Salve. Avrei fatto
volentieri a meno di metacomunicazione - introduzioni e commenti dispersivi –
ma, in questo caso, mi sembra strettamente necessario per un semplice motivo,
che noterete sicuramente durante la lettura di questo capitolo e dei seguenti.
Il protagonista di questa storia parla in prima persona e, dunque, molti
pensieri che chiunque tacerebbe per rispetto altrui sono espressi in modo forse
violento, brutale e, a volte, anche offensivo e, soprattutto, che riguardano
tutti voi che leggete. Vorrei specificare che io e il mio personaggio
condividiamo alcune idee, ma il suo pensiero è un’estrmizzazione distopistica,
forse, delle mie concezioni. Dunque, dopo la lettura – se la completerete – non
mi aspetto che voi scriviate commenti offensivi contro di me a causa di ciò che
ho espresso in queste righe, perché io NON penso ciò che crede il mio
personaggio, anche perché sarebbe una feroce e cattiva autocritica. Spero che
abbiate capito, vi auguro una buona lettura.
1.
Cesare Beccaria
Spensi la
TV prima che un cantilenante jingle pubblicitario rovinasse quel silenzio.
Uno
scatto: una scintilla rossa alla base del televisore tramontò.
Quel
silenzio. Quel silenzio fatto di piatti sbattuti e porte serrate, passi
strascicati in strada, filastrocche infernali, girotondi sull’asfalto, fra
clacson e abbaglianti.
“Sincempompli, pololì, pololà…”
Silenzio.
Mattonelle
grigie, pareti bianche.
Silenzio,
nella mia stanza.
“…Sincempompli, pololììì, pololààà…”
Unf-unf-unf-unf…
Il basso
di un’autoradio ansimava sotto casa, proprio accanto al cassonetto.
“…Accademi
sol fa mi, sol fa mi…”
I vetri
vibravano, scevri di consistenza.
Muggiva la
finestra al ritmo ispanico di Pitbull.
“I know you want me, you know I want ya...”
Ma perchè
non abbassava il volume di quello schifo di canzone?
“Pliff!”
Graffiai
il copriletto per la rabbia e i fili sporgenti mi si impigliarono fra le unghie,
come siringhe nella pelle.
“Pluff!”
Non
riuscivo a pensare ad altro o, meglio, non riuscivo a
pensare. L’automobile che percuoteva i
vetri ripartì a volume ancora maggiore e violò con un fischio nasale la stretta
barriera delle bambine che recitavano la filastrocca.
Manca il “plaff!”. Sì, hanno dimenticato di dire “plaff!”, perché è così che
finisce.
Silenzio,
di nuovo.
Era
possibile che, in un momento del genere, il primo pensiero sensato che mi
frusciasse di sinapsi in sinapsi fosse quello?
Light.
Oh, be’,
almeno era il mio secondo pensiero, non c’era da lamentarsi.
Light era
morto. Carne umidiccia e flaccida inchiodata precariamente a qualche gruccia
d’avorio – ossa flosce –, unghie opache, pelle grassa e oleosa, vescica
svuotata, cosce bagnate e fetide, bocca asciutta e accartocciata. Come tutti,
insomma.
In una
frazione di istante compresi cosa volesse dire Platone con il gioco di parole
sema/soma – l’avevo sentito giocando a
Age of Mythology e non ci avevo fatto molto caso –: il corpo era una
tomba, ma non nel senso in cui la intendeva il filosofo greco. Su un cuscino
rivestito di seta rossa, in una bara di carne gonfia o secca, a seconda dei
vermi che vi dimoravano, giacevano cadaveri di ideali, valori, ipotesi e sogni,
maestosi parassiti che pendevano come fili scuciti da un grembiule lacerato,
costretti alla vita e alla morte.
Perché Dio, pur essendolo, può morire.
Non
pensavo che Light fosse Dio; tutto sommato, Near aveva ragione: era solo un
assassino psicopatico che si credeva padrone del mondo. Ma Dio… il Dio creatore,
intendevo, poteva morire per mano del creato, come quegli enzimi che
contribuivano a produrre gli inibitori che frenavano la loro attività.
Quello che
mi preoccupava davvero e mi induceva a tacere era…
“Marti’,
te l’ho detto l’altro giorno: quando fai le tue porcherie in bagno, almeno
pulisci!”
La figura
bassa e tozza di mia madre sorse e calò quasi nello stesso momento da uno
stipite all’altro della porta della mia camera, sfrecciando nel corridoio via
dal bagno.
Avrei
dovuto dirle che avevo sentito attraverso la porta chiusa
Hey hey, ningen sucker, ah ningen ningen
fucker e avevo dovuto interrompere l’operazione per stendermi di fianco sul
letto e assistere alle ultime tre puntate di
Death Note?
Ma no, non
era una giustificazione valida, per lei; anzi, avrebbe ronzato e borbottato
schegge taglienti di pregiudizio contro gli anime (“Ancora quella robaccia?
Marti’, devi crescere! Prenditi le tue responsabilità, ma insomma!”). Un giorno
mi avrebbe spiegato la relazione esistente fra seguire una serie animata e
caricarsi di responsabilità.
Tacqui e
lei bofonchiò qualche parola sconcertata e offesa.
Stupido megalomane.
In realtà, la rovina di Light non dipendeva unicamente dall’eccessivo zelo di
Mikami – o disobbedienza? –, bensì da molti altri fattori: innanzi tutto, era
stato tradito dal suo sporco e criminale desiderio di diventare un
padrone, un
dio. Stupido megalomane. Ma
che cazzo fai? Padrone di un nuovo mondo? Chi, tu? E perché, poi? Perché l’hai
creato tu, sacrificando te stesso? Allora tu non cerchi la pace, il benessere
comune, l’utopia. Il potere, ecco cosa bramava. Potere pulito, giustificato
da un’onesta causa, proprio come un tiranno.
Accesi il
monitor con un movimento sicuro.
Tu non ti accontenti di ciò che fai, pretendi di meritare qualcosa. Se proprio
esistesse un dio, non sarebbe certamente come te. Patti, compromessi taciuti…
La popolazione mondiale aveva bisogno di modelli, di minacce e di libertà, non
di rispettare un sovrano assoluto, seppur latore di giustizia.
Cliccai
due volte sull’icona a forma di testa di asino accanto all’orario, in basso a
destra, sulla barra delle applicazioni: il downloading di alcuni file era quasi
completo. Ridussi a icona e aprii una pagina di Mozilla Firefox.
Proteggere una persona è un atto volontario, di cui si devono accettare le
conseguenze e di cui non ci si deve vantare, altrimenti si cade
nell’opportunismo; a maggior ragione, lo è proteggere sei miliardi di anime.
In effetti, era proprio questo il difetto più evidente – e controproducente – di
Light: la vanità.
Digitai
“f” e dal browser scivolò un elenco di suggerimenti. Scelsi “www.facebook.com/home.php” e attesi che la pagina si caricasse,
sollevando e abbassando con il medio gli occhiali sul dorso del naso.
Desideri solo l’adorazione, alla fine persino Mikami sembra più interessato di
te alla realizzazione di un mondo privo di mele marce.
Per la prima volta, Light mi fece seriamente schifo.
La pagina
iniziale era affollata di messaggi firmati
Mariagrazia Cozzaglia e Susanna
Faretra.
SuSaNnA
fArEtRa
liiiiiiiiiiiiiiiiiiiiight! U.U il mio light… l’hanno ucciso… V.V bastardi… è_é
…grrr… >:(
Mariagrazia Cozzaglia
Ahahah, fatto bene! È
una degna fine per l’assassino di L… Il mio piccolo, povero L… MORTE AGLI
ASSASSINI, MWUAHAHAH! XD
SuSaNnA
fArEtRa
zitta, infedele! di’
grazie che light è morto, altrimenti ora ti rimarrebbero solo 40 secondi…
Mariagrazia Cozzaglia Tsk, come se quel
bidone di Light mi facesse paura… XD
SuSaNnA
fArEtRa domani a scuola ti
massacro… preparati!!! lol
Non che la
vanità non tentasse. Hai cancellato le
guerre e la criminalità, il che è certamente un gran merito, ma niente è più
ingannevole di una ricompensa: in primis, non è mai quella che ci si aspetta e,
inoltre, pare quasi che siano i compensi a pretendere le gesta.
Sbirciai
un rettangolino rosso in basso a destra contenente il numero
3 in bianco e vi posi la freccia, che subito si tramutò in una
manina (un messaggio subliminale a favore del suicidio, secondo me).
A ben pensarci, Light ha tanti buoni propositi, certo, ma non sa un granché di
politica.
Come la maggior parte della popolazione, era convinto che la guerra fosse un
male, la causa principale di milioni di morti, ma non capiva che rappresentava
anche il più efficiente sostenitore di equilibrio fra gli Stati?
Lessi,
disinteressato, le notifiche: un invito a Pet Society, una nuova attività di
LivingSocial e 1 dei vostri amici hanno
compleanni imminenti, compreso Ilaria Lumara, in italiano più che
improbabile. Sbuffai. Mi ero ripromesso di non scrivere più alcun commento o
post su Facebook, giacché era diventato ormai più frivolo di un festino di
Capodanno organizzato da tredicenni isteriche in calore. Il mio principio era
quello cantato dai Sonata Arctica:
I promise you: I won’t
write again
‘til the sun sets behind you grave
Sono di certo il primo che dedica una canzone a Facebook,
borbottai con orrore senza un filo di voce.
Chiusi gli occhi per fuggire il bianco cangiante dello schermo e cercai di
ricordare a cosa stessi pensando. Quando li riaprii, ormai rassegnato a
quell’oblio fastidioso e aggressivo, il mio sguardo fu risucchiato dall’ombra
cartacea e piatta del sorriso sbieco di Light sul muro, lucido e plastificato.
I am justice, recitava appena sotto
quel mento appuntito e quei denti bestiali.
La guerra,
rammentai sobbalzando. Già, stavo pensando alla guerra, alle sue capacità
risolutive e livellatrici: tutto ciò che eccede e avanza viene investito nei
conflitti, in modo da equilibrare le entrate e le uscite, il guadagno e la spesa
di ogni cittadino e dello Stato, eliminando le barriere divisorie fra una classe
e l’altra, le pareti economico-sociali che rendono a un proletario più
auspicabile soverchiare l’imprenditore che lo soggioga. Era una questione
meramente teorica che pochissimi comprendevano, tantomeno i giovani che vedevano
nel ’68 un modello di cultura e comportamento: pace e amore, come no.
La guerra è pace, o almeno questo
avevo appreso da 1984: in fondo, il
conflitto incrementava il sentimento d’amor patrio che induceva i popoli a
inorgoglirsi per la vittoria e a non abbattersi per la sconfitta, acuiva la
produzione agricola e industriale e la solidarietà fra i cittadini.
È risaputo: le emergenze uniscono, come le disgrazie e molto più di una
statica floridezza, terreno fertile per la criminalità.
Sorrisi:
adoravo sentirmi capace di pensare in modo diverso e indipendente dagli altri,
come gettarsi da una finestra e precipitare in cielo, morire soffocato dalle
nuvole, annegato nella pioggia, carbonizzato dall’atmosfera. Mi beavo di quella
solitaria personalità e dei miei ragionamenti incomprensibili; per questi stessi
motivi, combattevo strenuamente affinchè rimanessero lisci e inascoltati – non
che la battaglia fosse così ardua: l’istinto era di tacere.
Aprii
ancora una volta l’icona a forma di testa d’asino e notai che il livello di
scaricamento di cinque file era fermo al 100,0 %: si trattava di
alcuni brani di Yngwie Malmsteen, un Pay
Per View della WWE di cui avevo letto su
www.welovewrestling.com e il calendario di Belen Rodriguez.
Non sono i criminali le mele marce, perché, in fondo, hanno sempre un motivo per
rubare, uccidere, massacrare, stuprare e questo motivo è sempre maledettamente
valido e inconfutabile.
Povertà, frustrazione,
rabbia, maltrattamenti, legittima difesa, licenziamento, pazzia. Gli stupidi, i
calunniatori, i crudeli, gli insipidi, gli insensibili, i giudici senza toga e
senza martelletto, i vuoti, gli ingordi…
devono essere eliminati. Ecco chi doveva essere annientato. Ripetei quel
pensiero ancora nella mia mente e me ne spaventai. Mi affrettai a imbottirmi la
testa di bolle scoppiate, corde cigolanti ed echi urlati:
Yngwie Malmsteen – Evil Eye.
Domani il sito di EFP si riempirà di stupide fan fiction sconclusionate: i
pensieri di Light prima della morte, migliaia di storie tutte uguali… E Misa!
Chissà quante schifose poltiglie patetiche si accumuleranno su quelle già
esistenti? Per non parlare di Mikami, e ancora il solito paragone con la Bibbia:
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
E come potrebbero mancare le Matt/Near/Mello? Altri mènages à trois ridicoli e
perversi alimentati dalla morte del più inutile e del più sessualmente ambiguo
dei tre. Takada sarà così pietosa da sfiorare l’isteria di una vedova siciliana
nella mente di quelle fan writer coglione.
Nonostante
la chitarra di Malmsteen fosse sempre risultata letale per i miei ragionamenti,
l’istinto omicida, sottoforma di mano artigliata, salì dal basso intestino
attraverso lo stomaco e l’esofago, fino a diramare le sue dita nel cervello,
innestarle rigidamente e con un certo compiacimento in quella fanghiglia cinerea
e fertile.
Alzai gli
occhi al soffitto alto: due impulsi feroci nell’arco di pochi minuti, quello sì
che era un record. Di solito non me ne permettevo due in un giorno solo. Sbuffai
e selezionai EFP :: Il tuo sito di fan
fiction! nell’elenco dei preferiti.
In fondo,
quelle ragazzine frustrate e complessate mi incuriosivano.
Sì, come quei bonobo che scopano dietro la
rete protettiva dello zoo di Rigantello, osservai; ed era vero, perché
leggevo i loro profili falsamente autoironici e presuntuosi fino a sfiorare
l’esasperazione, le storie insulse e scialbe, le recensioni acritiche e
inespressive, le perversioni che qualsiasi individuo rispettoso avrebbe serbato
fra le proprie intime fantasie sessuali, invece di dar loro titoli completi di
stelline e cuoricini, introduzioni ipocrite, personaggi improbabili e commenti
maliziosi.
Ma sì,
quelle ragazze – e quei ragazzi, addirittura – catturavano la mia attenzione,
come Alessandro; quel viso stanco, cianotico, spento e abbagliante nello stesso
momento, non mi aveva ancora suggerito come si potessero organizzare e
coordinare i propri tratti facciali ogni singolo secondo in maniera così
artificiosa e precisa: occhi bassi, sguardo perso, sopracciglia contratte in una
posa plastica e sofferente, labbra sporgenti, angoli della bocca nettamente
tendenti verso il basso, piega fra bocca e mento ombrosa e pronunciata.
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Truccarsi ogni mattina, poi. Ci vuole molta forza di volontà anche per essere
ciò che si vuole.
Era il minimo.
Mi
divertiva da pazzi guardare mio fratello spalmarsi le guance, il mento, il collo
e l’unico minuscolo spicchio di fronte immune dalla frangia con una spugnetta
rosa impregnata del fondotinta Vichy di nostra madre, calcare il profilo delle
palpebre con una matita nera dall’impronta spessa e corposa e, con lo stesso
strumento, marcare il profilo delle labbra, come un clown disgraziato, quelli
delle maschere veneziane. Il rimmel abbondante e il rossetto viola erano
facoltativi: la loro presenza variava a seconda del ciclo. O, almeno, così
bollavo fra me e me i periodi più negativi e disperati in cui incorreva sempre
più spesso Alessandro. Ridacchiai con un grugnito.
Controllai
se l’unica storia che seguivo fosse stata aggiornata.
Anime & Manga… Vediamo… Dove cazzo è
Death Note? Ah, eccolo.
The Electric Metempsychosis
era ferma al terzo dei
suoi brevi capitoli, incastonata fra una yaoi Light/L e una volgare “intervista”
ai personaggi della serie. Era ancora presto per la cena, quindi rilessi uno dei
passaggi più interessanti della fan fiction, appartenente al primo capitolo:
Coloro che chiedevano aiuto non venivano più assistiti, come durante il regno di
Kira I, bensì abbandonati a sé stessi, ché i più forti sarebbero dovuti
sopravvivere. I malati furono reclusi in distretti specializzati nel risolvere
il problema del sovraffollamento, vere e proprie città fantasma, lazzaretti
contaminati dalla carne sfilacciata che si staccava dalle ossa, dalle piaghe
infiammate, dai suicidi disperati, dalle sedie a rotelle arruginite e dalle
protesi corrose. In pochi decenni, ovverosia dall’ascesa di Kira III
all’abdicazione di Kira V, la Terra abortì circa quattro miliardi e 800 milioni
di individui, morti rivendicate dalla giustizia e dalla selezione artificiale;
se le donne sopravvissero ai Grandi Giudizi del 2014, del 2023 e del 2039,
nonché alla Purga Kiriana, ogni settimana, esse trovarono il proprio
annientamento durante le deportazioni in tali città fantasma, essendo esse più
cagionevoli di salute a causa dei parti, che, secondo la legge 485 comma D,
promulgata da Kira IV, non dovevano essere meno di quattro ogni cinque anni, in
modo da compensare lo spopolamento dovuto ai Grandi Giudizi e alle Deportazioni
Lenitive.
Il terrore e il fanatismo non si affievolirono neanche quando MIsa VIII fece
giustiziare il marito, Kira VI, a causa della sua relazione con il giovane Boia
Karol Czesach. A quel punto, la regina assunse il potere assoluto di Dikaia, il
Regno di Kira, e proclamò sua figlia Kiyoshiko Boia Regale, destinata all’uso
del quaderno – che ai sovrani era proibito sin da Kira II, per far sì che essi
amministrassero il Paradiso alla loro morte – per l’eliminazione dei neonati e
dei bambini malati, malformazioni della razza umana e veri e propri parassiti
della società. In seguito, si propose – e venne approvata – persino la
Deportazione delle coppie responsabili della nascita di tali abomini.
La morte periva ogni giorno sotto i tratti di una penna, di una mano di un Boia
nato per uccidere, nato per il vuoto. “Nulla in vita e nulla in morte”, avrebbe
commentato Bukowski. E la nostra storia si inarcherà proprio sulle dita di una
giovane Boia, madre di morte eppur sterile, la seconda del regno di Kira VIII:
Dana Ørssen. Chi ha mai detto che il sangue raggrumato non può uccidere?
Come
ogniqualvolta leggevo quel passo, mi inebriai della frizzantezza apocalittica di
un seguito, di una degenerazione del già corrotto pensiero di Kira: era tutto
così plausibile. Pareva quasi una fusione fra nazismo e Socing, il socialismo
inglese di 1984, la sua ambigua
duplicità e la sua brutalità osannata e giustificata.
Godetti di
quella sensazione, come bollicine di una bevanda gassata versata sulla pelle.
B-brividi… incontrollabili. Piacere perverso e puro.
“Marti’,
per favore, fa’ uno squillo a tuo fratello. Sono le undici e mezza e ancora non
si ritira, mamma ha cucinato, porco demonio!”, sbraitò mio padre dalla cucina.
Istinto
omicida. Un’altra volta?! Ma era dettato dal fastidio, non c’era da
preoccuparsi.
“Sììì.”,
sospirai urlando.
E in quel
momento, mentre selezionavo Alex-emo –
avevo scoperto che essere preso in giro rimuoveva per un attimo la sua patina di
apatia, il che era uno spasso totale – e premevo il pulsante verde
giocherellando con gli occhiali, quello stesso ansimante istinto omicida mi
contrasse fra le sue zampe artigliate e selvagge.
Light ha massacrato il mondo e il mondo ha massacrato Light.
Gli
individui erano abbastanza potenti da resistere, proprio come le grandi
congreghe.
Ma le
piccole società?Quelle sono impotenti,
ibride e fragili.
Dallo
sguardo spietato di Light colava sangue.
Sembrava
volermi concedere un nullaosta.
Pronti?
Partenza…
Via.