!»
Accidenti. Beccata con l’i-Pod in mano.
«È una di quelle scatole musicali, vero? Il… Il… Lappòt!»
«L’i-Pod…» lo correggo mesta, aggiustandomi gli occhiali.
Non azzecca mai un nome al primo colpo. Deve trafficarci per qualche tempo prima d’impararlo.
Sale un’altra persona. Un tipo sulla trentina, occhiali cerchiati di corno, capelli rossi.
«Buon giorno, papà. Taylor».
Ah, bene! Fantastico! Pentola-di-fagioli Weasley, in arte Percy! Ieri mi ha fatto venire mal di testa con le sue tiritere sul perché non è corretto che sui documenti di trasporto degli oggetti magici venga riportato solo lo stato di provenienza e non la zona di produzione. Mi chiedo come possa Arthur aver cresciuto questo tizio, senza mai provare il desiderio di sparargli o di strappargli le corde vocali. Ho giurato a me stessa che non mi fermerò mai più a pranzare nell’atrio, cascasse il mondo! Se il rischio è di avere alle spalle questa mitragliatrice di scemenze, meglio pioggia e ghiaccio!
Stamattina sembra assonnato. É diventato padre da un paio d’anni, e pare che la figlia seguiti a non dargli tregua la notte. Tifo per lei, se significa avere un po’ di pace.
Arrivo al quarto piano. Saluto Arthur e suo figlio e mi avvio all’ufficio.
Tutte le stanze sono ancora chiuse, solo lo Sportello Consulenza Flagelli è attivo. Sento squittire Honoria Goldwing. Quanto la detesto, quella vecchia befana! Deve sempre lamentarsi del lavoro degli altri mentre se il suo fa pena, nessuno può dir nulla. Megera. E zitella! Ma di che mi lamento? Pure io sono uccel di bosco…
Arrivo in fondo al corridoio. Su una porta di quercia spicca una targa d’ottone.

UFFICIO RAPPORTI CON LE CREATURE MAGICHE
Responsabile Hermione Granger
Assistente Jillian Taylor

Entro. Sulla finta finestra alle spalle della mia scrivania c’è una spiaggia di ciottoli bagnata da un mare calmo. Avanzamenti tecnici della magia! Fino ad un paio d’anni fa poteva avere al massimo una luce diffusa o un cielo limpido. Ora delle immagini in presa diretta! Quando penso che mi trovo ad almeno una quindicina di metri sottoterra e vedo cose simili, provo una strana sensazione. Mi manca l’aria, eppure sento i polmoni che scoppiano come per un respiro troppo energico.
Giusto il tempo di sistemare il computer e la borsa, che un paio di promemoria interpiano planano accanto a me. Uno è dell’Ufficio Trasporti: un elfo domestico ha imparato ad incantare le scope dei padroni, creando non pochi problemi. L’altro è di Tonks, che chiede per la centesima volta se l’appuntamento per il pranzo di oggi è alle tredici. Ha distrutto di nuovo l’agenda. Quella donna mi fa morir dal ridere. È uno spasso! Se dove passava Attila non cresceva più l’erba, dove passa lei non si sa avanza qualcosa! Alto che Uragano Katrina!
«Buon giorno, Jill» sbadiglia una voce svogliata.
È il mio capo, Hermione. Ad essere precisi è un pancione con il mio capo al seguito. È al settimo mese avanzato di gravidanza e, nonostante insista ogni santo giorno perché si prenda una pausa, si ostina a restare. Non sa stare con le mani in mano.
«Buon giorno? Io magari avrò una buona giornata, ma tu… hai un’aria peggiore del solito».
I suoi capelli abitualmente sembrano un rovo indisciplinato, stamattina una trincea tedesca. Per non parlare delle occhiaie viola che stanno malissimo sotto i suoi occhi nocciola.
«La bambina ha deciso che stanotte voleva fare la lotta».
Da figlia di normali esseri umani, ha fatto un’ecografia. Così sappiamo che sta arrivando la piccola Rose. Ci sono già regalini sparsi in giro per l’ufficio.
«Vuoi una tisana intanto che è tutto calmo, bimba inclusa?» propongo.
Hermione getta uno sguardo disperato all’orologio sul muro. Sembra illuminarsi di una timida speranza.
«Pensi di riuscire…?»
«Io non faccio magie!» protesto, con le tisaniere autoriscaldanti nelle mani. «Ma posso provarci».
In cinque minuti e grazie alle modifiche di Arthur, gli infusi sono pronti. Non ringrazierò mai abbastanza il suocero di Hermione per questo pensierino. Parliamo del programma della mattina. Ci sono un pochi appuntamenti, oggi è venerdì. Quel che vale per il lavoro dei Babbani, spesso vale per quello dei maghi: week-end in arrivo.
«Non vedo l’ora, sono a pezzi» sospira lei.
Non le credo. Dice sempre così e poi porta a casa le pratiche, anche quando non ne abbiamo in arretrato. È una stacanovista, ma solo perché vuole davvero aiutare le persone che vengono qui. L’ammiro per questo suo attaccamento, per il rispetto che ha verso gli emarginati. Lei ha sopportato insulti e diffidenza, ma c’è chi lotta con cose ben peggiori.
Alle otto e quarantacinque precise bussano. Fine della tranquillità. Il lavoro deve pur cominciare, no?
Vado ad accogliere i nuovi arrivati. Edward Thompson e suo figlio Luke, entrambi accomunati da un alone di grande tristezza. Il signor Thompson è molto trasandato, non si fa la barba da giorni e gli abiti avrebbero bisogno di una bella lavata. Luke avrà otto o nove anni, cammina curvo con lo sguardo fisso sulle scarpe, le braccia strette al petto. Non ho avuto tempo di visionare la pratica, anche se è abbastanza evidente che riguardi il bambino.
«Jill?» Hermione, sulla porta della sua stanza, mi allunga la copia della pratica. «Và a chiamare Remus, per favore».
Non ho bisogno di leggere. Se devo chiamare Remus può voler dire solo una cosa: mannari. Fermo lo sguardo un attimo di troppo sulla testa di Luke. Un paio di lunghe cicatrici passano fra i capelli corti. Ce n’è una anche sulla nuca. Sono recenti. La luna piena è passata solo da tre o quattro giorni. Provo una gran pena. Luke dev’essere spaventato a morte, chissà se riesce a capire cosa gli è successo.
Remus Lupin è stato uno dei professori di Hermione ed è un suo carissimo amico. Anche lui è un lupo mannaro e per anni è stato ingiustamente discriminato. Lavora tre porte più in là, chiaramente preposto ai rapporti con i licantropi. Busso.
«Avanti!»
È l’unica persona al mondo che riesce ad avere una voce allegra ad ogni ora del giorno, in quella gabbia di matti. Lo dico sempre: non ha la luna dalla sua, ma ha il sole nel cuore! Saprebbe metterti di buon umore in ogni momento, ed è ancora più incredibile considerando quanto ha sofferto.
«Remus?»
«Buon giorno, Jill! Qual buon vento?» mi domanda, chiudendo rapidamente il coperchio del suo acquario.
In realtà si chiama acquario solo perché un tempo lo era. Adesso ospita a turno le creaturine più bislacche che gli riesca di catturare. Ogni tanto gliene porta qualcuna suo figlio Teddy. Oggi però non sono in vena di disquisire sul suo ultimo pensionante, una cosa viscida munita di tentacoli pallidi. L’immagine di quel bambino mi ha colpita molto. Sento il cuore ancora stretto.
Gli porgo la cartellina.
«Hermione ti vuole subito, se puoi» dico nervosa.
Legge la prima pagina e il suo viso s’incupisce. Credo riviva quanto gli è accaduto. Anche lui era solo un bambino quando è stato morso, per quanto ne so. Mi guarda, recuperando solo in parte la sua giovialità.
«È già arrivato?»
Annuisco. Lui fa altrettanto, poi gira intorno alla scrivania. Prende qualcosa e torna da me, facendomi cenno di precederlo. Lo sento sfogliare la pratica mentre ci avviamo. Mormora qualcosa.
«Tieni» dice sulla porta, ficcandomi in mano delle caramelle.
La carta colorata luccica e scricchiola fra le dita.
«Grazie Remus, ma non mi vanno».
«Dalle al piccolo».
Mi do della stupida. È chiaro che il bambino non potrà restare nell’ufficio per tutto il tempo. Alcune cose non sono per le sue orecchie. Non ancora. Una caramella può essere un buon modo per rompere il ghiaccio e fare in modo che si tranquillizzi mentre è solo con me.
Remus entra alle mie spalle, salutando con gentilezza. Vanno tutti e quattro nell’altro ufficio. Un attimo prima che la porta si chiuda alle loro spalle, mi sorride. Credo di indovinare il motivo. É adulto, sposato, padre, ha un bel lavoro ed ha combattuto tre guerre: due tra maghi e una con sé stesso, con quello che è. Ed ha vinto. Anche per Luke c’è speranza.
Torno a dare le spalle al mare, su cui ora brilla il sole. Sulla scrivania si sono posati altri aeroplanini di pergamena. Li apro e comincio a prendere appunti sulla tastiera. In breve, un’intera schermata si copre di richiami a varie pratiche, appuntamenti, circolari informative, semplici avvisi.
Solo uno rimane com’è. Sul bordo è scarabocchiata una faccina lentigginosa e sorridente. É la corrispondenza personale di Hermione, non mi sognerei mai di aprirla. Arriva dall’Ufficio degli Auror, da suo marito Ron. Lo smile -il suo ritratto- è un modo simpatico per avvisarmi di non leggere. Posso immaginare però il contenuto. Herm me l’ha mostrato in più occasioni. Sono le preoccupazioni tipiche del futuro padre: “La bambina sta bene? Scalcia o è tranquilla? Si è mossa? Tu come ti senti? Sei stanca? Vuoi che ti accompagni a casa? Passo a prenderti qualcosa da mangiare?”. È molto apprensivo, ma non invadente. Per un periodo lo è stato, piombava qui con tutto il codazzo di colleghi prima o dopo le missioni. Il che significava in qualunque momento del giorno. Al che, all’ultima visita, Hermione l’ha innaffiato da capo a piedi con un getto da idrante. Ha smesso subito. Mi ha fatto tenerezza mentre la salutava bagnato fradicio. Da allora, manda foglietti e si palesa solo dietro espressa richiesta della moglie.
Sento la maniglia abbassarsi. Compaiono Remus e il bambino. Sorrido a entrambi. Luke non mi guarda.
«Luke, ti presento Jill. Ti farà compagnia per un pochino, finché papà non finisce di annoiarsi con le nostre inutili cartacce!» ma lui non reagisce.
Tiene la testa bassa, fissa il parquet con le mani dietro la schiena. Remus mi si avvicina e, fingendo di trafficare nei cassetti della scrivania, bisbiglia:
«È come se cercasse di creare una barriera intorno a sé. Quello che non vede non gli può fare del male. Ha paura persino della sua ombra».
Sembra molto preoccupato, ma c’è una sfumatura nella sua voce che mi dice che quella situazione può andare. Ho sbirciato nel fascicolo. Luke è licantropo da meno di un mese. Non può aver già assimilato il trauma.
«Come faccio a calmarlo?»
«Hai già le tue armi» e mi strizza l’occhio. «Bene, trovato» esclama, portandosi via un rotolo di magiscotch che certamente non gli serviva. «Luke, scommetto che se fai due parole con questa signorina resterai molto soddisfatto. Almeno… tre volte!»
«Magari anche quattro» suggerisco io, contando le caramelle.
«Quattro? Accidenti, così finirò sul lastrico!»
Rido. Lo osservo scomparire dietro la porta, non prima di avermi rivolto un altro dei suoi melanconici sguardi  azzurri.
Resto sola con il bambino.
«Ti va di sederti? Sai, questa poltrona vengono sempre a rubarla dagli altri uffici perché dicono che è la più comoda di tutto il Ministero» e gli allungo quella accanto alla mia. «Fossi in te non aspetterei che vangano a chiederla» suggerisco.
Si siede, rigido e silenzioso. Porta una felpa più grande della sua taglia, e che ha visto tempi migliori. Alza il cappuccio, vuol essere certo che non violerò il suo spazio. Allungo il collo oltre la scrivania. Mi è sembrato di averlo visto girare gli occhi verso di me, nascosto dal tessuto verde scuro. Appena mi avvicino, li rimette sul pavimento, allarmato.
«È interessante, vero? Il legno, dico» e allungo il braccio fin quasi a sfiorare terra, nel suo campo visivo. «Ha un bel disegno. Nessun mago saprebbe farlo con la magia».
Non risponde. Aspetto. Tiene le mani strette fra le ginocchia, le spalle curve. È un minuscolo gomitolo di ansia. Non riesco a immaginare come si possa sentire. Dev’essere terribile.
Si sente un trillo. Lui sobbalza, finalmente cerca intorno, spaventatissimo. Ansima.
«Calma, calma! Stai tranquillo, è solo la mia mail» cerco di tranquillizzarlo.
I suoi occhi, gonfi e arrossati, vagano nella stanza e si posano sullo schermo del portatile, dove lampeggia una busta gialla. Non sembra stupito.
«Sai cos’è?»
Fa segno di sì. Un impercettibile, minuscolo sì.
«Davvero? Finalmente! Sono stufa di parlare con gente che non ha idea di cosa sia un computer!» esclamo allegra. «Hai appena guadagnato cento punti! E una caramella».
Gliele porgo. Non so se le prenderà, ma intuisco il suo desiderio. Un tremito, la lingua che passa nervosa sulle labbra screpolate, una mano si sfila dalla stretta dei pantaloni stropicciati. Le vorrebbe, ma non osa.
«Scegli da quale cominciare. Sono tutte per te».
Si domina, con uno sforzo titanico. La mano si rituffa tra le gambe. Non mi ero illusa di smuoverlo al primo colpo, è già molto quel che ha fatto.
«Che giochi fai? Io gioco sempre a Tetris, lo conosci?»
Certo, come no! Parliamo di preistoria dei videogames… Infatti scuote il capo.
«Eh… hai ragione, roba vecchia. Non sono aggiornata. Tu potresti dirmi con cosa si gioca adesso. Su, ti ascolto».
Ssi rannicchia ancora di più, si nasconde facendosi piccolo contro il bracciolo, sfugge a qualunque relazione. Devo stare attenta a non esagerare. Non voglio farlo sentire come una bestia allo zoo, perché è proprio questo che prova. Remus me l’ha raccontato una volta: da bambino si era sentito prigioniero del suo stesso corpo e della cattiveria delle persone. E non solo allora.
«Beh, in effetti non hai tutti i torti. Ti starai chiedendo che diamine voglio da te, perché non ti lascio stare. In fondo sono affari tuoi, i giochi che fai. Mi sto impicciando troppo, scusami. Ma le caramelle ti aspettano qui» e gliele indico, sullo spigolo della scrivania.
Ricomincio a sistemare i documenti che ho preparato. Ogni tanto mi volto, cerco di capire se si sta rilassando ora che non gli parlo. Il cappuccio gli avvolge la testa e cade in avanti, floscio e cupo. Gli dà un’aria da Fantasma dell’Opera. È triste pensare che tanto dolore debba gravare su un bambino.
L’orologio segna le dieci e quarantacinque. Hermione ha appuntamento al garage per le undici, per andare al Victoria Park. Non vorrei andarmene. Non vorrei lasciarlo solo, ma Hermione non riuscirà ad andare all’incontro, sono sicura.
Mi alzo e busso. Dentro l’atmosfera è molto pesante. Il signor Thompson è in lacrime, Remus gli tiene una mano sulla spalla per confortarlo. Hermione è stanca, si vede.

   
 
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