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Autore: hotaru    31/10/2009    0 recensioni
Una vecchia signora, filosofa nell’animo, e una giovane donna dallo spirito combattivo.
Una alla fine, l’altra all’inizio di qualcosa.
“Devo continuare a respirare… domani, il sole sorgerà e chissà la marea cosa può portare...”
Perché la marea si alza e si abbassa di continuo: sta a noi decidere di seguirla o di aspettare ciò che vorrà portarci.
Intanto respira.
Terza classificata al contest "Dal Film alla Storia" indetto DarkRose86
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1- Salame e pomodori
Alta marea, bassa marea


“Devo continuare a respirare...
Domani, il sole sorgerà
E chissà la marea cosa può portare...”
(dal film “Cast Away”)




Alta marea, bassa marea



Salame e pomodori


Scrutò ancora quella foto, a lungo, cercando di riportare alla mente una qualche familiarità con quei volti sconosciuti.
La posò nuovamente sul mobile con un gesto stanco. Nulla.
Immagini vuote, senza significato, come avrebbero potuto essere le foto di un estraneo.
Il sole aveva iniziato ad abbassarsi, ormai, perciò poteva tranquillamente riaprire le imposte che aveva socchiuso nelle ore più calde.
Quanti tramonti aveva visto nella sua vita? Migliaia, decine di migliaia. Li avrebbe dimenticati tutti?
Forse quest’ultimo particolare sarebbe stato il meno terribile. Magari avrebbe visto ogni nuovo tramonto come fosse stato il primo. Perennemente sorpresa, come i bambini alla scoperta del mondo.
Sospirò. No, non si illudeva. Sapeva che non sarebbe stato affatto così, ma immaginarlo finché aveva ancora il controllo della propria mente aveva qualcosa di confortante.
Il campanello suonò, ma non la sorprese. Aveva già sentito il familiare scampanellio di una bicicletta… le stringeva il cuore pensare che un giorno non l’avrebbe più riconosciuto.
- Nonna, ci sei? La mamma mi ha mandato a portarti i pomodori! – uno dei suoi nipotini di mezzo piombò nella stanza, con un sacchetto stracolmo tra le mani sporche di terra – Sono freschissimi, li abbiamo raccolti proprio oggi! -.
- Ringrazia tua madre da parte mia – disse lei – Fammi un favore, mettili in cucina -.
- Farai la conserva anche quest’anno? – chiese lui, un ragazzino di undici anni che non aveva ancora perso tutti i denti da latte.
- Mah, vedremo – replicò lei – Non è certo una passeggiata, e quest’anno fa parecchio caldo… -.
- Ti do una mano io, quando vuoi! – si offrì il nipote, volenteroso.
- Vedremo, vedremo – ribadì, sicura che dietro le offerte d’aiuto del ragazzino ci fosse la speranza di evitare i compiti delle vacanze – Adesso va’ a casa, sarà già pronta la cena -.
- Va bene, ciao! – e, così com’era entrato, si era già precipitato fuori.
Un po’ lentamente, arrivò in cucina, dove sul tavolo era posato il sacchetto con i pomodori. Grossi e rossi, assolutamente splendidi.
Ne prese in mano uno: sapeva di terra, di sole. Era ancora caldo.
Aprì il cassetto delle medicine e prese il barattolo che vi aveva nascosto in fondo, in un angolo.
Quanto era freddo, in confronto. Freddo e duro, con quell’asettica plastica bianca.
Rimase lì, con gli occhi velati, a guardare i due oggetti che teneva in mano. Caldo e freddo. Profumato e inodore. Vita e morte.
Con un brivido, posò sul tavolo il flaconcino pieno zeppo di sonniferi.
Se, tanti decenni fa, sua madre avesse saputo come avrebbe voluto farla finita sua figlia, un giorno, le avrebbe ficcato la testa in un catino senza tanti complimenti. Lei, vedova dopo quindici anni di matrimonio, che aveva tirato su cinque figli, non avrebbe mai voluto sentire nulla del genere.
Ma mezzo secolo prima quella viscida malattia non esisteva.
Chiuse gli occhi, stringendoli forte. Lei, poi.
Lei che ricordava i nomi dei parenti più distanti, i compleanni di tutti e persino le date di matrimonio. Lei che non aveva alcuna difficoltà ad imparare le poesie, alle elementari.
Oltre al danno, la beffa.


* * *


Tolse la spessa calza lentamente, quasi con timore.
Poi si rimirò le gambe, racimolando il coraggio di alzare gli occhi verso lo specchio.
Quando si decise, quasi sbuffò.
Dio, che mostro.
Una gamba accettabile e l’altra… beh, sembrava quella di un lebbroso.
Completamente bianca, tranne per le grosse chiazze violacee sparse un po’ ovunque. Non provava nemmeno a toccarle, memore di quanto le facessero male.
Riprese in mano la calza color carne, sudando freddo al pensiero di doversela infilare di nuovo.
Con un sospiro, prese mentalmente nota di non passare mai più un’altra estate incinta. A costo di contare i mesi in cui farlo.

“Signora, è necessario” ricordava bene le parole del medico “Purtroppo è una delle conseguenze più sgradevoli di una gravidanza: le macchie sono causate da una serie di capillari rotti a causa della pressione. Normalmente si presenta in forma più leggera, ma nel suo caso sarebbe meglio prendere delle precauzioni.”
Ossia quella cosa più spessa di un calzettone di lana, lunga dalla coscia alla caviglia, che la stringeva come in una morsa. Da portare per l’intera estate. Ma che fortuna.
“La pressione esercitata dovrebbe ridurre la rottura dei capillari. Fino a dopo il parto non si può fare nient’altro.”
Ah. Chissà nell’Ottocento che rimedio le avrebbero prescritto.

Altro calcio.
Accidenti, ma cosa spingeva? Non si usciva dall’ombelico!
- Dio, spero che sia un maschio. Se è una femmina devo già prepararmi a litigare di brutto – mugugnò, cercando di rimettersi faticosamente la lunga calza.
Una volta riuscita nell’intento, le ci volle un po’ per normalizzare il respiro. Piegarsi glielo mozzava, con quel pallone gonfio a separarla dalle sue ginocchia. Lavarsi i piedi, nella doccia, era diventato impossibile.


* * *


“Ninetta mia, a crepare di maggio,
ci vuole tanto, troppo coraggio.
Ninetta bella, dritto all’inferno
avrei preferito andarci in inverno”. (*)

In realtà non era mai stata d’accordo con le parole di quella famosa canzone. Era questione di opinioni, d’accordo, come la stagione preferita o i dilemmi cane-gatto e mare-montagna.
Eppure ogni volta che sentiva quelle parole non poteva fare a meno di provare un certo fastidio. Certo che le sarebbe piaciuto morire in primavera, potendo scegliere.
Tutti i suoi conoscenti e i suoi stessi figli la guardavano increduli quando diceva così, scuotendo compassionevoli la testa.
“Macchè! Vuoi lasciare questo mondo quando è più bello?” era il commento più gentile che riceveva.
Eppure c’era un che di deludente nel pensare di andarsene in una giornata fredda, nebbiosa, in cui la gente usciva soltanto con sciarpa e guanti. Troppo facile mollare tutto in un momento come quello.
Invece morire in primavera- o ancora meglio, in estate- aveva un fascino sottile e quasi sensuale- a settant’anni passati non ricordava di aver mai usato quella parola!
Il fascino inverso e capovolto di chi sa rinunciare alle cose migliori, cogliendone forse la vera bellezza nel riuscire ad allontanarle. La gloria dell’atleta che si ritira nel momento più sfolgorante della propria carriera.
Un’uscita in pompa magna, insomma, nell’estasi totale dei sensi. Chissà se il corpo, mero agglomerato di cellule, avrebbe ricordato quel particolare momento in cui l’anima se ne andava. Se i profumi, il calore, il sole e il cielo smagliante di quel giorno sarebbero rimasti impressi sulla pelle, le unghie, i capelli; anche se morti.
Sarebbe cambiato qualcosa?
Non lo sapeva, né si illudeva di giungere a qualche conclusione. Ma immaginarselo soltanto era di un conforto incredibile.
Inverno dentro; estate fuori. Un corpo che diventa freddo, ghiaccio tale che nemmeno il sole d’agosto può scioglierlo. Immobilità totale, rigidità delle membra; mentre solo nel giardino chissà quante centinaia d’insetti brulicavano senza sosta, imperterriti.
Aveva sempre adorato i contrasti. La vita si basa sulle antitesi, in fondo.

A pensarlo in quei termini non sembrava più così brutto.


* * *


Il salame non le era mai piaciuto particolarmente, ma adesso ne aveva una voglia pazzesca. Al supermercato doveva sempre tirare dritto, inebriata com’era da quell’intenso profumo di carne macinata e insaccata. A volte si sentiva quasi una drogata in crisi d’astinenza.
La commessa di un negozio, mentre lei provava l’ennesima camicia pre-maman, le aveva chiesto qual era la prima cosa che avrebbe voluto fare dopo aver partorito.
A giudicare dalla quantità di fard che aveva in faccia, stava sicuramente pensando a smagliature o cose del genere. Ma lei aveva prontamente risposto: “Sbafarmi un panino con cinque fette di salame”.
Aveva subito richiuso la tenda del camerino per non scoppiare a riderle in faccia, vista l’espressione della donna. Oh, ma lei non scherzava affatto: aveva già ordinato a suo fratello di portarle una rosetta imbottita, la prima volta che le avesse fatto visita in ospedale.
Se non avesse obbedito, non gli avrebbe nemmeno fatto vedere il bambino. O la bambina.
Ma doveva ancora decidersi tra il milanese e l’ungherese. Magari entrambi.

- Ahi – ansimò, fermandosi di botto accanto al divano – Ahi… -.
Sbuffò sonoramente. Perché si raggomitolava tutto da una parte, spingendo contro le pareti della placenta, facendole un male cane? Avrebbe dovuto chiederglielo, una volta cresciuto.
Si sedette sulla poltrona, allungando le gambe sotto il tavolino del salotto. Doveva ancora andare al mare.
Pensare di andarci in agosto e sperare di trovare posto era una cosa assurda, ma una sua vecchia amica che gestiva un “Bed & Breakfast” le aveva promesso di serbare un letto tutto per lei.
“Solo per la soddisfazione di vederti tonda come una mongolfiera e ingrassata come una balena, tu che sei sempre stata un chiodo!” le aveva gentilmente detto.
Oh, ma c’erano anche le smagliature e quella gamba da invalido di guerra. La sua amica ci avrebbe sguazzato tanto da offrirle la colazione per tutti e tre i giorni che avrebbe trascorso da lei.

L’aveva promesso a suo padre, tanto tempo prima.
Quando era ancora abbastanza lucido da raccontare favole a cui non credeva e abbastanza giovane da fare le scale di corsa senza il minimo accenno di fiatone.
Quando le diceva che la gente nasce squilibrata solo perché le madri sono tanto avventate da non portare i figli al mare prima che nascano.
Assurdo, allora e anche adesso. Ma non si sa mai.



(*) Da “La guerra di Piero” di Fabrizio De André





Terza classificata al contest “Dal Film alla Storia” indetto da DarkRose86! Sinceramente parlando, speravo in tutto tranne che nel podio…
Cosa dovevamo fare? Scegliere una frase tratta da un film e costruirci sopra una storia.
Come avete visto all’inizio, io ho scelto quella tratta da “Cast Away”. Un grande film, secondo me, terribilmente vasto.
Ogni volta che vedo un pallone, mi viene da pensare: “Wilson!”.  ^^

Scherzi a parte, in realtà questa storia è un miscuglio di tante cose. Tante esperienze, particolari presi dalle vite di tante persone… vi assicuro che quasi ogni cosa scritta in questo capitolo- e nei seguenti- è vera. Non ho inventato quasi nulla, salvo forse i pensieri della protagonista più anziana, che rispecchiano molto le mie opinioni.
Quindi grazie a tanta gente che non leggerà mai questa storia, ma che in un certo senso ha contribuito alla sua stesura.

   
 
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